giovedì 28 ottobre 2010

Panasonic Italia Newsletter (02)

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DECT SEGRETERIA E VIVAVOCE: PARLA LIBERAMENTE
Il nuovo cordelss DECT Panasonic KX-TG7521 con segreteria telefonica è perfetto sia per l'ufficio che per la casa. L'ampio schermo LCD da 2,1” retroilluminato di bianco permette una facile lettura del display anche al buio. Oltre alla rubrica da 100 voci, dispone di diverse utili funzioni: sveglia, orologio e indicatore livello batteria; ma l'elemento in più è il vivavoce integrato: sia in casa - ad esempio quando si è indaffarati nelle faccende domestiche - che in ufficio - come quando si è al computer - consente di muoversi con la massima libertà.
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LA NUOVA ERA DEL MULTIFUNZIONECon ben 9 funzioni, Panasonic KX-MB2062 è una multifunzione laser di nuova concezione. KX-MB2062 incorpora segreteria e DECT (fino a 6 portatili), copia alla velocità di 24 ppm e può ricevere messaggi vocali e fax direttamente via e-mail; lo scanner di rete a colori è ad alta risoluzione (fino a 9.600 dpi interpolati); l'Easy Print Utility raccoglie e stampa i dati creati da differenti applicazioni. Compatta e sobria, la multifunzione Panasonic consente di guadagnare spazio in ufficio e di godere dei molti vantaggi della multi-communication.

UN DECT PER TUTTE LE OCCASIONI
Il telefono portatile Panasonic KX-TG6511 è l'ideale sia per la casa che per l'ufficio. Il vivavoce è funzionale in ogni occasione, ma il DECT offre anche un'ottima presa a spalla. L'ampio schermo LCD da 1,8” facilita la lettura di voci e funzioni, e unito al menù intuitivo favorisce l'accesso alle sue molteplici funzioni: risposta con qualsiasi tasto, ripetizione degli ultimi 10 numeri, 16 melodie, orologio, sveglia, tasto di ricerca portatile, indicatore di chiamata e di carica, compatibilità GAP.
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LUMINOSE EMOZIONI IN 3D
TH-152UX1 è lo strabiliante schermo 3D da 152'' annunciato da Panasonic. Il nuovo display non solo raddoppia l'efficienza luminosa dei precedenti modelli ma consuma anche la metà dell'energia. Inoltre il 3D è stato migliorato per consentire che le immagini siano riprodotte alternandosi alla frequenza di 60 frame al secondo (fps) per occhio. Il luminoso schermo riproduce contenuti dettagliati e immagini realistiche e quadruplica (4.096 x 2.160 pixel) la risoluzione dello schermo rispetto agli odierni Full HD (1.920 x 1.080 pixel).
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LA STAGIONE DEL 3D
Questo autunno verrà ricordato per l'avvento della tecnologia 3D. Panasonic Italia ha presentato le linee guida e gli obiettivi per rivoluzionare il mercato con la sua offerta di sofisticati TV, lettori Blu-ray, Home Cinema, videocamere e fotocamere 3D.Leggi la news

martedì 26 ottobre 2010

Perché gli hamburger McDonald’s “Happy Meal” non si decompongono?


Abbiamo ricevuto questo articolo nella newsletter di “Natural News” del 18 ottobre scorso, ma lo stesso è reperibile su internet alla voce “McDonald’s Happy Meal Hamburgers”. Alcuni termini contenuti nella lista degli ingredienti non sappiamo tradurli e li abbiamo lasciati nell’inglese originale. Potete indirizzarvi a “natural news” ed abbonarvi gratuitamente.




(NaturalNews) È sempre un evento divertente quando la stampa di tendenza “scopre” qualche cosa che essi ritengono nuova, anche se noi, seguaci della salute naturale, ne parlavamo da anni. Il New York Times, per esempio, ha pubblicato recentemente una storia dal titolo Quando le Medicine Causano i Problemi che Erano Intese a Prevenire. Lo stesso tasto noi lo stiamo battendo da anni, ripetendo come la chemioterapia causa il cancro, come le medicine per l’osteoporosi causano la frattura delle ossa, e come gli antidepressivi causano comportamenti suicidi.
L’ultima “nuova” scoperta dei giornali omologati è che gli hamburger McDonal’s Happy Meal con le relative patatine non si decompongono, anche se li tenete fuori per sei mesi. Questa storia è stata diffusa dalla CNN, dal Washington Post e da numerosi giornali a larga diffusione, tutti meravigliati che il cibo spazzatura prodotto dalle catene fast food è indeperibile.
Il ridicolo è che la comunità della salute naturale aveva trattato questa topica diversi anni fa. Chi ricorda il video di Len Foley “Bionic Burger”? Fu pubblicato nel 2007 ed alla fine totalizzò ben 2 milioni di passaggi su YouTube. Il video mostra un giovanotto che comprò i suoi hamburger McDonald’s nel 1989, i quali, dopo due decenni, ancora non si sono decomposti! Adesso costui raccoglie nel suo seminterrato un’intera collezione di hamburger non decomposti.

Ma la stampa di tendenza diede risalto a questa storia? Neanche una parola. La storia venne completamente ignorata. Soltanto nel 2010, quando un artista inviò una storia relativa ad un indecomponibile hamburger McDonald’s acquistato sei mesi prima i notiziari diffusero la notizia. Guardate il video allegato e potrete ammirare un intero museo di Big Macs - nessuno dei quali mostra tracce di deperimento. Ciò è particolarmente interessante perché il più recente “Happy Meal Project” che si propone di controllare per soli sei mesi lo stato dell’hamburger, ha attratto su di sé montagne di critiche da parte di alcuni osservatori, che asseriscono che gli hamburger andranno a male, se gli si dà il tempo sufficiente. Essi evidentemente non sanno nulla del museo degli hambuger mummificati, in servizio continuo dal 1989. Questa roba sembra proprio di non volere decomporsi mai!

Perché gli hamburger McDonald’s non si decompongono?
Innanzi tutto, perché hamburgers e patatine dei fast food non si decompongono? La risposta che spesso viene istintivamente è questa: “Beh, devono contenere tanti di quegli additivi chimici che neanche la muffa se li mangia”. Ma questa è solo una parte della risposta, non tutta la storia. La verità è che molti cibi processati non si decompongono, e non vengono mangiati né dalla muffa, né dagli insetti, e neanche dai roditori. Provate a lasciare un vasetto di margarina in cortile e guardate se qualcuno è interessato a mangiarlo. Troverete che anche la margarina resta lì e sembra immortale! Le patatine chips possono durare decenni. Le pizze congelate resistono benissimo alla decomposizione. Avete presente quelle salsiccette di Natale e bocconcini di carne processati che si vendono per strada nel periodo delle feste? Li potete conservare per anni e loro non andranno mai a male.

Con i bocconcini di carne, la principale ragione per cui non si decompongono è costituita dal loro alto contenuto di sodio. Il sale è un grande conservante, come l’uomo sa da migliaia di anni. Le frittelle di carne sono assolutamente caricate a sale – al punto da poterle qualificare come carne “conservata”, senza contare l’eventuale aggiunta di additivi chimici. Per me la carne che non si decompone non cosituisce un grande mistero. Nel mio cervello la reale questione è perché non ammuffiscono i panini? Questo è il vero quesito terrorizzante, perché il pane sano comincia ad ammuffire entro pochi giorni. Che diavolo può esserci nei panini degli hamburger McDonald’s che può sopprimere la vita dei microorganismi per più di vent’anni? Come potete constatare, a meno che non siate un chimico esperto, non riuscirete a districarvi nella giungla costituuita dalla lista degli ingredienti. Eccovi l’elenco di quanto il sito McDonald’s sul web assicura che troverete nei loro panini:

Farina arricchita (farina di frumento sbiancata, farina d’orzo al malto, niacina, ferro ridotto, mononitrato di tiamina, riboflavina, acido folico, enzimi), acqua, sciroppo di granturco ad alto tenore di fruttosio, zucchero, lievito, olio di semi di soia e/o olio di semi di soia parzialmente idrogenato, contiene il 2% o meno dei seguenti componenti: sale, solfato di calcio, carbonato di calcio, glutine di frumento, solfato d’ammonio, cloruro d’ammonio, condizionatori dell’impasto (lattato steaorile di sodio, esteri dell’acido tartarico di mono- e digliceridi, acido ascorbico, azodicarbonamide, mono- e digliceridi, ethoxylated monoglycerides, fosfato monocalcico, enzimi, guarana, perossido di calcio, farina di soia), propionato di calcio e propionato di sodio (conservanti) e lecitina di soia.

Che bel campionario, no? Amerete specialmente lo sciroppo di granturco ad alto tenore di fruttosio (avanti i diabetici!), l’olio di semi di soia parzialmente idrogenato (avanti i cardiopatici!) e la lunga lista di prodotti chimici come il solfato d’ammonio ed il proprionato di sodio. Wow, mi viene l’acquolina in bocca solo a pensarci. Ma la vera parte scioccante viene adesso. Ecco quel che penso: penso che la ragion per cui nessuno vuol mangiare un panino McDonald’s (tranne l’uomo) è che non è un genere commestibile! Nessun animale normale percepisce un panino d’hamburger McDonald’s come un alimento. Per i loro sensi, non è roba da mandar giu. Questa è la ragione per cui questi panini bionici, appunto, non si decompongono.

Il che mi porta alla considerazione finale su questa ridicola vicenda: c’è una sola specie sul pianeta Terra che è così ingenua da pensare che un hamburger McDonald’s sia un alimento. Questa specie soffre di valori stratosferici di diabete, cancro, cardiopatia, demenza ed obesità. Questa specie proclama d’essere la più intelligente del pianeta, e si comporta così scioccamente da nutrire i propri bambini con prodotti chimici velenosi e con tali atroci non-alimenti che neanche i funghi vogliono ingerire (per vostra informazione, preferiscono il letame delle mucche). In questo caso la morale da trarre è che non sono gli hamburger McDonald’s a non volersi decomporre, ma è che la gente è così stupida da volerli mangiare. Ma troverete che la CNN non vorrà riraccontare questa storia un’altra volta.
Mike Adams










martedì 19 ottobre 2010

La storia di IWC 1a parte



Sciaffusa: cascata del Reno  (Photoprint by Photoglobe 1890-1900 Zürich)
Diversi anni fa, scrissi quest’articolo in tre puntate per la rivista Chrono World, e con vero stupore il mio amico Luciano Zambianchi, nel corso di sue ricerche su internet, l’ha ritrovato su un sito in cui veniva premiato dai lettori con il punteggio di cinque stelle su cinque. Quella del mio primo acquisto d’un orologio costoso, in condizioni romanzesche, è una storiella che, in vari contesti, avevo già servito, opportunamente riscaldata, più volte sulle colonne di Chrono World, per cui, in questa riedizione, avevo chiesto scusa al mio pubblico affezionato. Negli ultimo vent’anni molte cose sono cambiate, ma non la storia del mio acquisto, né la storia delle origini della maggiore marca prodotta nella Svizzera Tedesca. In compenso s’è trovata una fotografia del misterioso fondatore.


La forza motrice delle acque del Reno




Cari lettori, quando avrete letto le prime righe di questo articolo, resistete alla tentazione di voltare pagina e passare oltre: inizio, è vero, con una vecchia storia che vi ho narrato diverse volte, ma questa volta c'è un'importantissima ed inattesa variante, che certamente vi divertirà. La vecchia storia è sempre quella dell'estate del 1980: mi trovavo  a bordo della mia Alfetta 2000, avevo da poco varcato il confine svizzero con l’intento di farmi un mesetto di vacanza in territorio federale, quando mi accorsi di non avere più al polso il mio orologio, di cui non ricordo neanche la marca, e che, dopo molti mesi, riemerse spontaneamente dall’interno della vettura, mentre aveva eluso ogni mia affannata ricerca. Ero solo, perché mia moglie aveva deciso d’andare in crocera, e da solo mi toccò prendere la decisione di comprarmi un nuovo orologio. Se si pensa che proprio quell’anno festeggiavo il 25simo anno di matrimonio, si dirà che avevo l’età per prendere tale decisione, ma in famiglia avevamo l’abitudine di scegliere insieme ogni acquisto d’un certo valore, e quindi iniziai le mie ricerche carico di dubbi e d’incertezze. Mi trovavo nel cantone di Lucerna, il cui capoluogo è una vera capitale del turismo mondiale, il che significa che le sue vie sono un’incomparabile, unica, immensa e scintillante vetrina di gioiellieri ed orologiai. Se avessi avuto una piccola idea di ciò che volevo, avrei potuto risolvere la questione in una mattinata, ma di quello che volevo non avevo la minima idea. Marche d’orologi da me conosciute? Mio padre aveva uno Zenith automatico, in casa c’era anche un Longines. E poi, altri nomi da me conosciuti, erano Omega, Eterna, l’Alpina di mio suocero e...basta! E poi sorse anche la questione della spesa: secondo me un buon orologio in acciaio non avrebbe dovuto costare più di cento franchi, che a quel tempo saranno valsi sulle 50-60 mila lire. Ebbene, poiché questa storia già l’ho raccontata, saltiamo alle conclusioni: per effettuare la mia scelta impiegai diverse settimane: in fondo era un divertimento inerpicarmi tra i boschi montani di Engelberg la mattina, e poi scendere in città a fare il riccone nei negozi più lussuosi. Non solo setacciai tutti i negozi di Lucerna, riempiendomi di cataloghi e listini, ma feci puntate anche a Zurigo e a Winterthur, e questo per dire che la mia indagine fu veramente completa, ed i risultati veramente attendibili: i negozianti non mi riempivano la testa con centinaia di modelli. Poiché non mi presentavo come turista, bensì come fervido aspirante ad un acquisto profondamente ed incondizionatamente “elvetico”, essi furono unanimi nel confidarmi il loro Gotha della vera ed esclusiva nobiltà svizzera: Audemars Piguet, IWC, Patek Philippe, Piaget e Vacheron Constantin, in rigoroso ordine alfabetico. Non si tratta di una vera e propria classifica di merito: di orologi buoni o buonissimi ce ne sono molti di rispettabilissima marca al di fuori di questo ristretto florilegio, ma la tribuna d’onore rimane comunque riservata a questi nomi. E quali furono le conclusioni? Alla fine acquistai un IWC modello “Yacht Club II” in oro e acciaio al prezzo di 3.600 franchi, che oltre a piacermi istintivamente, mi veniva da più parti caldeggiato. Nel corso di quello stesso anno 1980 comprai l’identico modello, versione femminile, per mia figlia, e quello in oro massiccio (compreso il bracciale), per mia moglie. Come dissi, in effetti avevamo il 25simo anno di matrimonio da festeggiare. E veniamo all’inaspettata e divertente variante di questo racconto.


   Origini
L'antica sede in Baumgartnerstrasse





Può darsi che se avessi svolto la mia inchiesta nei cantoni occidentali di lingua francese, dove c’è Ginevra e la Vallée de Joux, assieme al 90% dell’industria orologiaria elevetica, i risultati sarebbero stati alquanto differenti, almeno in un punto specifico, e cioè nella beatificazione di IWC che, avendo sede in Sciaffusa, nella Svizzera nord-orientale, gode dell’incondizionato appoggio dei cantoni tedeschi della Svizzera interna. Ma si tratta di sottigliezze: i cantoni tedeschi rappresentano la stragrande maggioranza dell’etnia svizzera, ed hanno ogni titolo per parlare a nome dell’intera nazione. Ebbene, avendo acquisito tanti titoli nobiliari alla borsa valori del Gotha svizzero, potete immaginare il mio stato d’attesa quando, nella mia serie di profili aziendali delle più famose marche mondiali, è venuto il momento della International Watch Company, la maison svizzera di cui mi sento azionista onorario. Ebbene, vi dico subito che la prima impressione, alla lettura del libro di Manfred Fritz sulla “Grande Complication” e sulla storia della IWC (disponibile anche in italiano, Edition Stemmle), è stata quella di una profonda delusione. Niente di simile alle origini “eroiche”, ed anche aristocratiche, di Breguet, Vacheron Constantin, Patek Philippe. D’altra parte, anche le famiglie Colonna e Torlonia, prima di diventare roccaforti della nobiltà pontificia, erano dedite al brigantaggio! Nel caso di IWC, il fondatore viene dall’America con l’intento di compiere un’operazione molto simile a quelle che, ai miei tempi, venivano chiamate, appunto, truffe all’americana. Non ci riesce, e fallisce. Il suo successore, anch’egli americano, fugge con la cassa... E per fortuna il finale è a lieto fine! Ma veniamo alla storia vera, come viene ricostruita nel libro di Manfred Fritz. Quale fu il primo passo? Nel 1867-68 l’orologiaio americano Florentine Ariosto Jones, dopo aver lavorato a Boston presso le fabbriche E. Howard Watch & Clock e G.P.Reed, parte per la Svizzera. Il giovane americano di 27 anni non aveva preso la sua decisione alla leggera: prima aveva svolto, come si direbbe oggi, un’accurata indagine di mercato sulle possibilità d’insediamento e sviluppo in Europa. I risultati di questa ricerca lo avevano convinto che sarebbe stato economicamente interessante, ed assai stimolante da un punto di vista tecnico, combinare due dimensioni produttive ideali per il settore orologiero: la competenza americana in fatto di meccanizzazione e l’accuratezza svizzera per le lavorazioni d’alta precisione, già allora leggendaria in America. Fu dunque così che F.A.Jones, insieme all’amico e stretto collaboratore Charles Kidder, giunse - probabilmente a cavallo del 1867-68 - nella Svizzera Occidentale, con l’intenzione di meccanizzare l’industria orologiera del Giura, a quell’epoca basata prevalentemente su lavorazioni manuali, e quindi piuttosto “arretrata”, secondo i criteri americani. È facile immaginare come questo progetto causasse ovunque gravi preoccupazioni, per l’implicita minaccia ai posti di lavoro nel settore orologiero. Un giorno, sempre alla ricerca del modo adeguato per realizzare i suoi piani imprenditoriali, Jones incontra - probabilmente a Ginevra - l’orologiaio e industriale Johann Heinrich Moser. Costui, attivissimo nipote dell’orologiaio di Sciaffusa Erhard Moser, aveva appena ultimato nella sua città natale la costruzione di un costoso impianto idraulico sul Reno, in grado di fornire energia meccanica a diverse aziende, tramite enormi cinghie di trasmissione. Con questa prospettiva Heinrich Moser convinse l’americano a dar vita alle sue idee nella Svizzera nord-orientale, e cioè a Sciaffusa anziché nel Giura. Nasceva così, nel 1868, la “International Watch Co., Schaffhausen, New York” insediata inizialmente in alcuni locali e laboratori presi in affitto e collegati alla rete di distribuzione dell’energia idraulica. Qui il signor Jones installò la maggior parte delle macchine per la produzione di componenti d’orologi, che aveva fatto arrivare dagli Stati Uniti. Riguardo al preciso anno di nascita della ditta, le ricerche svolte in occasione della compilazione del libro storico sulla IWC, pubblicato nel 1986, avevano convinto gli autori ad accettare come prova dell’anno di fondazione 1869 il certificato emesso dal Controllo Residenti. Una deduzione che oggi non è più sostenibile alla luce di nuovi reperti: recentemente la IWC è venuta in possesso di orologi con “calibro Jones” recanti l’indicazione dell’anno di produzione 1868. L’autenticità delle sigle è stata scrupolosamente accertata.

La storia non ci ha tramandato nessun ritratto di F.A.Jones, ma il suo primo orologio ne riflette pienamente il carattere e la filosofia. All’interno, il “Calibro Jones” rivela incontestabilmente la data di fondazione dell’IWC: 1868.
Truffa all'americana
L’indicazione fornita da questo materiale viene indirettamente confermata anche da un’inserzione, pubblicata nel 1874, nella quale si offrono azioni per una società da costituire. Il documento riporta: “Dopo essersi personalmente dedicato ad un esame approfondito dell’orologeria americana e svizzera, il signor F.A.Jones, già direttore della fabbrica d’orologi F. Howard Watch Co.’s Movements di Boston & New York, ha iniziato sei anni or sono la costituzione di una fabbrica meccanizzata per la produzione di orologi a Sciaffusa...”. Facendo un semplice calcolo, risulta chiaro che l’anno di fondazione è il 1868. Jones aveva probabilmente bisogno di ampliare la sua base economica per poter continuare con successo le sue attività imprenditoriali. Ma ciò che mi ha fatto balenare l’idea della “truffa all’americana” è un curioso annuncio pubblicitario apparso sulla rivista americana “The Watchmaker and Jeweler” nel maggio 1873, che mostra un imponente stabilimento di Sciaffusa con l’insegna “International Watch Co., United States”. Naturalmente questo ciclopico edificio era del tutto inesistente. Nel testo sottostante si leggeva: “La International Watch Co., allo scopo di unire gli eccellenti sistemi meccanici americani alla più alta abilità artigianale svizzera, ha fondato la propria manifattura di orologi a Sciaffusa, Svizzera, ed è ora pronta a commercializzare orologi affidabili con tutti i vantaggi della perfezione meccanica, nonché artisticamente rifiniti...”. Venivano poi reclamizzati anche i grandi pregi del nuovo sistema di carica a corona, al quale Jones aveva lavorato quando era alle dipendenze di Howard a Boston, e che a quei tempi cominciava a sostituire lo scomodo caricamento a chiavetta negli orologi da taschino. Se lo stabilimento IWC, raffigurato nell’illustrazione dell’annuncio, esisteva solo nella fantasia di F.A.Jones, nondimeno il testo dell’inserzione, che si rivolgeva al mercato americano, esprimeva con molta chiarezza gli intendimenti dell’azienda: produrre orologi che offrissero sia i più moderni ritrovati tecnici dell’epoca, sia la proverbiale accuratezza artigianale dell’antica ed esperta orologeria svizzera. La brillante idea avuta da Jones, di conquistare il vivace e ricettivo mercato americano con un prodotto che recasse l’impronta della qualità svizzera, fu però duramente ostacolata dal governo di Washington, che per molti anni si rifiutò di abbassare gli esorbitanti diritti doganali stabiliti nel 1864, al tempo della Guerra di Secessione, ed applicati anche sull’importazione di orologi. Ben il 25% del valore di ogni IWC che entrava in USA finiva nelle casse dello Stato.

Gli "americani" fasulli
Inoltre, nello stesso periodo, anche i fabbricanti americani cominciavano ad imparare la costruzione di orologi da taschino di miglior qualità. Perciò Jones e la sua IWC si trovarono a dover combattere su due fronti: da un lato contro le elevate tasse d’importazione americane che annullavano i vantaggi del minor costo della mano d’opera in Svizzera; dall’altro contro la temibile concorrenza dei produttori locali. Si verificò, poi, una terza circostanza sfavorevole: alcuni importatori americani di pochi scrupoli, cominciarono a distribuire, negli Stati Uniti, ingenti quantitativi di orologi molto scadenti provenienti soprattutto dall’Inghilterra e dalla Svizzera, camuffandoli con nomi americani puramente inventati, o addirittura con nomi di orologi esistenti, prodotti sul mercato locale. Questi orologi di terz’ordine, ben presto scoperti e messi al bando come “fake americans” (americani fasulli) minarono il buon nome dell’orologeria europea negli Stati Uniti. Proprio Mr Jones, l’americano di Sciaffusa, divenne la vittima innocente di questa situazione, a dispetto del proposito con cui aveva fondato la sua azienda in Svizzera: quello di stabilire un nuovo standard qualitativo, unendo i moderni metodi di produzione alla tradizionale precisione elvetica. La IWC, che in quegli anni indirizzava la sua produzione esclusivamente al mercato americano, dovette così registrare un preoccupante regresso. Le cifre di quel periodo parlano chiaro: l’esportazione di orologi svizzeri negli Stati Uniti - 366.000 unità nel 1872 - era scesa quattro anni più tardi a soli 65.000 esemplari.


Addio, Mr Jones
In fabbrica sono ancora disponibili i pezzi di ricambio dei
primi orologi prodotti  oltre un secolo fa.


Si delineava così la prima crisi finanziaria della IWC, ormai trasformatasi in società per azioni con propria sede in un moderno edificio nella Baumagartnerstrasse di Sciaffusa, in cui è installata anche una macchina a vapore per la forza motrice. In questa situazione già precaria, Jones stipula, senza informare il consiglio d’amministrazione, un contratto per la fornitura di 9.000 orologi all’anno ad una ditta svizzera di La Chaux-de-Fonds. I prodotti, invece della marca IWC, recano nomi di fantasia come “Greenleaf” o “Stuyvesant”. A parte il fatto dell’insufficienza di tale misura d’emergenza nel risanamento dell’azienda, il comportamento di Jones incrina il suo rapporto di fiducia con gli altri soci. Dopo sei anni dal suo arrivo a Sciaffusa, quando la IWC è costretta a dichiarare fallimento, Jones se ne torna in America, lasciandosi dietro una fabbrica moderna e completa, creata e portata avanti nonostante le molte avversità. Numerose innovazioni e brevetti portano la sua firma e quelle dei suoi molti collaboratori, soprattutto riguardo ai dispositivi per la regolazione di precisione della marcia, a quell’epoca punto focale degli sforzi del settore per migliorare la qualità dell’orologio. Già a Boston Jones aveva partecipato all’invenzione della carica a corona, introducendo poi questa innovazione negli orologi da taschino prodotti a Sciaffusa. Una caratteristica del cosiddetto “calibro Jones” di quei tempi è la racchetta eccezionalmente lunga per la regolazione di precisione del gruppo oscillante, che garantiva una qualità eccellente. È molto probabile che, una volta risolte le problematiche aziendali, il nostro americano sarebbe riuscito a concretizzare l’ambizione comune ad ogni orologiaio: produrre orologi da taschino “complicati”. Tale sogno non fu però mai realizzato. Anche negli anni successivi, nei quali l’azienda si trovò a fronteggiare una nuova crisi, le attività vennero concentrate nella produzione di orologi semplici ma di eccellente qualità meccanica, e nel continuo perfezionamento dei particolari costruttivi. Dopo lo smacco subito da Jones, la storia che precede la nascita della “Grande Complication” di Sciaffusa, si svolgerà, per diversi anni ancora, sul filo dell’avventura e del rischio. Nel 1873 la Banca Commerciale di Sciaffusa rileva, al prezzo irrisorio di 143.000 franchi, l’azienda in fallimento. Viene costituita una nuova società con un nuovo nome: “Internationale Uhrenfabrik”, ed un altro americano, Frederik Frank Seeland, ne diventa direttore generale. MM

sabato 16 ottobre 2010

Elettricità per domani


Vedete quant’è bella, moderna, nitida e pulita questa centrale nucleare svizzera? Essa non esiste, perchè la foto che pubblichiamo, e che viene ampiamente diffusa dalle autorità elvetiche, è un’elaborazione al computer delle innovazioni da apportare alla vecchia centrale nucleare di Beznau. La quale vecchia centrale di Beznau, che ha sede su un’isola artificiale sita in mezzo al fiume Aare nel canton Argovia, fu il primo impianto nucleare svizzero di carattere commerciale, la cui costruzione fu iniziata nel 1964, fu completata in soli quattr’anni, e nel 1969 fu collegata alla rete. Ma vi dirò di più: nel 1955 furono liberalizzati i segreti bellici sulla produzione di energia nucleare da parte americana, e la conferenza internazionale inneggiante all’“Atomo per la Pace” si concluse con la pubblicazione in numerosi volumi di tutte le procedure industriali adottate supersegretissimamente nel “Manhattan Project”, un’impresa tra USA, UK e Canada avente la finalità di produrre la bomba atomica. Il Progetto fu sviluppato sotto il controllo dell’esercito americano con a capo il generale Leslie R. Grooves e sotto la direzione scientifica del fisico J. Robert Oppenheimer. Costituite le cariche ufficiali, la bomba fu poi fabbricata da Enrico Fermi (lasciateci passar: siamo romani!)

Bene, nel 1956 le eminenti ditte svizzere Brown Boveri di Baden e la Gebrüder Sulzer di Winterthur stabilirono un accordo con la Nordostschweizerische Kraftwerke AG (Società per Azioni Impianti Energetici della Svizzera Nord Orientale, in breve: NOK) per l’allestimento di un progetto di reattore nucleare, inizialmente destinato a Würenlingen, localita prossima a Beznau. Ed io, che l’anno precedente mi ero sposato a Roma con una biondona di Winterthur, ero andato ad abitare a casa sua proprio a Winterthur! E quindi, accompagnato da lei, mi presentai alla Sulzer, in particolare al cospetto di Peter Sulzer capo dell’Atom Gruppe, che subito mi assunse, sicuro di aver messo le mani sul naturale successore di Enrico Fermi. Inizialmente facevo un lavoro interessantissimo: quello di studiare attentamente i fascicoli che ci erano pervenuti dall’America per l’analisi spettroscopica veloce di vari elementi strategici e cercare di applicare quelle istruzioni. A tal uopo mi avvalevo di uno spettroscopio automatico Honeywell che occupava un grande salone e serviva non solo ai miei esperimenti, ma anche a tutte le fonderie dell’enorme stabilimento. Mi si stringeva il cuore a pensare allo spettroscopio Adams su cui feci le mie esercitazioni all’Istituto di Fisica dell’Università di Roma. Ma poi fui “promosso” ad un gruppo teorico, dove dovevo fare interminabili serie di calcoli su una macchinetta Fazit a manovella. Finita la festa mi eclissai quando il progetto, terminato, passò all’esame del Governo. Comunque il progetto del nostro impianto nucleare, dopo un decennio fu approvato e costruito, ed io vi avevo dato il mio contributo. Molto maggiore fu il contributo che quell’esperienza atomica diede a me, i cui orizzonti, precedentemente, si limitavano ad una carriera universitaria, cui rinunciai di buon grado in cambio di una vita più intraprendente.

Quanto precede l’ho raccontato per introdurre un nuovo motivo d’interesse nel nostro giornale: dato che in Italia si è riaperto il discorso sulle fonti energetiche con riattualizzazione del nucleare, ho deciso di pubblicare un opuscolo svizzero intitolato, appunto “Elettricità per domani” in cui tutti gli aspetti dell’eolico, del fotovoltaico, dell’idroelettrico e del nucleare vengono esposti con più profondità e pacatezza di quanto non avvenga in Italia, dove il dibattito maggiormente assomiglia ad una lite tra testate giornalistiche. Ho anche una raccolta di arretrati di questo bollettino, che voglio mettere a disposizione dei lettori. Su questo bollettino, redatto in italiano, è anche indicato il modo per abbonarsi in proprio, gratuitamente. MM



elettricita per domani
Gli ambientalisti criticano l’energia derivata dal vento e dall’acqua.
Quale contributo dalle nuove energie rinnovabili?





venerdì 15 ottobre 2010

L'orologiaio

di Luciano Zambianchi

Orologio del periodo ellenistico, I° secolo avanti Cristo

Alcune professioni, con il passare degli anni, sono diventate come le stagioni: non sono più quelle di una volta! Tra le tante che hanno subito questa sorte c’è sicuramente l’OROLOGIAIO, o meglio la professione del riparatore di orologi. Basta frequentare una qualsiasi bottega di orologeria per scoprire che tra i venti clienti che entrano in una giornata, dieci chiedono di cambiare le batterie a quei “cosi” che definirei computer segnatempo da polso, altri cinque vogliono cambiare i cinturini e gli ultimi cinque devono far riparare (leggi: sostituire il macchinario) a orologi da cucina e finti pendoli. Che cosa c’entra questo con la mia nuova passione di collezionista e conservatore di orologi antichi? Presto detto: per tenere in ordine gli orologi che possiedo ho da tempo trovato un artigiano capace, in grado di ricostruire i pezzi guasti che non si trovano più nelle normali forniture e questo è l’aspetto positivo; di negativo c’è che purtroppo in otto mesi per i suoi interventi ho dovuto spendere circa 3000,00 euro. Oltre a ciò i tempi di attesa sono cresciuti in modo esponenziale così (avendo decisamente più tempo libero) ho pensato di improvvisarmi riparatore di orologi sperando di aver più soldi da dedicare alla ricerca di nuovi esemplari. Il mio percorso parte dalla teoria: ho incominciato col leggere diverse pubblicazioni di inizio novecento e di fine ottocento sull’arte di fabbricare e riparare orologi, poi ho preso un orologio di poco valore e lo ho smontato riducendolo ai minimi termini, e poi l’ho rimontato. Ho incominciato a riconoscere i passaggi critici, le parti più sensibili e delicate, ed a capire quale poteva essere l’attrezzatura minima per non produrre danni, dopo diverse operazioni l’orologio funzionava ancora. Così mi sono dedicato agli orologi guasti e, con un poco di logica, seguendo il percorso del movimento, individuavo i problemi riuscendo quasi sempre a porvi rimedio. Oggi, dopo centinaia di interventi, non mi sento ancora un “meccanico di orologi” ma sicuramente un “apprendista evoluto”!


Foto 1: orologio russo, seconda metà '800
Non credo di dover spiegare che cosa spinge a collezionare gli orologi, e soprattutto ad amarli. Ho conosciuto centinaia di persone con la mia stessa passione ma motivazioni estremamente diverse. Lo stesso oggetto della collezione si presta a queste differenziazioni: c’è chi colleziona orologi prodotti da una o due aziende per le particolari evoluzioni tecnologiche e la forma dei modelli (ad esempio solo Seiko o solo Swatch), chi si interessa alle complicazioni, alla storia dell’orologeria, alla particolarità di una macchina divenuta unica con il passare degli anni, all’arte espressa nei ceselli o negli smalti, alla moda, ecc.



Foto 2: i ponti e la platina decorati con incisioni
Personalmente attraverso gli orologi da tasca faccio lo Sherlock Holmes della nostra storia e della capacità tecnologica espressa dall’umanità. Per me è emozionante scoprire la passione messa da un artigiano orologiaio (produttore di orologi) nella Russia di fine ottocento, nel decorare una macchina (nata come orologio da taschino) poi trasformata in orologio da polso grazie alla applicazione di due anse (foto 1).


Foto 3: "in ricordo dal figlio al padre"
Uno spettacolo di incisioni e virtuosismi (foto 2) ma altrettanto emozionante è leggere la dedica con l’aiuto di un amico esperto di cirillico. In questo caso è una scritta sottile incisa con una punta sulla cassa d’argento: “Per ricordo dal figlio al padre” (foto 3); più avanti un’altra mano ha scritto: “1945 la guerra è finita” (foto 4). Per me, la storia è un tessuto con mille trame ed intrecci, ogni punto è buono per passare dalla microstoria alla grande storia, partiamo per esempio da questo orologio. Nella seconda metà dell’ottocento in Russia ha fondato il suo impero il fabbricante di orologi Heinrich Moser (Sciaffusa 12-12-1805, Badenweil 23-10-1874. Foto 5) che già nel 1840 aveva a San Pietroburgo un laboratorio con oltre 50 tecnici ed era fornitore ufficiale della famiglia dello Zar. La sua storia è densa come un romanzo e la riservo per un prossimo articolo. Essa si intreccia indissolubilmente con la storia della città di Sciaffusa, della IWC (International Watch Co.), della Paul Girard (Girard-Perregaux), della Jaeger-Le Coultre, in pratica investe tutto il Gotha dell’orologeria moderna. Chi ha fretta di saperne di più può già ora trovare molte informazioni nell’articolo di Marino Mariani apparso su Chrono World di maggio del 2007 (vedi articolo). 


Foto 4: "1945 la guerra è finita"
Basti ora sapere che è anche da personaggi come H. Moser che nasce la precisione e la cura che ha portato la Svizzera ad essere la patria dei migliori orologi del mondo. Non c’era esemplare uscito dalla sua bottega che non venisse scrupolosamente sottoposto a test e verificato da Moser stesso o dai suoi più stretti collaboratori, e questo indipendentemente dal costo dell’oggetto; ogni esemplare veniva firmato per esteso con il nome di Heinrich Moser proprio per sottolineare questa garanzia. 



Foto 5: Heinrich Moser
Oggi possiamo ancora ammirare i suoi capolavori e i più fortunati possono acquistarli ad esempio dagli eredi degli ufficiali della guardia dello Zar che ricevevano, alla loro nomina, un orologio di H. Moser con i simboli imperiali (foto 6) in dono dallo Zar in persona. Nel 1917 (a causa della rivoluzione sovietica) la ditta H.Moser & Co lascia la Russia ma continua a produrre orologi in Svizzera ed in altre parti del mondo. Alla luce di tutto questo diventa comprensibile la voglia di strafare dell’artigiano che ha prodotto (sempre a S. Pietroburgo) l’orologio che vi ho mostrato: aveva come competitore uno degli orologiai migliori del mondo. 


Foto 6: il sigillo dello Zar
Posso anche pensare che il “figlio” che ha donato al padre l’orologio l’abbia fatto spinto dallo sbalzo sulla cassa d’argento (foto 7) che rappresenta un agricoltore che con un aratro, trascinato da due buoi, traccia il solco. Qui c’è in pieno la metafora dell’educatore riconosciuto dal “figlio” come colui che ha tracciato la strada poi seguita dal figlio stesso. Oppure il “padre” era realmente un agricoltore che aveva fatto studiare il figlio privandosi di tutto, e proprio per questo ne aveva ottenuto la riconoscenza. Come direbbero i miei amici, abituali vittime delle mie elucubrazioni e dei miei racconti: “A pensarci bene era solo un vecchio orologio e per giunta rotto”. LZ




Foto 7: decorazione sul coperchio esterno della cassa


(foto 5: Google, tutte le altre sono dell'autore)

martedì 12 ottobre 2010

E' morta Joan Sutherland

Ah, non credea mirarti!
E cosi, dopo 33 anni d'attesa, Joan Sutherland è andata a raggiungere in Paradiso sua sorella e rivale  Maria Meneghini Callas. Con la Callas, Joan Sutherland è stata la massima interprete dell'Opera italiana dei nostri tempi, ed ora, insieme ad Enrico Caruso e a Titta Ruffo, su in cielo potranno formare il perfetto quartetto di voci per il Requiem di Verdi. Joan Sutherland, nata in Australia, è morta ad 83 anni a Les Avents, nel Canton Vaud, nella "Riviera Svizzera" sulle sponde del lago di Ginevra.

giovedì 7 ottobre 2010

Panasonic Italia Newsletter



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VT20, I PLURIPREMIATI TV 3D
I TV VIERA 3D Full HD della serie VT20 ti proiettano in una nuova dimensione dell’entertainment. La combinazione di immagini e suoni di altissima qualità esprime la sintesi tra la tecnologia proprietaria NeoPDP e il sistema di elaborazione 3D ad alte prestazioni. Un esperienza visiva 3D mozzafiato (ma la riproduzione dei blockbuster in 2D non è da meno) che ha fatto incetta di riconoscimenti e di eccellenti recensioni da parte della stampa specializzata europea.
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SISTEMA HOME CINEMA 3D
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OBIETTIVI LUMIX
Panasonic lancia una nuova gamma di obiettivi ad altissime prestazioni per le sue Lumix. La serie comprende il potentissimo zoom 100-300 mm stabilizzato (H-FS100300) e il prestigioso obiettivo Pancake (H-H014), un grandangolo da 14 mm sottilissimo e ultracompatto costruito con ben 3 lenti asferiche per elevare al massimo le prestazioni ottiche. Ma il fiore all'occhiello è H-FT012, il primo obiettivo intercambiabile 3D al mondo che consente di effettuare riprese tridimensionali.
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LA TERZA DIMENSIONE DELL'HOME CINEMA
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LUMIX DMC-GH2: TOCCHI DI CREATIVITA'
LUMIX DMC-GH2 è l'ultima nata tra le LUMIX G Micro System, fotocamere con sistema G Micro caratterizzate da un corpo macchina compatto a ottiche intercambiabili e funzioni avanzate. E una volta montato l'obiettivo H-FT012, la new entry è capace di incredibili riprese in 3D...
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lunedì 4 ottobre 2010

Albert Einstein 1a parte

Di Marino Mariani


Einstein ebbe la fortuna di essere indisciplinato e strafottente. Al politecnico di Zurigo si laureò con la votazione più bassa di tutta la sua classe, pur meritando di più. I professori sapevano che egli era un genio, ma lui seppe inimicarseli tutti, non portando il dovuto rispetto, e quando cercò di sistemarsi nel mondo dell’insegnamento accademico, tutte le porte gli furono  sbattute in faccia. E così, invece di fare l’ossequioso assistente di qualche celebre luminare, fu costretto a dialogare con se stesso, a seguire  il volo della sua immaginazione rappresentativa, fino a ritrovarsi al di fuori dei confini del mondo reale. Ma il miracolo non si limitò alla portata delle sue teorie, ma straripò nel delirio che seppe suscitare in ogni strato della popolazione di questo pianeta, dai capi di stato al più umile dei sudditi, dai magnati del capitalismo ai poveretti delle periferie. Nessuno di loro lo capiva, ma tutti lo “sentivano”. (Questa biografia è stata scritta nel 2008 per la rivista Suono)

 
30 gennaio 1931: Einstein e la moglie Elsa sono al fianco di Charlie Chaplin
alla prima di City Lights  (Luci della Città) al Los Angeles Theater

Albert Einstein è una figura unica non solo nel mondo della scienza, ma, più in generale, nel mondo della cronaca quotidiana su scala mondiale. Fu un personaggio popolare, popolarissimo, più popolare dei divi di Hollywood, con l’esclusione del primatista mondiale di tutti i tempi, e cioè di Charlie Chaplin. I due, comunque, furono amici profondamente affezionati. Quando Chaplin presentò City Lights (Luci della città) a Los Angeles. Einstein e la moglie sedevano accanto a lui. Vi ricordate questo film? È quello della fioraia cieca, di cui Charlot s’innamora e che, sfruttando certe inaspettate, favorevoli circostanze, riesce ad aiutare con cospicue somme di danaro. Così la ragazza, che crede Charlot un milionario, può affrontare un’operazione e riacquista la vista. Mette su un lussuoso negozio di fiori, e tra i ricconi eleganti che lo frequentano cerca sempre di scoprire chi fosse stato il suo ignoto benefattore. Finché un giorno Charlot, stracciato come al solito, e beffeggiato dai ragazzacci, passa avanti al negozio, la vede, la riconosce, e fa per allontanarsi. Ma lei, vedendo quel pover’uomo stracciato e beffeggiato, ne ha compassione, esce dal negozio, gli offre un fiore e gli mette in mano una monetina. Stringendo quella mano, la ragazza riconosce il suo benefattore e….Einstein scoppiò a piangere.




Charlie Chaplin fu l’attore più popolare del mondo, perché tutti capivano la sua umanità, mentre Einstein fu lo scienziato più popolare del mondo benché fosse capito da pochi e particolarmente osteggiato negli ambienti accademici ed antisemiti. Einstein fu costretto a fuggire dal paese della tirannia, e Chaplin fu costretto a fuggire dal paese della libertà. Einstein ebbe un premio Nobel di consolazione: non si poteva fare a meno di darglielo, ma le sue teorie (relativistiche) non venivano riconosciute nella categoria delle scoperte o delle applicazioni, finché nel 1921 si trovò il modo di premiarlo per un suo vecchio lavoro in cui, combinando la teoria quantistica di Plank per la radiazione del corpo nero, con i risultati degli esperimenti di Lenard, diede la spiegazione dell’effetto fotoelettrico. Invece Chaplin, re della risata, della lacrima e degli incassi, il premio Oscar non lo ebbe mai. Ma che dico? Nel 1972, all’età di 83 anni, tornò ad Hollywood per ricevere un Oscar alla carriera. Anche lui si era mostrato irriverente nei confronti dell’Accademia. Concludo questa introduzione dicendo che sono contento che questi due grandi uomini siano stati legati da profonda amicizia, ma adesso basta con questo ping pong di analogie e di discrepanze. Tanto, dopo Einstein, attaccherò la biografia (anzi, l’autobiografia) di Charlie Chaplin, ed allora tutti i lettori saranno in grado di effettuare la dovuta sintesi dei sinonimi e dei contrari.

Bibliografia di Einstein
Come avrete già capito, io sono un cacciatore di biografie, nelle quali, sapendo scegliere i personaggi, o avendo la fortuna di scoprirne di nuovi ed impensati, si riesce ad avere un quadro dei tempi passati, infinitamente più ricco e credibile di quanto non ci venga tramandato dalle storie ufficiali. Per certi personaggi, poi, ho una specie di conto sempre aperto, nel senso che vado alla ricerca di ogni biografia che sia stata, o venga di volta in volta pubblicata. Non è una forma di mania, ma una necessità assoluta, se si vuole il quadro completo dei tempi, dei luoghi e degli avvenimenti. Nessun libro sulla Callas contiene la storia completa della Callas, ma da tutto quello che è stato pubblicato su di lei, anche in epoche recenti, e quindi lontane dalla data della sua morte, è possibile ricostruire il quadro completo della sua vita, e quindi la sua biografia completa potrebbe essere ora, dopo la morte di Giuseppe Di Stefano che fu il suo ultimo compagno d’avventure e di sventure, pubblicata in una sorta di compendium delle dimensioni di un paio di volumi di ca. 800 pagine ciascuno.
Il conto sempre aperto ce l’ho, oltre che con la Callas, con Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Enrico Caruso, Caio Giulio Cesare, con i martiri negri americani Louis Armstrong, Jesse Ovens, Joe Louis, Josephine Baker e Marian Anderson, e tanti altri personaggi. Tra cui Albert Einstein.

 
Walter Isaacson



Siccome metà dei miei libri sono a Roma e metà a Zurigo, non posso elencare tutte le biografie di Einstein in mio possesso, però posso asserire che tra queste ci sono quelle unanimemente giudicate di prima scelta di Abraham Pais, Albert Fölsing (nell’edizione originale completa in lingua tedesca ed in quella abbreviata in inglese), di John Gribbin e l’ultima, pubblicata nel 2007, di Walter Isaacson. Inoltre ho un libro che hanno in pochi, e cioè l’epistolario di Einstein con Michele Angelo Besso, il suo migliore amico, che va dal 1903 a 1955, cioè fino all’anno della morte di entrambi. Questo libro ce l’ho nell’edizione italiana dell’editore Guida (Napoli); l’originale, edito da Pierre Speziali, è in lingua francese col testo tedesco a fronte. Possiedo anche il volume in cui sono raccolte le lettere d’amore scambiate da Einstein con Mileva Maric, ed una biografia di Mileva Maric. Per ragioni che spiegherò più tardi, la biografia che giudico la migliore e che ho preso come guida per questa serie di articoli, è quella di Walter Isaacson. Naturalmente queste biografie sono soltanto una parte del materiale einstaniano in mio possesso. A fronte di esse ci sono le opere originali di Einstein e tanti libri di testo, essenzialmente sulla relatività, speciale e generale. E tra le opere quasi in mio possesso c’è la maggiore e definitiva, e cioè le “Gesammelte Werke”, vale a dire l’opera omnia di Einstein, disponibile anche in inglese come “Collected Papers”, pubblicata, in 36 volumi, dall’Università di Princeton: Dico quasi in mio possesso perché il primo volume uscì nel 1981 e, ad intervalli di ca. un’anno e mezzo ciascuno, uscirono i successivi quattro volumi, per un totale di cinque, che posseggo. Dopo caddero le tenebre, e le librerie zurighesi di cui mi servivo non furono in grado di darmi nessuna ulteriore notizia. Ma in tempi recenti ho ricavato preziose informazioni su internet, ed ho riscontrato che a tutt’oggi sono usciti altri cinque volumi, che vedrò di ordinare online. Ma accanto a questi volumi, esistono, su internet, anche gli Albert Einstein Archives online, a cura della Hebrew University of Jerusalem, su cui non mi intrattengo ulteriormente perché li potete cercare da soli su internet. Tra le opere pubblicate in italiano, e sono tante, nel 1955 acquistai un volumone intitolato “Cinquant’anni di relatività”, alla cui compilazione contribuirono i seguenti illustri matematici, astronomi e fisici: Pantaleo, Aliotta, Armellini, Caldirola, Finzi, Polvani, Severi e Straneo. Si tratta di un libro di grosse dimensioni e di grande valore. L’ho cercato in ogni parte della casa per controllare la lista degli autori, ma non l’ho trovato. Allora mi sono rivolto ad internet ed ho scoperto, con stupore, che su ebay ne viene offerta una copia al prezzo di €1,99, più €10 per la spedizione. Ebbene, questo libro fu scritto quando Einstein era ancora vivo, ed anzi Einstein accettò di scriverne l’introduzione, ma siccome morì pochi giorni dopo, questa introduzione potrebbe benissimo essere l’ultima cosa scritta da lui. Ed ora vi dirò perché, tra tutte quelle che posseggo, preferisco la biografia di Walter Isaacson: tutte le biografie fanno l’elenco degli amici di Einstein, elenco che s’apre con Michele Angelo Besso e prosegue con Marcel Grossman, Conrad Habicht e Maurice Solovine., ma nessuna rileva l’importanza che tali amicizie ebbero per le scoperte di Einstein. Questi amici lo ispiravano, con la loro dialettica intelligente l’aiutavano a sviluppare il pensiero, l’aiutavano nei calcoli. Lo tenevano allegro quando Einstein dovette passare lunghi periodi di disoccupazione. Quale fortuna ebbe Einstein a tenersi, non per sua volontà, lontano dagli ambienti accademici, e poter scatenare la sua fantasia in mezzo ai suoi formidabili amici! Nella biografia di Isaacson, finalmente, l’orchestra Einstein è al gran completo, e la sua lontananza dalle università, dalle accademie e dai cenacoli ufficiali era tutt’altro che una solitudine.

La prima foto di Albert






L’infanzia di Einstein
Einstein, da parte di entrambi i genitori, discendeva da commercianti e venditori ambulanti che, per almeno due secoli, avevano modestamente vissuto nei villaggi rurali della Svevia, nella parte sud-occidentale della Germania. Col passare del tempo essi si sentivano assimilati nella cultura germanica che tanto amavano. Benché ebrei per discendenza, per cultura ed istinto familare, nutrivano tuttavia scarso interesse per la religione e per i suoi rituali. Il padre di Einstein, Hermann, era nato nel villaggio svevo di Buchau, ove la comunità ebraica godeva i frutti di una progressiva liberalizzazione, e cominciava a poter scegliere le professioni. Hermann sentiva una certa inclinazione per la matematica, e la famiglia lo mandò a frequentare le secondarie a Stoccarda, ma non ebbe le risorse per farlo entrare all’università, che comunque, in quel periodo, in maggioranza non accettava gli ebrei. E così tornò a Buchau per essere avviato al commercio. Nel quadro della progressiva migrazione degli ebrei rurali tedeschi verso le zone industriali, la famiglia si trasferì nella prospera Ulm, città il cui motto era, profeticamente: “Ulmenses sunt mathematici” e dove Hermann divenne socio di un suo cugino in una fabbrica di materassi in piuma d’oca e dove, all’età di 29 anni, sposò Pauline Koch di 18, di benestante famiglia specializzata nel commercio di granaglie e fornitrice della corte del Württemberg. Lei era una donna pratica e fattiva, a compensare la “passività” del marito. Il loro primo figlio, Albert Einstein, nacque il 14 marzo 1879. Ad esso era destinato il nome di Abraham, che poi venne scartato perché troppo vistosamente ebraico. Un anno dopo la nascita di Albert, essendo la fabbrica di materassi in piume d’oca (naturalmente) fallita, Hermann fu convinto a trasferirsi a Monaco (di Baviera) da suo fratello Jakob, il più giovane dei cinque fratelli Einstein, che aveva potuto completare i suoi studi, conseguendo la laurea in ingegneria.

Hermann Einstein


Lo scopo era quello di gestire una società di impianti per la distribuzione di gas e di elettricità, con Jakob capo del settore tecnico, mentre ad Hermann veniva affidato il settore commerciale, specialmente confidando in un apporto finanziario da parte della famiglia di sua moglie. Pauline ed Hermann completarono nel 1881 la loro figliolanza con la nascita della bambina Maria, per sempre, in seguito, chiamata Maja. Quando la creaturina fu presentata al piccolo Albert, costui manifestò tutto il suo entusiasmo, ma credendo che fosse un giocattolo, domandò dov’erano le rotelline. Fu un progresso, in famiglia, perché Albert Einstein sembrava che non volesse imparare a parlare, mentre questa volta si espresse coerentemente. Senza voler dare la stura all’aneddotica einsteiniana (tanto, la maggior parte è apocrifa), possiamo riportare che il piccolo Albert era schivo e riservato, che quando la sua casa ed il giardino erano pieni dei suoi piccoli amici di famiglia, lui preferiva ritirarsi e dedicarsi ai suoi giochi ad incastro (puzzle). Ogni tanto aveva scoppi di rabbia che lo stravolgevano completamente, come quando a cinque anni scagliò una sedia contro un malcapitato maestrino privato, che non si fece più vedere in quella casa. Molte volte se la prendeva con Maja, la quale disse che per fare la sorella ad uno come lui, ci voleva una testa ben dura. E però la sua ammirazione per suo fratello era tale che non cessò mai di lodarlo. Dice che era capace di fare un castello con le carte da gioco alto quattordici piani. Tra tutti gli aneddoti veri e non veri, uno però merita attenzione: una volta che era malato ed abbattuto, il padre gli regalò una bussola. Se l’Albertino di allora, da grande, non fosse diventato EINSTEIN in tutte maiuscole, forse quell’episodio non sarebbe stato neanche tramandato, ma invece……Dunque Albert rimase affascinato da quello strumento misterioso, il cui ago, qualunque volta e giravolta gli si facesse fare, puntava sempre a nord costretto da una forza invisibile. Ebbene, si vuole che sin d’allora Einstein cominciasse a riflettere sui campi di forze che non si manifestavano come azioni dirette e direttamente osservabili come, per esempio, l’urto tra due palline o la compressione e decompressione di una molla elastica, bensì, rimanendo invisibili, venivano a costituire una proprietà specifica di ogni punto dello spazio anche a distanze astronomiche dalle loro sorgenti, come il campo gravitazionale che si esercita tra i corpi celesti, ed i campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici che si esercitano tra cariche elettriche, poli magnetici, tra correnti elettriche e poli in movimento….. Fino all’ultimo istante della sua vita Einstein rimase immerso nella riflessione tra la natura dei campi di forze e la geometria dello spazio, spazio che oltre a punti e luoghi geometrici conteneva anche il tempo.

A parer mio, però, l’elemento formativo di cui godé Einstein nella sua infanzia, e che tanto lo aiutò nella soluzione dei suoi problemi nel corso di tutta la sua vita, fu il suo incontro con la musica di Mozart. La madre di Albert, la signora Pauline, era una brava pianista e indusse il bambino a studiare il violino, cosa che Albert fece con moltiplicato entusiasmo quando apprese le prime composizioni di Mozart, sonate e sonatine in cui la madre accompagnava il figlio al pianoforte. Vi ricordate l’inizio di questo articolo, in cui sottolineavo le analogie (e le discrepanze) tra Einstein e Charlie Chaplin? Ebbene, anche Chaplin studiò e suonò il violino con amore, anche se ad un certo punto dovette ammettere che, per la vita che faceva, non avrebbe potuto diventare un solista internazionale. Idem per Einstein, e questa è un’analogia. La contrapposizione sta nel fatto che Chaplin, essendo mancino, aveva le corde montate in ordine inverso, come se nel pianoforte i tasti dei toni alti stessero a sinistra invece che a destra. Se rivedete il film di Charlot Limelight (Luci della ribalta, 1952, si trova facilmente su youtube), nel suo duetto con Buster Keaton, si vede chiaramente come Calvero (Charlie Chaplin), accorda e suona il suo violino, imbracciato con la mano destra, con l’archetto nella sinistra.




Per Einstein, suonare Mozart col suo violino, da solo, in duetto o in quartetto, non era un momentaneo passatempo, ma una vera e propria metodologia di studio. Suonava quando rifletteva su un problema irrisolvibile, poi, con uno strappo, segnalava che aveva trovato la soluzione. Per Einstein Mozart rappresentava il massimo della bellezza e dell’armonia del mondo, raggiunte con il massimo della semplicità. Esattamente quello che Einstein ricercava con le sue equazioni.

A scuola
In tarda età Einstein raccontava questo aneddoto riguardante la sua famiglia. Aveva uno zio, perfettamente agnostico (leggi: ateo), che però tra tutto il parentado era l’unico che frequentava regolarmente la sinagoga, che mangiava il cibo prescritto dalla religione ebraica (il kosher), osservava le prescrizioni del sabato ebraico &c. Se gli domandavano perché così si comportasse, rispondeva: “Non si sa mai”. Questo era lo spirito della famiglia Einstein, che considerva i rituali religiosi come il residuo d’una vecchia ed inveterata superstizione. Quando Albert fu maturo per andare a scuola, a sei anni, non si preoccuparono minimamente di trovare una scuola ebraica, ma lo mandarono alla più vicina scuola cattolica, la Peterschule, la “Scuola di (S.) Pietro”. Era l’unico ebreo in una classe di settanta scolari, ed era così bravo in catechismo tanto da aiutare i suoi compagni. Un giorno il maestro portò in classe alcuni grossi chiodi arrugginiti, e disse che erano tali e quali a quelli con cui fu crocifisso Gesù. Ciononostante Albert non si sentì mai discriminato dagli insegnanti, ma i suoi piccoli compagni, stranamente sensibili alla diversità religiosa, scaricavano su di lui il loro antisemitismo. All’uscita dalla scuola ci furono scaramucce, ma Einstein sostiene che tali scontri non erano particolarmente feroci. E tuttavia, sin da quel momento e per tutta la vita ebbe la coscienza di essere un outsider, un estraneo, un escluso.

Pauline Einstein



Quando compì nove anni fu iscritto ad una scuola secondaria nel centro di Monaco, il Luitpold Gymnasium, ritenuto una scuola illuministica, specializzata nell’insegnamento della matematica e delle scienze, come pure del latino e del greco, e che disponeva di un insegnante di religione riservato a lui e agli altri bambini ebrei. Nonostante il secolarismo della sua famiglia, o forse a causa di questo, Albert sviluppò un improvviso entusiasmo per il giudaismo, al punto, come assicura la sorella Maja, non solo di rispettare tutti i costumi, le usanze e le prescrizioni alimentari della religione, ma di comporre lui stesso inni religiosi a maggior gloria di Dio, inni che fervidamente cantava tornando a casa dalla scuola. Una leggenda largamente diffusa, relativa a quel periodo della sua vita, tradizionalmente rafforzata dal commento “Come tutti sanno”, riportata da un’infinità di libri e di siti in rete, vuole che Albert Einstein fosse uno scolaro piuttosto scarso, al di sotto della media. Persino la famosa colonna giornalistica “Ripley’s Believe It or Not” (una sorta di notiziario “Incredibile ma Vero”), si occupò della carriera scolastica di Einstein. Nel 1935 un rabbino di Princeton mostrò ad Einstein un titolone della rubrica di Ripley: “Il Più Grande Matematico Vivente Bocciato Agli Esami!”. Einstein si fece una risata: “Prima di compiere quindici anni già conoscevo il calcolo infinitesimale ed integrale”. In effetti Albert fu un ottimo scolaro, ed in matematica fu giudicato “ben al di sopra delle esigenze scolastiche”. La sorella sostiene che a 12 anni Albert era continuamente immerso nella soluzione di problemi di aritmetica applicata. Ad un certo punto pensò di fare un salto di classe, e si fece comprare i libri di matematica e di geometria dell’anno successivo. A questo punto Albert non fu più visto “perdere tempo” con i giochi e con i compagni. Anche zio Jakob l’ingegnere venne a dare una mano, proponendo ad Einstein problemi sempre più difficili, culminanti nella dimostrazione del teorema di Pitagora. Cosa che costui risolse “visivamente”, dato che il segreto di Einstein era la sua capacità di rappresentare con immagini, ed osservando le immagini trovava la soluzione. Per dare un piccolo punto di riferimento, leggendo questo passo della biografia di Isaacson, anche io mi sono voluto cimentare nella dimostrazione, ed in meno di un microsecondo ne trovai una, per via trigonometrica, ma poi l’ho ritenuta non valida, perché la trigonometria è essa stessa un’applicazione del teorema di Pitagora. Poi ho trovato un paio di dimostrazioni per via matematica, ma una dimostrazione puramente geometrica non mi è riuscita. Chi vuole cimentarsi in tale problema, avendo dimenticato quanto ha imparato al Liceo, può andare a cercare in internet, e ne troverà a dozzine. Certo, già sapendo che la somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa, una dimostrazione prima o poi si trova, ma certo Pitagora non poteva averlo saputo a priori, e comunque il piccolo Einstein aveva solo 12 anni. La sorella Maja sostiene inoltre che la soluzione di Albert era completamente nuova (rispetto a quelle pubblicate nei libri di testo di quell’epoca). Ma lo stimolo maggiore allo sviluppo mentale gli venne per quest’altra via: era tradizione nelle famiglie ebree ospitare ed offrire un pranzo ogni sabato ad uno studente di religione. I signori Einstein modificarono tale tradizione ospitando ogni giovedì uno studente di medicina. Costui era Max Talmud (che quando emigrò in America cambiò il suo nome in Talmey), e quando cominciò ad essere invitato a casa Einstein aveva vent’un anni contro i dieci di Albert. Talmud ricorda che Albert era un brunetto riccioluto, e non lo vide mai leggere un libro di svago né lo vide mai assieme ai suoi compagni di scuola o altri ragazzi che fossero suoi coetanei. Apro una parentesi: venti o più anni fa lessi sul giornale che un padre (professore) aveva portato la figlia decenne a laurearsi in matematica ad Oxford, sostenendo di averla fatta stare sempre e soltanto in compagnia di persone maggiori di lei. (Io approvo questo metodo, perché tanto i bambini quanto i figli degli animali imparano essenzialmente imitando i grandi).


Max Talmud




Max Talmud cominciò a regalare ad Albert i volumetti illustrati della serie People Books on Natural Science (Biblioteca Popolare di Scienze Naturali). “Li ho divorati trattenendo il fiato”, disse Albert quando era già divenuto Einstein. I vent’un volumi che completavano la serie erano scritti da Aaron Bernstein, il quale metteva in evidenza la correlazione tra la biologia e la fisica, e riportavano un gran numero di esperimenti che venivano compiuti prevalentemente in Germania (vedremo in seguito che quella che il regime nazionalsocialista definiva “Die deutsche Physik” (La fisica tedesca) era la fisica sperimentale, mentre la fisica teorica, in cui pur i tedeschi ariani ed antisemiti eccellevano, era la Fisica Giudaica. Questa interpretazione politica della fisica a quel tempo non era ancora delineata, ed Aaron Bernstein, con quel nome, era evidentemente ebreo anche lui). Già nell’introduzione del primo volume Bernstein trattava della velocità della luce, argomento che l’affascinava su cui ritornò più volte nei volumi successivi, includendo gli undici saggi esposti nel volume 8. A giudicare dagli esperimenti mentali che Einstein utilizzò nella creazione della teoria della relatività, l’inflluenza di quei volumetti di Bernstein fu veramente decisiva. Un esempio tipico, su cui Einstein fondò la sua critica al concetto di contemporeanità, fu quello del treno in corsa: se un proiettile viene sparato a perpendicolo contro un finestrino, appare invece sparato sotto una certa angolazione, perché a causa della velocità del treno, il foro d’uscita nel finestrino opposto non è più allineato col foro d’entrata. Parimenti, data la velocità della Terra nel suo moto nello spazio, lo stesso dovrebbe avvenire per la luce che entra in un telescopio. Quello che c’è di sorprendente, osserva Bernstein, è che tutti gli esperimenti mostravano lo stesso effetto, indipendentemente dalla velocità della sorgente luminosa in moto. Fa impressione, in relazione alle conclusioni cui poi pervenne Einstein, quanto Bernstein asserì: “Poiché ogni tipo di luce mostra di possedere esattamente la stessa velocità, la legge della velocità della luce può essere a ragione definita come la più generale di tutte le leggi di natura”. In un altro volume Bernstein invitò i lettori ad immaginare un viaggio sull’onda di un segnale elettrico. Bernstein si entusiasmava per la potenza della mente umana che predisse la locazione del pianeta Urano prima che gli astronomi lo individuassero con i loro telescopi. Un altro sasso che Bernstein gettava nello stagno fu la considerazione che se tutti i fenomeni elettromagnetici, come la luce, potevano essere interpretati come onde, lo stesso poteva accadere per la gravità. Apriti cielo, prima di Einstein c’era stato un altro Einstein!!! Talmud aiutò in ogni modo ad eccitare la mente del piccolo Albert, regalandogli un libro di geometria due anni avanti al suo testo scolastico. Libro che il ragazzino considerò “il suo libro sacro di geometria”. In seguito, in una lezione che tenne ad Oxford, Einstein dichiarò: “Se Euclide non ispirò i vostri sogni giovanili, allora non siete nati per essere un pensatore scientifico”. Talmud avviò Albert Einstein alle letture filosofiche, raccomandandogli Kant, e si meravigliò che costui, a soli 13 anni, capisse istintivamente la dottrina della Critica della Ragion Pura, che fu il tramite per il successivo studio di David Hume ed Ernst Mach. A questo punto Einstein subì un’improvvisa profonda trasformazione: il rigetto della religione con tutti i suoi ritualismi e le sue falsità. Come pure il rigetto del principio d’autorità e di ogni tipo di autoritarismo, da quello scolastico a quello militaristico. E così rimase per tutto il resto della sua esistenza.

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