giovedì 7 aprile 2011

Aimi Kobayashi: primadonna assoluta

Aimi Kobayashi in un quadro di Margaret Wiierzbicka

Quando assistiamo al fenomeno di un genio infantile, inconsciamente siamo soggetti ad uno spontaneo condizionamento: che cosa farà da grande? Ora Aimi Kobayashi si avvia a compiere 16 anni: sin dalla sua prima apparizione in pubblico, e cioè all’età di tre anni, le sue esecuzioni sono state impeccabili, e dopo poco sono state talmente perfette, talché io ho potuto asserire che, quegli stessi pezzi, non tutti estremamente facili, nessun pianista ben affermato li avrebbe potuto eseguire meglio, e nell’articolo “Aimi Kobayashi: il do diesis di Dio”, portavo come esempio l’Improvviso op. 90 n. 2 in mi bemolle maggiore di Schubert eseguito all’età di anni 7. Ebbene, di questo Improvviso posseggo l’esecuzione principe di Dinu Lipatti, il prodigioso pianista rumeno morto nel 1950 all’età di 33 anni la quale, per le prime 84 battute, dà l’idea di essere la migliore esecuzione possibile. Alla battuta n. 85 il brano, che consiste in un vorticoso ma dolce susseguirsi di terzine scorrevoli come le acque di un fiume, giunge al cosiddetto episodio centrale, con melodia squillante affidata ad accordi. Da questo punto in poi l’interpretazione di Lipatti sembra ancora sublime, ma il confronto con Aimi Kobayashi mostra che il maestro rumeno cade in preda a sentimentalismi, ad accentuazioni, ad indugi, ancorché fugacemente accennati, ma, sempre nel confronto, chiaramente distinguibili. Ciò vale nel confronto tra l’esecuzione di Aimi e quella di qualsiasi altro grande maestro. All’inizio ognuno di loro sembra potersi imporre dall’alto di una classe inarrivabile, ma all’arrivo della battuta n. 85 devia dalla retta via ed esibisce i propri personalismi. Aimi, invece, va avanti imperterrita, si attiene strettamente allo spartito. Sembra essere impervia ad ogni emozione, ed invece la sua esecuzione è altamente emotiva. Sembra ricacciare da sé ogni lusinga passionale, ed invece la sua esecuzione è la più appassionata, romantica, a volte goliardica, a volte eroica, in ogni caso vigorosa e squillante. Cosa che le riesce perché dall’intelligente decodificazione dello spartito ella estrae la quintessenza dell’anima schubertiana e non s’accontenta finché non perviene all’interpretazione vera. Franz Schubert è l’aedo dell’intero romanticismo tedesco, ed anche Aimi Kobayashi lo è. Parliamo di una bambina di sette anni.

Aimi e le variazioni di Beethoven 


“Nel cor più non mi sento”
Ed ora parliamo di una bambina di cinque anni che esegue le sei variazioni di Beethoven sull’aria di Paisiello “Nel cor più non mi sento”, dall’opera “La Molinara” (o “La bella molinara” come dicevano ai miei tempi). Beethoven deve essere rimasto fulminato da quest’aria, che andò in scena a Napoli nel 1788, ovviamente con l’opera “La Molinara”, e quando la conobbe, nel 1795, compose le variazioni. Che siano passati solo 8 anni dalla prima dell’opera, al suo arrivo alle orecchie di Beethoven non deve destare alcuna meraviglia, perché dal 1792 Beethoven si era trasferito a Vienna, città che, dal punto di vista culturale, per gli italiani era diventata quella che fu Roma nei confronti dei greci, e cioè un polo d’attrazione irresistibile. La corte di Vienna fa incetta di letterati, musicisti, impresari e compagnie di canto. Apostolo Zeno, Goldoni, Metastasio, Lorenzo da Ponte, Salieri….ed all’imperatore non basta più neanche Mozart: vuole Domenico Cimarosa, che però è tenuto ben stretto da Caterina di Russia. Beethoven era già venuto qualche anno prima a Vienna e, si dice, ebbe un’audizione da Mozart. Il quale, invece di dargli lezioni, gli disse: “Siete talmente bravo che non ne avete bisogno!” Errore fatale: Beethoven era talmente bravo in ogni settore della musica strumentale da far dimenticare la sua inesperienza nel canto, specie nel canto corale. In effetti non si sente la mancanza di un Beethoven operista, e la saltuaria esecuzione del suo Fidelio è più un avvenimento mondano che artistico, però il sinfonista ad oltranza (com’ero io da giovane, assieme ad un pugno di miei amici) col tempo si accorge che la parte corale della Nona è strozzata ed isterica nel coro, e sfiora la stonatura nell’aria del tenore: “Froh, wie seine Sonnen…” (Marcia Turca). Quanto alle sue due Missae, basta confrontarle con quelle di Mozart e col Requiem di Verdi per ridimensionarne la portata. E pensare che l’enorme popolarità di Beethoven proviene proprio dalla irresistibile melodia dei cantabili delle sue sonate e delle sue sinfonie! Beethoven si trovava a vivere in una città in cui la moda dell’italianismo sfiorava la follia. L’imperatore imponeva al suo popolo le opere di Lorenzo da Ponte musicate da Mozart (Don Giovanni, Le nozze di Figaro, Così fan tutte) che furono capite solo dopo, molto dopo, quando si cominciò ad eseguirle anche in tedesco. E sfiora il paradosso il fatto che l’imperatore rimproverasse la prolissità delle Nozze di Figaro (“Troppe note, signor Mozart!”), e andasse poi in brodo di giuggiole per un’altra opera italiana, “Una cosa rara”, composta su libretto di Lorenzo da Ponte dal compositore spagnolo Vicente Martin y Soler (che veniva comunemente chiamato Martini), opera interminabile, ancora più lunga delle Nozze di Figaro. Giuseppe II fu talmente entusiasta di quest’opera che, al termine della sua esecuzione in teatro, si portò a corte l’orchestra e i cantanti e, dopo cena, se la fece rieseguire per intero. D’altra parte anche Haydn, padre della musica tedesca, compose quattordici opere teatrali tutte in italiano.

Beethoven nel 1796


È comunque impossibile che un compositore profondamente sinfonico, strumentale e …tedesco come Beethoven sfuggisse al fascino della musica italiana, che rappresentava ufficialmente la “cultura primigenia” (persino Wagner veniva ad inebriarsi di musica primigenia in Italia), ed ecco quindi le deliziiose variazioni sul tema di Paisiello. Questo brano è molto eseguito specie dai principianti, perché di difficoltà non trascendentale. Ed è prediletto anche, dai grandi pianisti che, quando lo eseguono, dall’alto della loro maestria, vogliono mostrare “come va eseguito”, impregnandolo di birignao, quel tono affettato e pretenzioso di chi le cose le fa, non sul serio, ma alla maniera di... La piccola Kobayashi esegue queste variazioni alla... maniera di Aimi Kobayashi: decisa, veloce, stagliata, imperterrita e, soprattutto, sonora. Sì, sonora. Da quando esistono documenti delle sue esecuzioni musicali, cioè da quando aveva tre anni, ciò che stupisce è la sua sonorità, intesa come quantità e ampiezza del suono prodotto. Ed anche: come ambienza, spaziosità, intensità o, più semplicemente: volume. Volendo rispiarmiarsi tutti questi aggettivi, si può dire che Aimi Kobayashi suona più forte. La sua mano sinistra sembra quella di un gigante, che produce bassi sismici ed implacabili.
All’inizio di questo paragrafo ho parlato di una bambina di cinque anni, ma, guardando bene, quando ha suonato queste variazioni, Aimi cinque anni ancora non li aveva. Tutti i dati relativi all’infanzia di Aimi non sono stati raccolti in tempo reale, bensì sono stati riscostruiti molti anni dopo. C’è voluto tutto l’amore e tutta la pazienza di Romilly Hambling per far ordine e chiarezza in tal materia. Costui è uomo dai molteplici interessi ed ha più di un blog su Internet. Uno di questi è di carattere naturalistico ed è dedicato all’osservazione e alla protezione dei gufi, civette e barbagianni nella cosiddetta “Landa Boscosa” (Weald) del Kent, il cui indirizzo è: http://www.godsownclay.com. Ma il sito di maggior importanza per noi è quest’altro:http://www.godsownclay.com/Equipment/aimi_kobayashi_1.html si tratta di un sito dedicato completamente ad Aimi Kobayashi, ai suoi concerti, alle sue incisioni ed agli articoli giornalistici che parlano di lei. Tra questi ultimi ci sono anche gli articoli di Famiglia Moderna, di cui è riportato l’indirizzo, e che è per noi fonte di tanti nuovi lettori specie dagli USA e dal Giappone. Ebbene, secondo Romilly Hambling, Aimi Kobayashi ha ufficialmente eseguito le variazioni di Beethoven sul tema “Nel cor più non mi sento” di Giovanni Paisiello nel corso della competizione PTNA (Piano Teachers’ National Association) in data luglio/agosto 2000. Ed essendo Aimi nata il 23 settembre 1995, in quella data aveva ancora quattr’anni. Accanto a queste variazioni ho incluso una mazurka ed un valzer di Chopin suonati da Aimi nel corso del suo concerto di Nagoya, quello in cui aveva suonato la sonata Waldstein di Beethoven. La particolarità di queste riprese, di cui sono detentori dei diritti Paul Lewis, Romilly Hambling e la stessa Aimi Kobayashi, è quella di essere state effettuate, contemporaneamente, da una e da quattro telecamere. Quella da una telecamera è concentrata specialmente sull’espressione emotiva di Aimi, quella da quattro telecamere è invece concentrata sulla tastiera e quindi sul movimento delle dita.


Consacrazione
In definitiva l’esecuzione delle variazioni “Nel cor più non mi sento” della quattrenne Aimi Kobayashi sembra una lezione di Maria Callas alla Julliard School di New York, quando andava ad insegnare ai tenori come si canta il Lamento di Federico, e fa pensare alla leggenda di Gesù Bambino che andava a disputare nel Tempio con i sapientoni. Non essendo edotto sui primi anni, anzi sui primi mesi, o meglio: sulle prime ore di vita di Aimi Kobayashi, mi domando come, dove e quando abbia imparato a suonare il pianoforte, visto che le sue prime apparizioni sono quelle di un maestro, non di una piccola allieva. Evidentemente questa bambina è di origine divina. Ma io, in precedenti scritti, ho espresso anche il dubbio che il suo accesso alla completezza di donna, l’insorgere in lei della passione, potesse indebolire, facesse vacillare, la sua certezza interpretativa. Avrei potuto dare una risposta immediata a questo interrogativo, se solo avessi avuto la visione completa del quadro di cui mi veniva fornito solo un frammento. Il frammento era l’esecuzione del notturno op. 20 in do diesis minore, che ho trattato nell’articolo: “Il do diesis di Dio”. Allora sapevo solo che l’esecuzione era avvenuta il 29 ottobre 2010. Poi venni a sapere che si trattava di un bis concesso nel corso di un concerto di cui non avevo alcuna contezza. Nel corso dei successivi cinque mesi, a piccole dosi per volta, sono venuto a sapere che un altro bis di quello stesso concerto era costituito da una esecuzione “dantesca” dello studio, sempre di Chopin, op. 10 n. 4, e sempre in do diesis minore. Mi accorsi che su YouTube appariva un tempo del concerto n. 2 di Chopin, eseguito da Aimi Kobayashi il 28 ottobre 2010. A poco a poco il concerto n. 2 di Chopin si concretizzò in due distinte pubblicazioni, di cui una buona per essere ripresa. Poi è apparsa l’esecuzione del notturno op. 20 in do diesis minore come bis del concerto del 28 ottobre, per cui ci sono state due diverse serate musicali con lo stesso programma e con gli stessi bis. E sistemando questi dati nelle loro giuste caselle, vien fuori che io ho esposto un quesito la cui risposta era stata data il giorno precedente. La risposta al mio quesito e, più in generale, alla domanda di rito: “Che cosa farà da grande?” è riposta nell’esecuzione di Aimi Kobayashi del concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Chopin, un avvenimento musicale che non credevo possibile. Ed in effetti questo avvenimento non era materialmente possibile neanche nel miglior posto nella sala da concerto, neanche al posto del direttore d’orchestra. I microfoni e le telecamere hanno rivelato, anzi hanno radiografato ogni palpito dell’esecuzione, cui non è possibile dare un resoconto sintetico. Si potrebbe dire che ho passato invano i primi 82 anni della mia vita, ma non è vero. In questo periodo di tempo ho accumulato una esperienza ed una sensibilità che mi permettono di dire che mai una esecuzione concertistica era stata in tal misura determinata dal valore del solista. Per fortuna quanto dico non è frutto del sogno di una notte di mezza estate, ma è una realtà documentata. Ed ognuno può esprimere il suo giudizio. Ma vi avverto: se avete un amico hacker, cioè capace di scaricare da internet anche ciò che non è legalmente scaricabile, scaricate indelebilmente questo concerto, che può essere cancellato da YouTube in ogni istante secondo il desiderio e il diritto di chi ne detiene il legale possesso: anche quando sarà pubblicato, presumibilmente dalla EMI, il disco di questo concerto, questa registrazione televisiva che mandiamo in rete ha un valore assolutamente insostituibile. Non solo e non tanto per il suo significato storico, ma per il suo incalcolabile valore intrinseco: un suono super High Fidelity ed una visione super High Definition per una vicenda irripetibile: una bambina prodigio appare improvvisamente sotto le spoglie di una donna superiore e fa adesso quello che farà da grande.



Frederik Chopin (Francesco Hayez)

Il mistero dell’origine
La Kobayashi introduce nel pianismo un nuovo paradigma: quello dell’amante dell’autore. Io paventavo che l’insorgere in lei della passione potesse indebolirla sotto forma di sentimentalismi, e di conseguenza indugi ed incertezze nell’esecuzione che lei, invece, sin dalla nascita, ha sempre condotto con impavida determinazione. Ed invece devo riconoscere che l’insorgere della passione l’ha trasformata in una dinamo emotiva. La sua tecnica, fuori discussione, è veramente un dono divino che la mette in grado di suonare quel che vuole come vuole. Ed ella sfrutta integralmente la sua sovrana podestà della levità del tocco: il pianoforte è un dispositivo meccanico che produce suoni entro due limiti costituiti dall’impulso minimo necessario per passare dal silenzio all’emissione del suono più tenue, al massimo impulso necessario a produrre il suono più forte. Ella spinge il suo fraseggio sino al limite (e sembra superarlo) del suono più tenue e lo sposa con la sua arte più sottile: quella del legato. Ella lega anche lo staccato, anche le pause. Una nota, un accordo tenuto, che sembrano aver esalato l’ultimo respiro acustico, Aimi li riprende e li riporta in vita. Il suo eloquio, la sua dizione, sono ricchissime di sfumature, di nuances, di fremiti e sussurri, e non mancano di confluire nel grido di passione e d’esultanza. Chiude gli occhi e si lascia trasportare dal dialogo interiore. In tale viaggio sentimentale, in tal emotivo rapimento. ella stringe a sé, sul suo soffice seno appena spuntato, il sembiante dell’amante, mentre le sue mani tessono la più dolce delle poesie.
Le sue mani, le sue dita, sembrano quelle gommose di un geko, la lucertolina che s’arrampica sulle pareti e s’addormenta sul soffito della stanza. Come le dita di Valentina Lisitsa sembrano sfiorare i tasti senza toccarli, le dita di Aimi Kobayashi sembrano mai rompere il contatto con la tastiera, e questo è il segreto della continuità della sua perorazione. Ma non è solo il cuore che le batte in petto ad alimentare la sua azione: nella sua testolina una zampillante fonte montana distilla sinapsi ignote al resto del mondo ed alimenta il suo albero della conoscenza. Quand’ero bambino, presso la parentela, i conoscenti ed il vicinato io ero considerato un genio, e mi rammarico di non aver domandato, quando potevo, perché. Adesso il perché mi appare abbastanza chiaro. Sapevo leggere e scrivere prima di andare all’asilo, e leggevo libri di trecento pagine. Tutto merito di nonna Adele, che non mi ha mai regalato né un giocattolo né un dolcetto, ma mi portava al Teatro Reale dell’Opera a vedere il Barbiere di Siviglia, mi insegnava il francese, mi faceva studiare il pianoforte, mi regalava libri, ma innanzitutto, mi aveva regalato una scatola contenente tanti cartoncini con tutte le lettere dell’alfabeto, maiuscole e minuscole, stampate e corsive. E così, giocando, scrivevo e leggevo. Credo che se avessi avuto sempre al mio fianco nonna Adele, la mia vita si sarebbe sviluppata in maniera diversa. Ed indubbiamente Aimi ha mostrato il suo talento precoce ed ha trovato al suo fianco il devoto giardiniere che l’ha fatta crescere, fiorire e fruttificare. Forse la sua storia familiare è presente nei siti internet in giapponese, ma in quelli in lingua inglese si legge solo quando è nata ed in quale prefettura, dopodiché segue l’elenco, interminabile, dei concerti dati e dei premi vinti. Ma chi ha soffiato sul focherello attizzato dalla sua prima scintilla e l’ha tramutato in un inarrestabile falò? Bene, prima o poi lo sapremo.

Il giorno decisivo
Nel frattempo il massimo (ed unico) vero informatore sulla vita e la carriera di Aimi Kobayashi rimane Romilly Hambling con i suoi vari blog su internet. Ove è riuscito già a pubblicare la recensione del paio di dischi di Aimi incisi dalla EMI per il solo mercato giapponese, comunque acquistabili presso le grosse agenzie tipo Amazon. Ebbene, ripeto, io mi sono posto tanti interrogativi su Aimi la cui risposta è tutta contenuta nel concerto chopiniano tenuto il 28 ottobre 2010 (con una coda nel giorno successivo) a Tokyo, nella sala da concerto dell’istituto femminile Shouwa con la Yomiuri Nippon Symphony Orchestra diretta dal maestro Kimbo Ishii Eto in cui venne eseguito, oltre che ad una sinfonia di Dvorak, il Concerto n. 2 di Chopin e, come bis il notturno n. 20 in do diesis minore e l’Etude op.10 n.4. Come ho già accennato, mi ci è voluto un bel po’ di tempo per collegare i brani, apparsi in ordine sparso su YouTube, alle date. Ebbene, io e la cricca dei miei amici di gioventù avevamo sempre relegato i concerti di Chopin nel limbo, ed andavamo in brodo di giuggiole per i concerti di Bethoven eseguiti da Arturo Benedetti Michelangeli. Non era una scelta sbagliata, dati i tempi (anni 40 e 50), in cui la nostra fame di musica classica veniva soddisfatta dai concerti all’Adriano e a Santa Cecilia ma, prevalentemente, dall’ascolto radiofonico. Il quale era generossissmo nei programmi di musica classica sinfonica, strumentale ed operistica ma, acusticamente parlando, era quello che era: limitato nella banda passante, limitato nella dinamica ed affetto da continui disturbi atmosferici. A parte il fatto che chi aveva un vero e proprio orecchio musicale riusciva ad ascoltare e capire tutto quello che c’era da ascoltare e capire anche attraverso le gracchianti apparecchiature di quell’epoca (senza TV, senza stereo e senza modulazione di frequenza), evidentemente la musica di Beethoven, marziale e travolgente, emergeva meglio di Chopin. E comunque non si poteva certo dire che tra noi giovani ci fosse disprezzo e disistima nei confronti di Chopin, tanto e vero che, a clamorosa smentita di quanto detto finora, il brano che ci galvanizzava e che ripetevamo fino all’esaurimento nei nostri concerti fischiettati era la Mazurka op. 68 n. 2 di Chopin, elegiacamente eseguita da Arturo Benedetti Michelangeli.



In questo brano, miracolosamente reperito su YouTube, si può ammirare il Maestro bresciano nella sua rigida compostezza, talché ci si domanda come potevano i comandi del cervello raggiungere mani e dita senza alcun movimento apparente. Invece Aimi Kobayashi si agita, si sposta da destra a sinistra, si alza e si abbassa, anzi si lascia cadere sulla tastiera per produrre i suoi fortissimi. Poi abbassa la sua testolina fino a sfiorare la tastiera per estrarre dal silenzio i suoi pianissimi che più piano non si può. Mi piacerebbe riavere tutta la strumentazione e la camera ad acustica controllata che avevo ai tempi in cui pubblicavo la rivista Audiovisione per eseguire analisi spettrali sull’emissione dei suoni di Aimi, la cui formantica (sruttura spettrale di un suono nella fase iniziale di formazione del fronte d’onda. Questo termine non si trova su nessun dizionario, neanche sul Battaglia e neanche sul New Oxford American Dictionary, ma in articoli che trattano l’acustica del tocco ho trovato un termine che credo perfettamente equivalente: transitorio d’attacco) è di impareggiabile dolcezza, come se fosse dovuta all’interferenza costruttiva delle sole armoniche d’ordine pari. Prima di andare avanti su questa strada, sarà bene che io controlli che cosa si sa su questo argomento. Al momento quello che si può affermare con certezza è che Aimi Kobayashi, più o meno istintivamente, esercita un forte controllo sul tocco, che è diventato una sua caratteristica peculiare se non esclusiva. Ogni suo accordo, arpeggio o singola nota è sempre sotto il dominio della sua capacità espressiva. La prima volta che sono stato in Francia, m’è sembrato che lo zucchero fosse più dolce, il sale più salato, l’acqua più fresca ed il vino più inebbriante. Lo stesso dicasi per un brano musicale suonato da Aimi: se i singoli suoni fossero organismi viventi, si troverebbe che i suoni di Aimi presentano una sensazionale biodiversità. Questo l’ho constatato, per esempio, nel confronto con il titano del pianismo femminile: Martha Argerich, che dalla sua giovinezza fino ai nostri tempi ha sempre suonato mostrando un vollto serio, corrucciato, a volte malevolo e come sospettoso che qualcuno venisse a saccheggiare le sua miniera di diamanti. E deformato da un empito volitivo. Laddove Aimi Kobayashi, col suo visetto di animaletto disneyano, si ritrae in se stessa, si astrae dal mondo e se ne va dove va la sua fantasia, il suo pensiero, lasciandosi cullare “sull’ali dorate”. Il suono di Martha Argerich è rigidamente determinato e preciso. Quello di Aimi Kobayashi è duttile e malleabile come l’oro. Martha Argerich compie integralmente il suo dovere. Aimi Kobayashi esprime tutta la sua gioia di vivere. Ritorniamo per un istante all'esecuzione di Arturo Benedetti Michelangeli della mazurka op. 68, n.2: un  lettore di YouTube mi precede nel dire: “Se togli l’audio e guardi, sembra che non stia facendo nulla, è lì, muove appena le dita, eppure fa tutto e molto di più”. Nella frase precedente il lettore aveva detto: “I pianisti bravi non sono quelli che si agitano, ma sono quelli che eseguono i pezzi più estremi con paurosa semplicità”. Sembra vero, ma non è: i pianisti bravi sono quelli che danno, come possono, tutto quello che hanno nell’anima. Mia moglie, che l’ha vista più volte in concerto, dice che Clara Haskil sembrava un passerotto dalle ali spezzate che a mala pena si teneva in equilibrio sulla tastiera, che svolazzava penosamente, e non si sa dove traeva le forze per suonare come suonava. Quanto ad Aimi Kobayashi, nel suo moto perpetuo non c’è nulla di esibizionismo. Tutti vedono che la bambina si stringe e s’allarga, si alza e si abbassa col suo corpicino, per essere presente in tuti i punti della tastiera e dei pedali ove il suono viene formato, forgiato e modellato. Ella segue un’arcana coreografia, si trasla in un’altra dimensione in cui le lunghezze cambiano a seconda della tensione emotiva, ed in cui il tempo non è metronomico ma viene colto a chicchi e a grappoli. In Aimi Kobayashi tutto l’organismo è chiamato alla produzione del suono. Quando nel concerto n. 2 la pianista, dopo l’introduzione orchestrale, inizia la sua parte, le due mani discendono unite dalla parte alta della tastiera, quella dei suoni acuti, alla parte bassa, quella dei suoni gravi. Ivi giunte, la mano sinistra rimane abbandonata priva di sensi sulla tastiera, mentre la destra s’invola in un aereo solfeggio. Durante il quale la mano sinistra riprende i sensi e si autosostiene con suoni prelevati direttamente dal silenzio. È così che viene costruito il legato continuo “a la Kobayashi”, che può essere faticosamente descritto a parole, ma che risulta evidente dalla visione, dove non ha bisogno di essere spiegato ai profani che spontaneamenta lo intuiscono. Il suono della Kobayashi è congenitamente audiovisivo. Gli antichi amanti dell’Alta Fedeltà non possono chiudere gli occhi ed immaginarsi che ella suoni veramente nel loro salottino. Per ascoltare veramente Aimi Kobayashi bisogna vederla suonare.


Attenzione: per evitare inceppamenti, fissare la definizione non oltre 480p
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Prima donna assoluta
Chi aspetta ancora un po’ per emettere un giudizio definitivo su Aimi Kobayashi, e che seguita a porre l’interrogativo: “Bisognerà vedere che cosa farà da grande”, è completamente fuori strada. Dal concerto del 28 ottobre 2010, che è materia di questo articolo, a tutt’oggi, Aimi Kobayashi ha vinto la 12th International Chopin Piano Competition in Asia in January 2011 nella “Division C”, cioè aperta a tutti, senza limiti d’età (le altre categorie avevano limiti d’età a 15 e 22 anni). Un vero e proprio campionato mondiale, ed Aimi Kobayashi entra nell’albo d’oro come la più giovane vincitrice. Contemporaneamente Romilly Hambling riporta il giudizio di due acquirenti (musicisti) del secondo CD di Aimi Kobayashi edito dalla EMI inizialmente per il solo mercato giapponese. Il disco (HQCD), intitolato “Aimi Kobayashi” contiene due sonate di Beethoven (Patetica e Appassionata) e le Kinderszenen (Scene Infantili) di Schumann. I due musicisti hanno giudicato con indifferenza le due sonate, ma hanno asserito che le Kinderszenen sono “Una cosa al di fuori di questo mondo”. Il giudizio sulle sonate non concorda col giudizio entusiastico dato dai critici sulle sue esecuzioni in concerto. In compenso il giudizio sulle Kinderszenen concorda col mio pensiero. Cioè che Aimi è una vera dinamo emotiva che si esalta col sentimentalismo. Che diventa una sua arma invincibile (quando io temevo che fosse un pericolo in agguato). Aspettiamoci quindi che Aimi esegua l’intera opera omnia di Schumann, e poi seguiti con Schubert, Mendelssohn e completi la sua panoramica su Chopin. E se scoprisse una vena di romanticismo nelle 555 sonate classiche di Domenico Scarlatti suonato, invece che col clavicembalo, con tutta la squillante sonorità di uno Steinway? Questo esperimento è già stato tentato con pieno successo da Christian Zacharias, rivelando un compositore nuovo, fresco, dinamico, da rispolverare e da mandare in scena, come ha fatto la Callas che ha riportato alla luce vecchie opere cadute ma non sepolte nell’oblio. E come la Callas veniva eletta e riverita come “Primadonna Assoluta”, così pensiamo che Aimi Kobayashi sia matura per adornarsi dello stesso titolo.

(Fototitolo: www.paintingsbymargaret.com, le altre: foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)