Può darsi che non tutti i lettori conoscano, di nome, la sonata di Beethoven n. 14, op. 27 nr. 2, in do diesis minore, dall’autore denominata : “Quasi una Fantasia”, ma tutti, di fatto, conoscono almeno il primo tempo, l’adagio sostenuto, della sonata : “Al Chiaro di Luna”. In effetti Beethoven non ha mai composto una sonata avente questo nome, ma fu alcuni anni dopo la sua morte che il critico musicale, poeta e scrittore Ludwig Rellstab gli attribuì questo titolo che la rese famosa: “Mondscheinsonate”, ovvero Sonata al Chiaro di Luna perché, prendendo il primo movimento come una barcarola, questo gli suggeriva il ricordo di una gita in battello, possibilmente notturna, sul Vierwaldstättersee. Cioè sul Lago dei Quattro Cantoni, di cui la località rivierasca più nota è la città di Lucerna, la perla della Svizzera interna. La sonata piaceva assai, il suo nuovo titolo piacque alla follia, ed in tutto il mondo il brano divenne noto col nome di Moonlight, Au Clair de Lune, al Claro de Luna…Questa sonata è leggermente atipica, perché manca di un primo tempo tradizionalmente svelto (in genere allegro), sostituito dall’adagio sostenuto, che tutti conoscono, dolente, meditativo e lamentoso. Nei movimenti successivi la sonata prende l’aire ed acquista velocità: il secondo tempo è un allegretto in re bemolle che sembra un minuetto. Quanto al terzo tempo, esso è un presto agitato che, nelle mani di Valentina Lisitsa, diventa un vero e proprio tempestoso. Rendendosi conto di queste anomalie rispetto alla schema tradizionale, Beethoven questa sonata la denominò, come abbiamo visto: Quasi una Fantasia, ed adesso sappiamo perché. D’altr’onde, è proprio questa libertà stilistica che portò Beethoven a svincolarsi dal formalismo haydn-mozartiano e sfociare nel travolgente romanticismo tedesco. Se poi la gita notturna in battello del poeta Ludwig Rellstab si fosse conclusa, come la sonata, con una tempesta tipo quella del Guglielmo Tell di Rossini, allora le analogie sarebbero state…..
Ludwig van Beethoven |
Benché più volte mi sia vantato di provenire da una famiglia di pianisti (nonne, mamme, zie e zii, sorelle), il “Chiaro di Luna” non l’ho mai sentito durante il periodo di allattamento, né negli immediati anni della puerizia, ma solo quando, undicenne, frequentavo la spiaggia di Fregene. Per un caso veramente più unico che raro, tutti i fanciullini che conobbi erano del 1929, e quindi fu del tutto istintivo associarci in una banda, di cui faceva parte anche Loris, uno che aveva qualche anno più di noi, e che precorreva d’una ventina d’anni il personaggio televisivo di Fonzie. In effetti Loris era un personaggio singolare: aveva una bicicletta da corsa, con un manubrio da corsa, i tubolari da corsa ed un cambio che gli assicurava una netta superiorità su strada su tutti noi. Anche sul mare aveva una netta superiorità su tutti noi che, per imitare il bagnino che aveva partecipato alla trasvolata dei “Sorci Verdi”, remavamo alla veneta su pesanti mosconi (che chiamavamo pattìni), mentre lui sfrecciava come un MAS a bordo del suo sandolino stretto e lungo, su cui remigava con una pagaia a due pale. Altra sua caratteristica che lo differenziava da noi era il fatto che era sempre circondato da uno stuolo di ragazze grandi (che erano prevalentemente, ma non tutte, sue sorelle). Inutile aggiungere che batteva un crawl perfetto. Nel complesso, rispetto a noi, era spavaldo, irriverente e strafottente, per cui i nostri genitori lo consideravano una cattiva compagnia. E noi eravamo d’accordo.
Un giorno fummo invitati tutti a casa di Liana, un’altra del 1929, figlia del tenore Tito Schipa (che a quel tempo era chiacchierato per via di una relazione con la regale attrice cinematografica Caterina Boratto). Per la proverbiale megalomania di Tito Schipa, la sua villa era la più grande e fastosa di tutte, benché a quel tempo Fregene, che era una proprietà privata della Banca d’Italia, pullulasse di famiglie dell’alta nobiltà, di imprenditori di successo, di ingegneri e architetti, pittori e scrittori, e di gerarchi del Fascio. Per tutto il periodo di splendore di Fregene, una cittadina fatta di ville nascoste nella pineta, Tito Schipa non si fece mai vedere, per cui Liana, sua figlia prediletta, era la padroncina di casa. La quale casa consisteva in una grande edificio di più piani, con gli alloggi per i padroni e la servitù, ampi saloni, corridoi, quadri, statue, specchi e mobili di lusso.
Poi c’era un altro edificio, un teatro munito di palcoscenico e poltroncine, pianoforte a coda e locali vari. In questo secondo edificio ci trovavamo noi, per la prima volta invitati in quella villa: chi giocava nel parco, chi esplorava i vari locali del teatro, e chi…suonava lo Steinway: sì, ad un certo momento sentimmo le note dell’adagio del “Chiaro di Luna” e tutti fummo colpiti dalla maestosa bellezza della melodia, diversa dagli arrangiamenti del maestro Semprini sulle canzoni di Alberto Rabagliati, che tutti noi strimpellavamo per essere alla moda, in quei tempi. Corremmo per scoprire chi fosse l'ignoto pianista, e vedemmo Loris seduto al piano, come rapito e trasfigurato, col capo chino quasi a sfiorare la tastiera. Rimanemmo ammutoliti e restammo in religioso silenzio fino alla fine del brano, e quando ciò avvenne, lo applaudimmo con sincero entusiasmo. Io mi lanciai su di lui, e volli sapere nome e cognome del brano. Tornato a casa, mi precipitai sui tre volumi delle sonate di Beethoven, edizione Ricordi con annotazioni di Alfredo Casella, e, trovata la sonata, cominciai subito a cercare di capirci qualche cosa. Rimasi però perplesso nel leggere, subito all’inizio, questo monito beethoveniano: “Si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordini” e, una riga sotto: “sempre pianissimo e senza sordini”. Sembrava una contraddizione in termini, perché il vecchio Petrov verticale di famiglia aveva due pedali: quello del piano e quello del forte. Quello del piano “metteva la sordina” e smorzava il suono, mentre quello del forte “levava i sordini” ed amplificava il suono. C’era una sottile differenza tra la sordina ed i sordini, per cui “senza sordini”, in definitiva, significava mettere il pedale del forte. Ma come si conciliava il fatto di suonare “sempre pianissimo” tenendo il piede sempre pigiato su pedale del forte? Ebbene, la contraddizione non è apparente e dovuta alla mia inesperienza, ma è reale e messa in bella evidenza da numerosi musicologi! I quali l’attribuivano alla differenza dei pianoforti d’allora rispetto a quelli d’oggidì.
Lì per lì mi sono rammaricato che, nelle due esecuzioni di Valentina Lisitsa che ho incluso in questo articolo, non vi era nessuna inquadratura della figura intera, che permettesse di verificare se la Lisitsa tenesse il piede fisso sul pedale del forte (come prescriveva Beethoven), o se lo alzava e abbassava come credeva opportuno. Ma fortunatamente, nell’esecuzione effettuata in dicembre 2009 nella Beethovensaal di Hannover, ogni tanto l’inquadratura cade sul telaio delle corde, e si vede chiaramente la meccanica dei feltrini che si alza e s’abbassa in sincronia con l’uso del pedale, Vi dico subito che questa esecuzione si distingue perché qui Valentina Lisitsa indossa una giacca nera e si vedono i polsini bianchi della camicetta, mentre nell’altra esecuzione la Lisitsa indossa una maglietta nera. Ebbene, da quello che ho capito, andando a vedere le esecuzioni di vari pianisti, costoro sistematicamente ignorano la prescrizione di suonare “senza sordini”, e rendono il “delicatissimamente” ed il “sempre pianissimo” lavorando sui pedali secondo la loro maniera. Fa eccezione Andras Schiff il quale introduce una riforma del metronomo, applicando il tempo “adagio sostenuto” non all’intera battuta ma a metà di essa, in pratica raddoppiando la velocità d’esecuzione. Ed applicando fedelmente e rigidamente la condizione “senza sordini”, tenendo premuto il pedale del forte per tutta la durata del primo movimento. Ho inserito anche l’esecuzione dell’adagio di Andras Schiff in cui manca la ripresa televisiva, ma si sente benissimo ad orecchio il ritmo accelerato e la risonanza dovuta al pedale del forte. Quanto alla Lisitsa, si conferma come il punto di riferimento fisso del pianismo attuale. L’adagio sostenuto lo suona con le mani ferme sulla tastiera, contraddicendomi laddove dissi che le sue dita sembrano non toccare la tastiera, mentre la Kobayashi sembra non staccarsene mai. Questa volta è la Lisitsa a rimanere incollata ai tasti, producendo un legato di nome e di fatto. Il secondo movimento fa da intermezzo tra i due movimenti estremi senza prendere parte alle loro vicende, rendendo ancor più sorprendente la violenza implacabile del presto agitato:
Contessina Giulietta Guicciardi |
Poi c’era un altro edificio, un teatro munito di palcoscenico e poltroncine, pianoforte a coda e locali vari. In questo secondo edificio ci trovavamo noi, per la prima volta invitati in quella villa: chi giocava nel parco, chi esplorava i vari locali del teatro, e chi…suonava lo Steinway: sì, ad un certo momento sentimmo le note dell’adagio del “Chiaro di Luna” e tutti fummo colpiti dalla maestosa bellezza della melodia, diversa dagli arrangiamenti del maestro Semprini sulle canzoni di Alberto Rabagliati, che tutti noi strimpellavamo per essere alla moda, in quei tempi. Corremmo per scoprire chi fosse l'ignoto pianista, e vedemmo Loris seduto al piano, come rapito e trasfigurato, col capo chino quasi a sfiorare la tastiera. Rimanemmo ammutoliti e restammo in religioso silenzio fino alla fine del brano, e quando ciò avvenne, lo applaudimmo con sincero entusiasmo. Io mi lanciai su di lui, e volli sapere nome e cognome del brano. Tornato a casa, mi precipitai sui tre volumi delle sonate di Beethoven, edizione Ricordi con annotazioni di Alfredo Casella, e, trovata la sonata, cominciai subito a cercare di capirci qualche cosa. Rimasi però perplesso nel leggere, subito all’inizio, questo monito beethoveniano: “Si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordini” e, una riga sotto: “sempre pianissimo e senza sordini”. Sembrava una contraddizione in termini, perché il vecchio Petrov verticale di famiglia aveva due pedali: quello del piano e quello del forte. Quello del piano “metteva la sordina” e smorzava il suono, mentre quello del forte “levava i sordini” ed amplificava il suono. C’era una sottile differenza tra la sordina ed i sordini, per cui “senza sordini”, in definitiva, significava mettere il pedale del forte. Ma come si conciliava il fatto di suonare “sempre pianissimo” tenendo il piede sempre pigiato su pedale del forte? Ebbene, la contraddizione non è apparente e dovuta alla mia inesperienza, ma è reale e messa in bella evidenza da numerosi musicologi! I quali l’attribuivano alla differenza dei pianoforti d’allora rispetto a quelli d’oggidì.
Il frontespizio della sonata con le note dell'autore (in italiano) |
Lì per lì mi sono rammaricato che, nelle due esecuzioni di Valentina Lisitsa che ho incluso in questo articolo, non vi era nessuna inquadratura della figura intera, che permettesse di verificare se la Lisitsa tenesse il piede fisso sul pedale del forte (come prescriveva Beethoven), o se lo alzava e abbassava come credeva opportuno. Ma fortunatamente, nell’esecuzione effettuata in dicembre 2009 nella Beethovensaal di Hannover, ogni tanto l’inquadratura cade sul telaio delle corde, e si vede chiaramente la meccanica dei feltrini che si alza e s’abbassa in sincronia con l’uso del pedale, Vi dico subito che questa esecuzione si distingue perché qui Valentina Lisitsa indossa una giacca nera e si vedono i polsini bianchi della camicetta, mentre nell’altra esecuzione la Lisitsa indossa una maglietta nera. Ebbene, da quello che ho capito, andando a vedere le esecuzioni di vari pianisti, costoro sistematicamente ignorano la prescrizione di suonare “senza sordini”, e rendono il “delicatissimamente” ed il “sempre pianissimo” lavorando sui pedali secondo la loro maniera. Fa eccezione Andras Schiff il quale introduce una riforma del metronomo, applicando il tempo “adagio sostenuto” non all’intera battuta ma a metà di essa, in pratica raddoppiando la velocità d’esecuzione. Ed applicando fedelmente e rigidamente la condizione “senza sordini”, tenendo premuto il pedale del forte per tutta la durata del primo movimento. Ho inserito anche l’esecuzione dell’adagio di Andras Schiff in cui manca la ripresa televisiva, ma si sente benissimo ad orecchio il ritmo accelerato e la risonanza dovuta al pedale del forte. Quanto alla Lisitsa, si conferma come il punto di riferimento fisso del pianismo attuale. L’adagio sostenuto lo suona con le mani ferme sulla tastiera, contraddicendomi laddove dissi che le sue dita sembrano non toccare la tastiera, mentre la Kobayashi sembra non staccarsene mai. Questa volta è la Lisitsa a rimanere incollata ai tasti, producendo un legato di nome e di fatto. Il secondo movimento fa da intermezzo tra i due movimenti estremi senza prendere parte alle loro vicende, rendendo ancor più sorprendente la violenza implacabile del presto agitato:
che mugghia come fa mar per tempesta
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal che mai non resta
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Sì. Quello che maggiormente mi ha sempre colpito, nella Lisitsa, è quella mano sinistra che sostiene le sue esecuzioni con la devastante grandezza di un sisma. Ed un sisma doveva abbattersi nel cuore di Beethoven, che dedicò questa sonata alla contessina Giulietta Guicciardi, sua allieva diciassettenne, di cui, si dice, giunse a chiedere la mano.
Per evitare inceppamenti tenere la risoluzione non al disopra di 480 pixel.
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