venerdì 10 dicembre 2010

Valentina Lisitsa: Chopin Etudes op. 10 & 25

Valentina lisitsa

Chi ha letto qualche mio articolo sa che provengo da una famiglia di pianisti. Anzi, di pianiste, perché due zii maschi suonavano ma non si diplomarono e non diedero lezioni, mentre il grosso era formato da madri, nonne, zie e sorelle. Ed io passavo le giornate ad ascoltare sia il corpo insegnante, sia i numerosi scolari. Chi ascoltavo più volentieri era mia madre: io disteso a terra su un tappeto, lei al pianoforte Petrov a suonare e risuonare la ballata in sol minore di Chopin, il suo cavallo di battaglia con cui si esibiva nelle grandi occasioni, E poi Chopin regnava sovrano nell’esercizio quotidiano e nei saggi annuali. A dire la verità, arrivato al ginnasio, al liceo ed oltre i miei gusti musicali si orientavano maggiormante verso i classici e verso Beethoven. Ma nel 1960 i giornali erano pieni della notizia sensazionale che Maurizio Pollini, un giovanetto milanese di diciott’anni, aveva vinto a Varsavia il premio Chopin, e che Rubinstein aveva detto: “Questo ragazzo suona meglio di tutti noi”. Ed allora noi romani ci precipitammo tutti al Teatro Eliseo ad applaudirlo. C’ero anch’io. Con mia moglie. E per diverse settimane nella nostra cerchia non si parlò d’altro. Ma col tempo si rafforzò in me l’idea che Chopin fosse troppo sentimentale, e divenni un beethoveniano di ferro, anzi: in lega speciale. Se poi facciamo un salto ai nostri giorni, in virtù di internet e di YouTube chi ama la musica, può immergersi in un universo sonoro esteso all’infinito non solo in larghezza e lunghezza, ma anche in profondità, nel senso che si spinge nell’anitichità più remota, fino al giorno della Creazione, il 21 novembre 1877, quando una macchinetta inventata da Edison, emise il primo vagito: ”Mary had a little lamb….” (Maria aveva un agnellino…). Ebbene, internet e YouTube accolgono in rete privati, dilettanti, professionisti, ma anche istituzioni, che da ogni parte del mondo mandano i loro cimeli, vale a dire incisoni fatte in ogni tempo ed in ogni dove dal giorno della Creazione fino ad oggi. È quindi diventato possibile quello che era finora impossibile: ascoltare voci e suoni di cui s’era sentito soltanto parlare in polverosi libri. E confrontarli tra loro e con gli interpreti attuali. Chi ha sentito parlare di Enrico Caruso, o del Trio Lescano, sappia che col computer può ascoltarli: ci sono almeno 100 brani di Caruso da solo, con Nellie Melba, con Alma Gluk, con Louisa Tetrazzini, con Titta Ruffo, col pianoforte, con l’arpa (nella Siciliana di Cavalleria Rusticana). E ci sono anche una sessantina di pezzi del Trio Lescano, con Alberto Rabagliati, con l’orchestra Barzizza…. 

Maurizio Pollini



Nessun collezionista arriva ad avere la quantità di brani d’ogni tempo quanti ce ne sono su internet. Ed è su Internet che ho scoperto questa nuova generazione di moderne pianiste, vere donne superiori, di cui una è la bambina prodigio Aimi Kobayashi, e l’altra è la signora prodigio Valentina Lisitsa. Molte sono le voci che proclamano queste due pianiste come le migliori di tutto il mondo, di tutti i tempi. Ebbene, non avendo avuto particolari simpatie per Chopin, pronto a percorrere il cammino inverso dopo aver sentito lo Chopin di queste nuove Muse, mi trovo sfornito di termini di confronto nell’ambito del repertorio chopiniano. Ma che importa? L’improvvisa attrazione che sento verso il loro Chopin vorrà pur dire qualche cosa. D’altra parte le pubblico volentieri affinché siano i nostri lettori a dare un cenno d’assenso. Dunque, tra le tante raccolte degli Studi di Chopin, 12 dell’opera 10 ed altrettanti dell’opera 25, non so dire quale mi sembra la migliore, anche se a suo tempo acquistai il CD di Maurizio Pollini (pensandoci bene, però, mi pare che me l’abbia regalato mia figlia). Su internet i vari celebri pianisti di grido che si cimentano negli Studi, sono numerosi, e quuindi la possibilità di confronti è apertissima. In occasione del Notturno postumo eseguito da Aimi Kobayashi ho tentato di fare un confronto con le grandi celebrità, ma ho rapidamente concluso che ogni confronto era inutile perché Aimi Kobayashi, con la sua intensa “donnitudine” (è questo il vocabolo che usai), tutti li sopravanzava. Gli studi sono più una composizione tecnica che sentimentale, dove, a priori, l’intensità femminile non dovrebbe giocare alcun ruolo. Tuttavia, come mi suggerisce un articolo di internet, “Chopin trasforma lo studio, da genere essenzialmente didattico a vera e propria composizione artistica. Pare che l’autore li abbia scritti per se stesso, per compensare una formazione pianistica per certi versi non interamente compiuta, e dedica ciascuno dei 24 Studi complessivi ad un particolare aspetto della tecnica pianistica”. Un’altra fonte asserisce che gli Studi furono dedicati a Liszt. Io penso che Chopin abbia composto questi studi sapendo che un giorno Valentina Lisitsa li avrebbe suonati sul suo Bösendorfer. Comunque, al di fuori e al disopra di ogni illazione, l’esecuzione degli Studi è una prova di bravura, e se vogliamo verificare se la Lisitsa è la migliore pianista di questo pianeta, vediamo come affronta  questa prova d’esame. Consiglio agli insegnanti: portate i vostri allievi avanti allo schermo e fategli vedere come si muovono le mani di Valentina.












giovedì 9 dicembre 2010

Mickey Mouse: 10 Cartoons per Natale



Cari nonni, cari genitori, aggiungete ai vostri doni per figli e nipotini quest’omaggio di Famiglia Moderna: una serie di 10 cartoni animati di Mickey Mouse, che risalgono alle origini del simpatico Topolino, che ai miei tempi, cioè tanti anni fa, era il vero eroe dei bimbi buoni: coraggioso, leale e ricco di risorse. Questi cartoni animati sono stati disegnati negli anni 1928, che è la data di nascita di Topolino, 1929, l’anno in cui sono nato io, 1930 e 1931. Siamo stati piccolini insieme, giocavamo insieme ed insieme combinavamo le nostre marachelle. Di questi cartoni animati ho fatto quella che si chiama una “playlist”, li ho cuciti tutti insieme, uno dopo l’altro, in modo che possiate passare un’oretta di divertimento. Noterete che a quei tempi non c’era la televisione, non c’erano i telefonini, e le automobili erano poche e nessuno pensava che potessero inquinare tutta l’aria di questo mondo. Ma la gente era felice lo stesso. Ciao ciao.

mercoledì 8 dicembre 2010

Aimi Kobayashi e l’ombra di Walter Gieseking


Aimi Kobayashi (www.paintingsbymargaret.com)

Aimi Kobayashi. la perla del Sol Levante, la più grande piccola pianista di questo pianeta sta uscendo dalla sua infanzia, ora ha quindici anni, e chi ha da essere una donna, a quest’età lo è. Finora ha dominato con mano sicura la scena pianistica mondiale per la sua fenomenale celeste istintiva spontanea capacità di tradurre istantaneamente il suo patrimonio genetico fatto di caratteri rappresentativi e di fonemi nella sintassi occidentale fatta di singole lettere, di sostantivi e di costruzione della frase in base all’analisi logica. Neanche Lafcadio Hearn (Koizumi Yakumo), uno dei pochissimi scrittori occidentali ad essere naturalizzato in Giappone nella seconda metà dell’ottocento, è riuscito a compiere il cammino inverso, quello di entrare nel canone letterario giapponese, non avendo compiuto opere in lingua giapponese. Alla fine dell’ottocento, l’imperatore Meiji ristabilì l’autorità della famiglia imperiale al di sopra del potere dello Shogun, la famiglia che per quasi un millennio aveva fatto sue le funzioni di Capo dello Stato. L’imperatore Meiji per far uscire il Giappone dal suo stato di isolazionismo, importò dall’Europa colonnelli, avvocati, medici, ingegneri, artisti ed imprenditori, ed introdusse il latte nel rancio militare, affinchè i soldati si incattivissero sul modello dell’esercito inglese. Dopo la Prima Guerra Mondiale, fu l’Italia a costituire il modello politico-amministrativo del Giappone, col suo Diritto Corporativo e con i suoi treni in orario. Invece, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i giapponesi si diedero mani e pié nelle mani del vincitore Generale Macassa (MacArthur) e, con il loro nuovo credo democratico entrarono definitivamente nella politica e nella cultura del mondo occidentale. Aimi Kobayashi, nella sua infanzia e fanciullezza, è diventata un punto di riferimento della cultura occidentale, oltre che un vanto per la sua patria giapponese. Ebbene, uscita dall’infanzia e fanciullezza ed entrata nella adolescenza, Aimi Kobayashi a che punto è della sua carriera?

Shirley Temple


L’esempio di Shirley Temple
Per non fare il titolo troppo lungo, ho scritto “Aimi Kobayashi e l’ombra di Walter Gieseking”, ma la prima ombra che si fa incontro ad Aimi è quella del prodigio cinematografico americano degli anni trenta Shirley Temple, che cominciò la sua carriera a tre anni, che tra gli otto e i dieci anni stabiliva annualmente il primato degli incassi al botteghino, e che a quindici anni era già tramontata. Nessuna colpa da parte sua, nessun mutamento nei gusti del pubblico, ma questa bambina deliziosa, dai riccioli d’oro, rimase tale anche da grande. In effetti, non divenne mai grande: rimase piccolina e con una testolina troppo grande rispetto al resto del corpo. Il suo miracolo non risiedeva soltanto nella sua grazia infantile, ma nella sua innata, incredibile, smisurata abilità scenica, che la portava istintivamente a dettare tempi e modi alla compagnia recitante. Ma credete davvero che un regista potesse dire a Shirley Temple che cosa dovesse dire, fare, accennare, atteggiare e sottintendere? Ma era esattamente il contrario: il bravo regista capiva dove la bambina si dirigeva, e le liberava lo spazio in cui espandersi. Non so con quale spirito Shirley Temple passò dalla fama all’oblio. Non era una donnetta qualunque, e nel dopoguerra fu nominata ambasciatore degli Stati Uniti in Cecoslovacchia. Non era un’ambasciata di comodo che un Presidente dona ad una vecchia gloria del cinema. Praga, capitale della Cecoslovacchia, era un avamposto del “Mondo Libero”, e lì si combatteva al calor bianco la guerra fredda contro l’orso sovietico. Sono contento nell’apprendere che Shirley Temple è ancora in vita, e quindi ha ottantadue anni, uno più di me. Ma giunta a quindici anni, è Aimi Kobayashi di fronte al declino? E perche mai?

Il cambiamento di Aimi
Non credo che Aimi abbia mai sofferto delusioni e disillusioni. Ma da maestra dottrinaria è diventata sentimentale e di conseguenza, temo, feribile. Non credo che mai il caldo applauso del suo pubblico le sia venuto meno. Anzi, più il tempo passa, più viene conosciuta ed amata in tutto il mondo. Ma ora ora non è più una bambina prodigio, è una donna in carriera, la carriera di una pianista che viene confrontata con tutti i modelli del presente e del passato. Il momento della sua transizione da bambina a donna è segnato dalla sua interpretazione della sonata di Beethoven detta Waldstein (che in Italia viene ancora chiamata l’Aurora). È una sonata raggiante, elettrica, illuminata da chiaroscuri e da sprazzi di sole abbacinante, che richiede al più consumato dei pianisti prudenza ed autocontrollo: i pericoli interpretativi sono tanti ed imprevedibili. Le armate di Hitler furono bloccate e respinte dai generali e dai soldati sovietici, ma anche il Generale Inverno ebbe la sua parte congelando i cingoli dei panzer tedeschi. Da piccola Aimi Kobayashi non aveva nessun problema esecutiivo, né tantomeno interpretativo: tutto quello che faceva era giusto, perché era guidata dal genio istintivo e dall’abilità acquisita. Adesso sta cambiando: conosco quattro sue esecuzioni del notturno in do diesis minore opera 20 di Chopin, ed in ognuno di queste si sente crescere il carico della componente affettiva: la prima era perfetta, la seconda e la terza erano di transito, e la quarta è un trionfo emotivo che evoca le estasi divine di Santa Teresa d’Avila, così scrissi in un precedente articolo. Ma che dire della sonata Waldstein? Io ho già accennato ad una sua esecuzione avvenuta in una casa privata a New York, qualche giorno prima del suo concerto alla Carnegie Hall. Il video disponibile su YouTube è un po’ tormentato, ed è spezzato proprio nel bel mezzo dell’Allegretto del Rondò, quindi nel mio precedente articolo su Aimi Kobayashi ho preferito non pubblicarlo. Ma ho pubblicato il mio giudizio su quell’esecuzione, e cioè che Aimi eseguiva quella sonata seguendo l’archetipo assoluto segnato dall’esecuzione del 1938 di Walter Gieseking, e cioè il modello perfetto. Chi era Walter Gieseking?

Walter Gieseking


Walter Gieseking
La biografia di Walter Gieseking è ben differente da quella tipica dei pianisti di successo mondiale. Non fu un bambino prodigio. Ma forse lo fu, pur rimanendo inespresso. Il padre era un medico ed entomologo tedesco sempre a caccia di farfalle da catalogare, e Walter nacque nel 1895 a Lione, nella terra di Francia. Il bambino iniziò lo studio del pianoforte a quattr’anni, ma siccome quella famiglia era errabonda e sempre in movimento, il suo insegnamento iniziale fu frammentario, occasionale, privato ed instabile. Comunque dal 1911 al 1916, e cioè dall’età di sedici a quella di ventun anni, frequentò il conservatorio di Hannover, molto apprezzato dal direttore Karl Leimer col quale, poi, scrisse un metodo d’insegnamento del pianoforte. Nel 1915 Walter Gieseking aveva dato il suo primo concerto, ma già l’anno successivo fu richiamato alle armi e rimase in servizio come componente della sua banda regimentale per tutto il resto della Guerra Mondiale del 1914-18. Il suo primo recital avvenne a Londra nel 1923, all’età di 28 anni, e ne guadagnò immediatamente la fama di pianista eccezionale. Durante la seconda Guerra Mondiale Gieseking rimase in patria, continuò la sua carriera concertistica in Germania, e si esibì anche nei paesi, come la Francia, occupati dai tedeschi. E ciò fu considerato come collaborazione col Partito Nazional-Socialista e gli valse la sua iscrizione nelle liste nere. Nel gennaio del 1947 le autorità militari USA lo liberarono da questa accusa, e lui riprese la sua carriera di concertista. Ma le porte degli Stati Uniti gli rimasero precluse per la campagna ostile organizzata dalla lega dei veterani, ed egli continuò a mietere allori nelle altre parti del mondo. Finché nel 1953 poté tenere un concerto alla Carnegie Hall, che andò completamente esaurito e si concluse con una clamoroso trionfo. Caratteristica di Gieseking fu la sua eccezionale memoria visiva, che gli consentiva non solo di imparare un intero concerto in un giorno, guardando lo spartito, ma di farlo viaggiando in treno. Anzi, al tempo mio, circolava un aneddoto in cui Gieseking affermava che si sarebbe preparato anche meglio se in treno, di frronte a lui, non si fosse seduta una graziosa signorina.
Come forse ho già detto e scritto, negli anni ’40, i miei anni del ginnasio e del liceo, insieme ad altri compagni passavamo interi pomeriggi a casa del più bravo e più ricco della classe, che possedeva un imponente radiogrammofono ed una buona collezione di dischi di musica classica, e tra questi primeggiava senza rivali la famosa sonata Waldstein con le inimitabili volate di Gieseking. È da allora che ho cominciato ad amare tanto la sonata quanto il suo esecutore, tanto da farne due punti di riferimento assoluti. I tempi di Gieseking sono inesorabili, senza indugi e senza esitazioni, senza alcuna concessione sentimentale. Ma non esclusivamente metronomici, bensì ricchi di tutta quella espressione che proveniva dalla scrupolosa osservazione delle indicazioni contenute nello spartito. Per molti decenni ho conservato nel cuore l’eco di quella esecuzione, senza poterla riascoltare perché uscita dai canali commerciali, finché, qualche anno fa, dopo oltre mezzo secolo di rimembranze, l’ho riscoperta in un negozio Jäcklin di Zurigo, seminascosta in un cofanetto di vari CD commemorativi del grande interprete. L’ho ascoltata ed ho riconosciuto battuta per battuta l’emozionante esecuzione di allora. Sono tornato di corsa a casa ed ho portato anche mia moglie ad ascoltarla (a Zurigo è possibile passare un intero pomeriggio ad ascoltare i dischi in un negozio di musica). Perché non l’ho acquistata? Semplicemente perché suonava esattamente come la Waldstein dei miei tempi: con tutto il fruscio ed i graffi dei 78 giri di ceralacca di allora! Ma ultimissimamente ho ritrovato la mia sonata in YouTube in una splendida riedizione elettronicamente lavata, stirata e lucidata, e m’è sembrato che la mia vita ricominciasse da capo. Contemporaneamente su YouTube è apparsa la prima Waldstein di Aimi Kobayashi, registrata quando la bimba prodigio aveva dodici anni, ed ero sicuro che quella bimba avrebbe potuto anche superare il maestro. Non le mancava la tecnica trascendentale e l’intrepida determinazione di eseguire la sonata secondo lo spartito. Poi un amico mi ha avvertito di una nuova esecuzione di Aimi, registrata un mese dopo aver compiuto i quattordici anni, e sono corso ad ascoltarla con trepidazione. Il risultato conferma le aspettative: Aimi sta cambiando.

La Waldstein di Nagoya
La sala da concerti di Nagoya è piccola ed aggraziata, completamente rivestita in legno, con un bel Bösendorfer piazzato nel fondo. Il pubblico è informale, sembra accorso per una festa familiare, comunque qualche signora indossa il kimono. Aimi Kobayashi suona la Waldstein in quella che adesso è diventata la sua maniera. Alla sua tecnica non si può chiedere di più: è arrivata al massimo: i trilli mozzafiato di Beethoven, doppi, tripli, a mani incrociate, escono argentini e perentori come un campanello elettrico dalle sue ditine al titanio. I crescenddo e i diminuendo, i fortissimi ffff e gli improvvisi pianissimi pppp, gli accelerati e i rallentati, tutto viene esattamente riprodotto come da spartito, ed arricchito e cantato da questa nuova Aimi sentimentale che sembra voler abbracciare tutta l’umanità, amici, familiari ed amanti, in un affettuoso amplesso emotivo. Aimi cerca nuovi fraseggi melodici ed espressivi legati cantabili nei tempestosi concertati beethoveniani e, lasciatemelo dire, cerca di superare l’autore. E così la bambina d’acciaio, quella che fu una bambina d’acciaio, espone all’occhio del mondo le sue trepidazioni femminili. La sua Waldstein, la Waldstein di Nagoya, non è una rocca imprendibile come la Waldstein di Walter Gieseking, bensì una grande attrazione estetica che raduna e manda in tripudio la moltitudine degli adepti. È il sogno dei navigatori in rotta verso lo sconosciuto infinito.
Yuko Ninomiya
Accanto al piccolo idolo delle folle sta, benigna e maestosa, una gran dama, la signora Yuko Ninomiya San, profonda esperta del concertismo internazionale: a lei spetta il compito di guidare il talento di Aimi Kobayashi non solo sulla via del successo popolare, successo di cui la sua allieva già gode in misura universale, ma sulla più difficile via della verità. Ci sono sempre molte verità, per esempio la verità esecutiva e la verità interpretativa. E ci sono i casi in cui queste due verità parziali conincidono in una inderogabile veriità assouta. È questo il caso della battuta n. 64 del Rondò, in cui la mano sinistra non è chiamata a compiere un’escursione di 14 note, ma di eseguire due scatti, due schiocchi di frusta, due colpi di pistola di una ottava ciascuno, ogni ottava iniziata da una nota accentata, puntata e di valore doppio delle note compagne di quartina. Ciascuna di queste note iniziali fa da trampolino, da pedana di lancio delle due ottave, e l’esecuzione della successione di 14 note si concentra sull’esecuzione accentuata di queste due note capofila, cui le altre notine si saldano automaticamente come gli elettroni attorno al nucleo di un atomo. Lettore, non credere che voglia fare vani accademismi: sto cercando di descrivere in termini immaginifici il modo con cui Aimi stessa eseguiva la battuta n. 64 nella sua precedente esecuzione, detta la Waldstein AADCT (cioè patrocinata dall’American Association for the Developement of the Gifted and Talented), che Aimi produsse all’età di dodici anni.. Dal punto di vista esecutivo ed interpretativo, Aimi era già sulla buona via due anni prima, e non capisco questa sua variante regressiva. Madama Ninomiya, sia clemente, e prenda come suo cavaliere Walter Gieseking: insieme indicate ad Aimi la giusta rotta di navigazione.
Alla battuta n. 464 del Rondò, quando dall’Allegretto siamo passati al Prestissimo, troviamo l’inizio di una serie di cinque glissati d’ottava, che preludono all’incantevole passeggiata sotto i mandorli in fiore, che si articola in un trillo (con melodia) di 38 battute. Aimi, evidentemente per la sua costituzione fisica, non esegue i glissati ad una sola mano (alternativamente la destra e la sinistra), ma adotta una variante a me sconosciuta, diversa dalla semplificazione abituale riportata in tutti i libri di musica. Benché l’abbia capita, per poterla pubblicare mi piacerebbe avere la trascrizione di questa mirabile variante, ma una stella che è l’orgoglio di tutto il mondo deve assolutamente eseguire i glissati originali, dato che è passato il tempo delle registrazioni solo audiofoniche: quelle attuali digitali audiovisive, con i loro primissimi piani delle mani sulla tastiera, non lasciano spazio a nessun nascondiglio.
Concludo che questa di Nagoya è una tappa di un lungo cammino di gloria. Tra cent’anni saranno orgogliosi i collezionisti che potranno rivedere un momento di transizione di questo prodigio. Siamo fieri noi occidentali, noi europei che abbiamo dato i natali a Beethoven e a tutti i grandi compositori di musica. Siamo fieri di questa bambina orientale con tanta spontanea padronanza entrata nelle profondità della nostra sintassi culturale. Saremmo estasiati se la bambina potesse venire tra noi, e risiedere nella terra dove hanno mosso i loro passi, e nell’aria che hanno respirato tutti i più grandi musicisti del mondo, da Beethoven a Chopin, da Domenico Scarlatti a Wolfango Amadeo Mozart, da Bach a Liszt e a Brahms, sino a quel Muzio Clementi che compose la sonatina che Aimi Kobayashi suonò nella sua prima esibizione come concertista internazionale all’età di quattr’anni.






sabato 4 dicembre 2010

Telemetro, Tachimetro, ma anche Cronometro

di Luciano Zambianchi

Orologio del periodo ellenistico, 1° secolo avanti Cristo


Foto 1


Uno dei tanti problemi che ha chi si specializza in qualche raccolta o in qualche attività (non oso dire in qualche collezione) è che amici e parenti per le feste ed i compleanni gli regalano sempre oggetti relativi alla sua passione, senza pensare che in quello specifico settore lui ha già tutto quello che gli interessa, rispetto a ciò che loro possono trovare sul mercato, e che quasi sempre i venditori, anche quelli specializzati, hanno competenze limitate rispetto alle sue. Nel mio caso da questo regalo prevedibile, che qualche volta ti fa desiderare di ricevere una “cravatta”, si salva solo Ornella che senza condividere a pieno le mie “passioni” è però così intelligente da prendere nota dei miei desiderata e quindi riesce ogni volta a sorprendermi piacevolmente. Una eccezione c’è stata lo scorso mese quando ho ricevuto da un’amica un regalo che, pur essendo un orologio, ha aumentato la mia curiosità e arricchito la mia “immaginazione”. Si tratta nientemeno dell’orologio di suo padre (foto 1) che mi ha donato dietro solenne promessa che avrei cercato di scoprirne la storia, il produttore, e che avrei cercato di farlo vivere di nuovo. Apparentemente l’orologio funzionava ma ad una più attenta osservazione ho scoperto che una ruota era addirittura tagliata a metà (foto 2), che la rimessa del telemetro funzionava saltuariamente, che tutta la macchina aveva bisogno di una radicale revisione,  non solo di una superficiale pulita. Ho detto la rimessa del telemetro perché  questo

Foto 2
è il primo orologio che mi capitava con la scala del telemetro ed il tachimetro, non con il cronometro come è d’uso; oltre a questo si trattava di un monopulsante, una bella complicazione che aumenta la rarità del pezzo. Non avevo idea a che cosa potesse servire un telemetro da polso e così mi sono messo a studiare, anche per scoprire il produttore ed il possibile anno di produzione. Intanto la funzione telemetro si basa sulla differenza di velocità tra la luce ed il suono. Si fa partire il meccanismo quando si vede un lampo e lo si ferma quando si sente il tuono. Veniva usato in artiglieria dagli osservatori che individuavano la distanza tra la loro postazione ed i cannoni nemici proprio nel modo che ho descritto, lo stesso poteva essere usato per capire se un bombardamento, o più semplicemente un temporale stava avvicinandosi o allontanandosi. 
Foto 3
Questa funzione fa pensare anche all’uso in meteorologia. Ho cercato dalla mia amica tutte le informazioni su suo padre e l’idea che me ne sono fatta è che lui usasse l’orologio specialmente per capire il percorso dei temporali. Ho anche un’idea sulle ragioni del suo acquisto e sul periodo di questo acquisto: probabilmente ha scoperto questo tipo di orologio frequentando dei suoi amici che negli anni Venti lavoravano in un aeroporto militare. Molto diverso è il percorso che ho dovuto fare per individuare il produttore del movimento e la marca dell’orologio; sul fondello della cassa una traccia: - Acier inoxydable – (foto 3). Il fondello pulito a specchio è stato poi segnato a mano da centinaia di cerchi che producono un bel gioco di diffrazione luminosa. Si capisce che i cerchi sono stati fatti a mano dai piccoli difetti di allineamento. La cassa in acciaio ha le astine delle anse (quelle su cui va montato il cinturino) incastonate direttamente nella cassa, il diametro esterno della cassa è di 40 mm con la tolleranza di 1 centesimo di millimetro (un lavoro artigianale o svizzero). Il movimento è di quelli che si estraggono dopo aver rimosso la lunetta ed il vetro, il quadrante in smalto vetrificato è di 34,5 mm ed è fissato da due perni. Sul quadrante in rosso è riportata

Foto 4
all’esterno la scala telemetrica (da 0 a 20 Km) con la scritta TELEMETRE, subito sotto una scala in nero (da 0 a 60) con divisioni ben leggibili fino ad un ventesimo di secondo, un contatore dal lato della corona indica i minuti cronometrati (fino ad un massimo di 30). Al centro del quadrante una spirale in rosso forma una scala tachimetrica. Per liberare il meccanismo basta allentare la vite che tiene il perno di carica ed estrarlo, poi basterà allentare la vite che fissa il movimento al castello. Anche qui nessun segno, sulla platina di lato al ponte del bilanciere è inciso il numero 48, di solito da quelle parti la Longines e la Zenith incidevano il calibro del movimento, questo indizio potrebbe rivelarsi determinante infatti il diametro del movimento, senza la cassa, è di 35 mm, la dimensione standard di un movimento  molto usato  agli inizi degli anni ‘30,  il famoso  LANDERON 48  (foto 4).  Anche 

Foto 5
Longines, Universal e l’esercito italiano con Ita 48 in quegli anni studiano le possibilità del calibro 48.  Per fortuna gli orologi monopulsante hanno avuto una produzione limitata nel numero di pezzi e nel tempo, quindi ho potuto restringere il periodo della ricerca agli anni che vanno dal 1915 al 1940. Gli anni tra il 1915 e il 1925 sono quelli suggeriti dal quadrante smaltato e vetrificato, mentre gli anni dell’autarchia fascista (tra il 1936 e il 1940) giustificano la nascita del movimento Ita 48 (1936) commissionato dalla Regia Marina alle officine Panerai, e la totale assenza di firme sul quadrante, ma anche sul movimento. Sempre tra il 1915 e il 1940 venivano usati i pulsanti ellittici e non quelli cilindrici (foto 5). A questo punto ho provato ad usare un sistema diverso da quello seguito fino ad ora: invece di analizzare l’orologio ho deciso di paragonarlo, almeno per il movimento, ad altri di cui ho le immagini, il risultato è sorprendente: si tratta di un movimento Valjoux 8 (un gran bel movimento! Monopulsante 18000 Ah, forse in quegli anni interamente assemblato dalle officine Panerai) inserito in una cassa prodotta in modo artigianale in un unico esemplare (o in una tiratura limitatissima) negli anni ‘20. Ecco il confronto tra i due movimenti (foto 6-7). La foto 7 mostra l’orologio di cui stiamo cercando il produttore; la 6 mostra il retro di un “esemplare unico” (come è scritto sul quadrante) di un cronometro monopulsante anni Trenta della Steinfeld & Sohne in cui sulla platina dietro al quadrante c’è l’indicazione “valjoux 8”. In entrambi i casi gli orologi misurano quattro centimetri di diametro (una misura molto grande rispetto alla produzione dell’epoca) e la somiglianza tra i movimenti è evidente. Anche questa volta il mistero è risolto. In realtà ci sarebbero ancora tre domande a cui è doveroso rispondere, magari brevemente: 
 
Foto 6
1) Quale è la storia del movimento Valjoux ? Il meccanismo nasce nel 1901 per iniziativa dei fratelli Reymond che fondano una fabbrica, la Reymond Freres SA, nel territorio della Vallée Joux. Nel 1929 l’azienda prende il nome di Valjoux SA e nel 1942 la famiglia Reymond viene estromessa e l’azienda diventa la Ebauches SA. Per la sua robustezza e qualità il meccanismo viene apprezzato e adottato dalle migliori case svizzere (Rolex, Audemas Piguet, Patek Philippe, Vacheron Constantin ed altre). Nel 1976 la sovietica Poljot compra dalla Ebauches SA la linea di produzione del Valjoux 7734 (uno dei calibri più famosi) che diventa Poljot 3133. In Svizzera continua la produzione della linea Valjoux 80 e Valjoux 90.
2) Come è possibile che manchi un intero settore della ruota dei minuti? In realtà il “guasto” è derivato da una antica riparazione non proprio a regola d’arte: si devono esser rotti alcuni denti della ruota e così l’orologiaio ha tagliato un settore e saldato (a stagno, sono ancora visibili i residui) un nuovo settore senza denti mancanti. Con il tempo e con l’uso il pezzetto sostituito della ruota si è staccato ed è andato a fermare l’orologio. Anche alcune viti inserite a forza, e non del giusto calibro hanno contribuito alla rottura.
3) Come ha fatto il padre della mia amica a sentenziare l’impossibilità di una riparazione? La ruota rotta, il quadrante segnato, la necessità di una completa revisione (la rimessa incideva sul funzionamento del cronometro), il vetro ingiallito e rigato, il fatto che il primo orologiaio a cui l’aveva affidato non fosse riuscito a risolvere il guasto, hanno contribuito a mandare in pensione il vecchio cronometro nella scatola dei bottoni. Tutto questo nonostante la mia amica trovasse quell’orologio un oggetto magico, presente nei suoi ricordi di bambina.

Foto 7
Ora il quadro è completo, chi ne volesse sapere di più potrà usare queste informazioni come base per seguire in Internet e sulle numerose biografie cartacee il suo filo d’Arianna.

Didascalie:
Foto 1: L'orologio del padre della mia amica
Foto 2: La ruotina della lancettaa dei minuti del cronometro (rotta)
Foto 3: Il fondello della cassa lavorato a specchio
Foto 4: Il movimento Landeron 48
Foto 5: Il monopulsante è ellittico
Foto 6: Il movimento Steinfeld & Sohne di cui ho trovato la storia
Foto 7: Il movimento del nostro orologio misterioso

(Foto Google 4 e 6 di dominio pubblico, le altre sono dell'Autore. Click per ingrandire. Mac: ulteriore ingrandimanto da tastiera)


giovedì 2 dicembre 2010

Storia di IWC 3a parte

Cascata del Reno a Sciaffusa
Siamo giunti alla fine della nosra biografia della IWC. Nello spazio che mi rimane vi confiderò un segreto che non avevo ancora rivelato. Vi dissi che, avendo smarrito il mio orologio, avevo pensato di comprarmi, in Svizzera, un altro bell'orologio in acciaio, da spenderci sopra un centinaio di franchi svizzeri, vale a dire 50 o 60mila lire, alle quotazioni di quei tempi (1980). Poi, invece, avendo visitato i migliiori negozi di Lucerna, di Zurigo e di Winterthur, mi innamorai del'IWC Yacht Club II in acciaio e oro, che di franchi ne costava 3.600. Somma che non avevo in tasca. Ma la necessità aguzza l'ingegno, e mi recai in una sede della Kantonal Bank di Lucerna, ed insieme al direttore scoprimmo che nella sede di Winterthur c'era un conto intestato a mia figlia, sul quale potevo esercitare la mia patria potestà. Detto fatto, mi feci dare 5.000 franchi, ed andai a soddisfare il mio desiderio. Essendo quell'anno il 25mo anniversario del mio matrimonio, in seguito comprai, sullo slancio, lo stesso modello in oro massiccio per mia moglie, ed una versione sportiva per mia figlia, che poi rimborsai. Approfittando dello spazio che mi rimane, pubblico l'unica fotografia esistente del fondatore dell'IWC, cioè dell'uomo dal cognome più comune, e dal nome più unico che raro in tutta l'America, e cioè di Florentine Ariosto Jones. Ed anche la foto di uno dei suoi stabilimenti che attingevano la forza motrice dal Reno, che avrei dovuto pubblicare già nella prima puntata, ma lì per lì non la trovavo. E poi, al posto di un paio di foto di orologi del passato, che facevano parte delle puntate pubblicate otto anni fa dalla rivista Chrono World, pubblico un paio di modelli attuali che forse vi interessaeranno maggiormente. Ciao ciao

Florentine Ariosto Jones



Strana vicenda, quella della IWC! Nasce come una filiazione dell’intraprendenza industriale americana, sembra voler cambiare il mondo elvetico con i suoi macchinari trasportati da oltre oceano ed impiantati in un cantone non orologiero come quello di Sciaffusa, poi, con lo scorrere dei decenni, si elvetizza più degli stessi figli di Gugliemo Tell e viene a far parte del nucleo più esclusivo della nobiltà manufatturiera di questo paese. E, reciprocamente, il cantone, che dovette pur assistere alle prime disastrose vicende aziendali della IWC, finì per adottare la ditta inizialmente americana come la sua figliola prediletta. Per i nativi, essa è la “Watch” di Sciaffusa, e sono fieri che sulla cassa di questi orologi sia inciso il marchio di qualità “Probus Scafusiae”. Ma in che senso ho parlato di elvetizzazione della ditta? Ebbene, in numerose biografie aziendali da me redatte, per esempio quelle di Vacheron Constantin o di Breguet, c’è la descrizione della carriera di un orologiaio (nel senso di “Maestro Orologiaio”, cioè di “Uhrmacher”), la quale comincia con l’apprendistato e finisce con un esame di laurea costituito dalla fabbricazione di “un capolavoro” interamente progettato e costruito dal candidato. Ebbene, non un singolo personaggio della “Watch”, ma la ditta stessa, nel suo evolversi e divenire, si è considerata come l’apprendista solerte che guarda e impara, per poi passare, non appena cominciano a sussistere solide basi di natura aziendale, alla fase creativa, alla progettazione e fabbricazione in proprio di un capolavoro che, a livello di ditta di fama mondiale, non può essere che una sfida assoluta quale la produzione di un modello “grande complication” (in cui “grande” va pronunciato alla francese, cioè “gran” con la “n” nasale). Orbene, nella serie di articoli dedicati a Patek Philippe, abbiamo visto come l’orologio più complicato attualmente esistente è il “calibro 89” che, nella sua categoria, è praticamente imbattibile. E quale sarebbe la sua categoria? Quella degli orologi “da taschino”, e vien da ridere a pensare che un taschino possa contenere un orologio la cui cassa d’oro, da sola, pesa più di 500 grammi, e l’orologio stesso supera di gran lunga il chilogrammo. Si tratta, in realtà, d’un orologio la cui destinazione primaria sembra essere il caveau di una banca, o quantomeno la vetrina corazzata di una struttura espositiva (giro di parole per dire “museo”). Ebbene, nella puntata precedente abbiamo visto come nella produzione di orologi da taschino della IWC, figurino diversi modelli, esteticamente molto belli. Ma l’ambizione alle soglie del 2000, dalla IWC pienamente realizzata, è veramente ai confini più remoti della realtà: la fabbricazione di un “grande” (da pronunciare alla francese) che più grande non si può, da polso (dicesi ”da polso”)! Ebbene, direte, esiste una tradizione IWC in “grandi orologi da aviatore” consistente nel mettere un cinturino ad orologi da taschino (dopo ne riparleremo), ma non è questo il caso: il “grande” IWC da polso è un elegantissimo orologio, di facile utilizzazione, che chiunque può esibire senza spirar aria di museo viaggiante. Le illustrazioni parlano chiaro. Ma il nostro libro di riferimento, che si intitola appunto “Grande Complication della IWC” è talmente dettagliato, talmente specifico, che è praticamente impossibile farne una sintesi senza rivelare una penosa disparità tra l’articolo conciso che si può ricavare e lo splendido originale, il cui autore, Manfred Fritz, ha lavorato per oltre cinque anni a fianco dei progettisti, coadiuvato da squadroni di fotografi e disegnatori per render conto della minima vitarella. Ripeto che il libro, edizione Stemmle, è disponibile in una ottima traduzione italiana, e da solo costituisce una vera e propria enciclopedia per l’amante di orologi, indipendentemente dalla propria marca preferita, e quindi rimandiamo gli appassionati alla lettura di questo raccomandabilissimo volume. Ma un saggio ve lo vogliamo comunque dare, e del “grande complication” da polso tratteremo un aspetto abbastanza insolito, quello della suoneria.

Il Grande Complication da polso, esemplare della prima
serie del 1990 tirata in soli 50 esemplari

Il suono del Grande Complication
Sono pochi gli elementi di un orologio che volendo, ed anche effettuando gli investimenti necessari, non si possono copiare o riprodurre. Alcuni componenti della suoneria appartengono già da tempo a questa categoria: in certe leghe metalliche, per esempio, si cela il segreto di una compensazione termica ottimale. Oppure, per citare un esempio più vicino a noi e tuttora attuale, il materiale con cui è realizzato lo scappamento dell’IWC “Ingenieur” (l’orologio meccanico più insensibile del mondo ai campi magnetici) viene scrupolosamente custodito dalla manifattura come segreto di produzione. Fin dall’inizio del XX secolo, tuttavia, la maggior parte dei produttori di orologi complicati disponeva, accanto agli altri reparti, anche di un laboratorio più piccolo e più riservato. Il maestro orologiaio lo apriva al mattino e lo richiudeva a chiave la sera, personalmente. Tranne che a pochi collaboratori, l’ingresso era vietato a chiunque. In quei locali, infatti, venivano sviluppati i componenti che, senza una precisa conoscenza dei materiali e dei metodi di fabbricazione impiegati, non è assolutamente possibile riprodurre, per lo meno non con lo stesso risultato: si tratta dei gong degli orologi a ripetizione. Su questo argomento specifico fino ad oggi è stato scritto ben poco. Il segreto della fabbricazione di un gong dotato di un bel suono, veniva di solito trasmesso oralmente, tanta era a quei tempi la paura (forse non infondata) che due orologi da taschino di un determinato prestigio, potessero suonare allo stesso modo. Del resto, non è proprio nel suono che sta l’incomparabile, personalissimo fascino dell’orologio a ripetizione?La maggior parte di questi laboratori avevano chiuso i battenti verso l’inizio del secolo scorso, quando “l’orologio che suonava” aveva temporaneamente perso la guerra dichiaratagli prima dalla luce elettrica, poi dalle cifre luminose. La tradizione si era così perduta, e questo ha significato per la IWC dover cominciare tutto da capo. Due giovani orologiai, Robert Greubel e Gion F. Letta, entrambi particolarmente impegnati nello sviluppo del “Grande”, hanno iniziato le loro ricerche dagli archivi. Sono seguite visite a colleghi, colloqui con fabbricanti di pianoforti e con musicisti, nonché con tecnici del suono ed esperti di metallurgia; le loro indagini però non sono state infruttuose. Una delle pochissime testimonianze scritte sulla produzione dei gong descrive così il processo: “I migliori gong sono fatti in un sol pezzo di metallo, ovvero il piede e la molla sono un tutt’unico. Per il gong va usato acciaio inglese Huntsman, che bisogna prima ammorbidire. L’acciaio va piegato partendo dal centro, in modo da conferirgli una forma arrotondata verso il piede. Bisogna quindi cominciare a limare il gong partendo dalle due estremità fino a che le molle non hanno un diametro di 1,78 mm circa. Si può poi cominciare a tranciare gli orli e arrotondare le molle con la lima. Il gong va infine passato attraverso una trafila temprata, che bisognerà costruire da sé, fino a raggiungere un diametro di 0,94 mm...”Ecco che cosa nascondevano agli occhi dei curiosi gli antichi maestri, nei loro laboratori. In quel documento si sono trovati alcuni cenni sulla tempra e sull’intonazione del gong mediante la famosa quanto difficile levigatura triangolare del piede, cioè dell’estremità da inserire nel blocco di fissaggio del gong stesso. I concetti descritti si adattavano perfettamente agli orologi da tasca di una volta, con pareti relativamente sottili e gong di grandi dimensioni. Ma anche per la realizzazione di gong molto più piccoli destinati al nostro orologio da polso è stato possibile trarre alcune conclusioni assai utili; presto però i due tecnici si resero conto che il problema maggiore non era quello di far nascere nel Grande Complication un suono soddisfacente, bensì quello di farlo “uscire” dall’orologio. Su questo punto anche i fabbricanti di strumenti musicali consultati non hanno potuto essere d’aiuto: essi infatti hanno a che fare abitualmente con strumenti costruiti soprattutto in funzione dell’ottimizzazione e della propagazione del suono. Ben poco delle loro tecniche, quindi, si dimostra applicabile ad un orologio da polso con una cassa di platino tanto massiccia da agire sul suono come un autentico silenziatore. Per un mese intero, Greubel ha lavorato nel suo tempo libero ad un gong con sezione di 0,6 mm circa, secondo un vecchio procedimento tramandato nel documento: blocchetto e molla in un pezzo unico. Quando però il pezzo così faticosamente realizzato venne montato nella platina della ripetizione e saldamente ancorato nella cassa finita, azionando il cursore esterno non scaturì che un suono assai flebile. A questo punto il team che già da anni stava lavorando allo sviluppo del Grande Complication ebbe un nuovo sussulto d’ambizione. Una cosa infatti era chiara a tutti: non si manda sul palcoscenico una primadonna senza voce. Gli esperti decisero quindi, secondo la tipica filosofia IWC, di “reinventare” il gong dell’orologio a ripetizione. A questo scopo vennero riesaminate tutte le basi teoriche della formazione del suono. Quando l’aria viene fatta vibrare ad una certa frequenza, le vibrazioni si manifestano all’organo ricevente, ossia all’orecchio, come “suono”. Nel nostro caso specifico, le “emittenti” dell’oscillazione periodica dell’aria sono i due gong percossi dai martelletti del meccanismo della ripetizione. Essi trasmettono innanzitutto le loro vibrazioni alle particelle d’aria circostante sotto forma di onde a diversa frequenza. Ma i gong possono anche entrare direttamente in vibrazione con altre parti del movimento o della cassa, cui sono collegati attraverso blocchetti di fissaggio.

Il Big Pilot's Watch Perpetual Calendar, 2010
Se un gong è più lungo dell’altro, alla percussione del martello esso produrrà vibrazioni con un periodo più lungo, e quindi con un tono più basso rispetto al gong più corto. La lunghezza necessaria affinché il suono non risulti eccessivamente acuto viene ottenuta modellando il gong come un cerchio, da collocarsi fra il movimento e la parete interna della cassa. Tutti gli sforzi vennero perciò concentrati sul potenziamento della sorgente sonora, cioè del gong. La strada di impiegare gong più grandi, che avrebbero prodotto un suono più forte, non si rivelò percorribile: le dimensioni della cassa non potevano infatti essere alterate, e la forza di percussione dei martelletti poteva venir aumentata solo in misura molto modesta. Senza esitazione si cominciò quindi a porre in discussione la validità del tradizionale gong in acciaio, e i tecnici dell’IWC si misero alla ricerca di un nuovo materiale. Con un intenso lavoro artigianale, e con attrezzi speciali, fu costruito quello che probabilmente fu il primo gong in zaffiro per orologi. Una volta montato, però, il suono si rivelò cristallino, ma decisamente troppo fievole perché le caratteristiche di vibrazione dello zaffiro sono decisamente inferiori a quelle dell’acciaio. Un altro materiale, la ceramica, si rivelò deludente per via del suono troppo cupo. L’équipe dei ricercatori cominciò a prendere in considerazione l’affascinante proprietà delle campane tubolari: un cilindro aperto che, dal punto di vista fisico, non fa entrare in vibrazione soltanto l’aria che lo circonda, ma anche quella nel suo interno. L’esperimento con un tubicino di 0,6 mm in bronzo fosforoso, purtroppo, non fornì che un trascurabile aumento del volume d’ascolto: le dimensioni di questa campana erano troppo ridotte per ottenere un miglioramento apprezzabile. Dopo tutti questi tentativi, durati molti mesi, una cosa era ormai chiara: bisognava concentrare gli sforzi non tanto sulla sorgente, bensì sul modo di far uscire il suono dalla cassa. Ma saltiamo un’altra geremiade di penose situazioni, e veniamo alla miracolistica soluzione del problema: un bel giorno Lothar Schmidt entrò in un negozio di giocattoli di Sciaffusa ed acquistò due carillon da pochi soldi per bambini. Arrivato in azienda, li smontò pezzo per pezzo per risolvere, analizzando un esempio concreto, l’enigma del suono di un giocattolo di plastica: fortissimo quando la cassa è chiusa e appena avvertibile, anche a poca distanza, quando il carillon è allo scoperto. La dimostrazione pratica e le leggi dell’acustica gli dettero la spiegazione: il gong in vibrazione (o, in quel caso, la linguetta del carillon) ha bisogno in primo luogo di uno spazio chiuso sufficientemente grande intorno a sé, la cosiddetta camera di risonanza, a cui trasmettere le proprie vibrazioni. Le vibrazioni dell’aria, a loro volta, vengono amplificate dalle pareti della cassa, il cosiddetto corpo risonante o cassa di risonanza, e ritrasmesse all’aria circostante. Applicato al Grande Complication questo principio significa: le leggi della fisica non richiedono la comunicazione diretta fra la camera di risonanza e l’aria esterna, ma impongono che la cassa, o una parte di essa, trasmettano le vibrazioni dell’aria interna a quella esterna… Naturalmente le vicende della suoneria del Grande Complication da polso della IWC, nel libro di Fritz, proseguono per molte pagine ancora, e ciò vi dà un’idea dell’analitica vastità dell’opera. Ma che fare, a questo punto, più di avervene raccomandato la lettura diretta? Passiamo invece alla più recente creazione sciaffusiana, del resto profondamente legata ad una delle sue principali specialità.

Da Vinci Perpetual Calendar Digital Date-Month, 2010

Il grande orologio da aviatore
Il primo oggetto volante della storia, l’aeroplano dei fratelli Wright, percorse 50 metri in circa 12 secondi. Ciò avvenne nel 1903, ma già pochi anni dopo l’aviazione aveva fatto segnare tali progressi da richiedere l’ausilio di una orologeria di precisione, come precedentemente la marineria aveva richiesto dei cronometri speciali per risolvere “il problema della longitudine”. L’approccio di IWC all’Aeronautica risale al primo “orologio speciale da aviatore” del 1930: quadrante nero, lancette fortemente contrastate e luminose nell’oscurità, lunetta girevole di vetro con un indicatore luminoso e di una minuteria di facile leggibilità, ma sprovvista del quadrante dei secondi. Il movimento a carica manuale dell’IWC calibro 83, utilizzato per questo ricercatissimo orologio, noto anche col nome di Mark IX, era già fornito di un dispositivo antiurto e collaudato a temperature estreme. Il Mark X, prodotto dal 1940, ne costituiva una variante adatta alle esigenze militari, ma non unicamente destinata all’Aviazione, con un calibro identico, oggi ambitissimo pezzo da collezione. Arriviamo alla seconda guerra mondiale, che pretendeva gli orologi migliori, e quasi tutti i produttori svizzeri di prestigio si attrezzarono per rispondere ad una massiccia domanda. Per la Luftwaffe, l’armata aerea tedesca, la IWC fabbricò un orologio da aviatore sovradimensionato e concepito in funzione delle esigenze militari: un modello noto semplicemente col nome di “Grande IWC”. Da questo strumento ci si attendeva una precisione nettamente superiore a quella degli orologi di bordo. Le qualità cronometriche di ciascun esemplare erano sottoposte a minuziosi controlli da parte dell’osservatorio nautico tedesco di Gesundbrunnen presso Dresda. Per questo modello d’eccezione la IWC utilizzò il movimento per orologi da taschino modificato calibro 52 SC (con secondi al centro), costituito da un prezioso movimento a ponti dorati, bilanciere bimetallico a vite e regolazione di precisione a collo di cigno, fabbricato nella sua versione di base da oltre 40 anni. Per la prima volta la IWC dotò uno dei suoi orologi di una cassa interna in ferro dolce allo scopo di proteggere il movimento dai campi magnetici.

Portuguese Yacht Club Chronograph, 2010

L’aviatore 2002
l Mark XI è stato senza dubbio il più celebre fra gli orologi da aviatore della IWC, che lo produsse a partire dal 1948. Il modello fu principalmente destinato alla Royal Air Force (visto che la Luftwaffe non esisteva più). Relativamente piccolo, e di aspetto poco appariscente, il Mark XI, dotato di tre lancette (ore, minuti e secondi), è diventato negli anni un vero e proprio oggetto di culto. Il Grande Orologio da Aviatore, presentato quest’anno, si è immediatamente imposto come una delle star delle recenti rassegne elvetiche. Si tratta di un esemplare che va certamente incontro ai desideri di un orologio prettamente maschile, aggiungendo, all’intonazione militare, delle dimensioni notevoli capace di farlo risaltare anche in quest’epoca d’orologeria extra-large: il diametro della sua cassa in acciaio è infatti di ben 46 mm (la larghezza, compresa la grande corona, va oltre i 51 mm, e l’altezza anse comprese supera i 55 mm) e lo spessore di 16,8 mm. Ma la grandezza non è solo nelle dimensioni: le tradizionali doti di precisione, affidabilità e resistenza alle sollecitazioni estreme che hanno reso celebre la casa vi si ritrovano al massimo grado. Davvero un bell’omaggio alla prestigiosa storia della IWC, e un “regalo” prezioso ai tanti estimatori della maison di Sciaffusa…
Marino Mariani

Antico stabilimento IWC azionato dalla forza motrice del Reno

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