sabato 30 aprile 2011

Albert Einstein: 6a parte

Di Marino Mariani

Siamo giunti all'ultima puntata di questo romanzo, è questa dunque l'ultima occasione per capire il pensiero di Einstein. La trattazione completa della relatività speciale e generale compete ai libri di testo, ed interessa principalmente gli studenti che devono affrontare un esame. Ciò non toglie che la comprensione di Einstein come persona e come soggetto delle proprie imprese intellettuali non finisca per essere complessa quanto lo studio approfondito della sua opera scientifica, ma non meno remunerativa quanto ad arrichimento del patrimonio spirituale. Il popolo accorreva alle sue conferenze, quando appariva su un palco al fianco di re, regine e principesse, quando in teatro sedeva accanto a Charlie Chaplin, o quando scendeva la scaletta d'una nave o i gradini di uno scompartimento ferroviario, con la pipa in una mano ed il vecchio astuccio da violino nell'altra. Come un sublime compositore di opere liriche mette in musica drammi e tragedie di Shakespeare, Göthe, Hugo.... così Einstein ha posto in musica i libretti di Angelo Michele Besso, di Gregorio Ricci Curbastro e di Tullio Levi Civita, assistito dai suoi amici Habicht e Solovine e dal vigile e provvidenziale Grossmann. In programma, per questa puntata d'addio, il "Principio dell'Invarianza" ed il "Grande Tensore" italo-elvetico. (Biografia originariamente scritta per la rivista Suono)

Albert Einstein

Insediatosi a Berna in una stanzetta dell'Ufficio Federale dei Brevetti, Einstein trovò l'ambiente ideale per far germogliare la sua prodigiosa intelligenza: la bellezza della città, l'affabilità dei colleghi, il pieno appoggio assicuratogli dal direttore dell'ufficio, la prossimità della Torre dell'Orologio che inviava segnali di sincronizzazione per le stazioni ferroviarie di tutto il Cantone, i fedeli adepti Habicht e Solovine, dell'Accademia Olimpia, in cui si analizzava il pensiero dei grandi pensatori filosofici, con il che la cultura di Einstein, come aveva iniziato sin da fanciullo, non si cristallizava sugli assunti tecnici, ma spaziava su un ampio panorama di "visioni del mondo". Che il posto fosse ideale, è dimostrato dal fatto che anche il suo migliiore amico, l'ingegner Michele Angelo Besso, dopo qualche tempo, venne a raggiungerlo, anche egli "impiegato" nell'ormai famoso Ufficio Brevetti. Persino Grossmann, che aveva trovato il posto per i suoi amici, fu tentato di raggiungerli a Berna, ma comunque egli aveva intrapreso una invidiabile carriera accademica. Ebbene, comunemente avviene che gli studenti, una volta conseguito il titolo di studio (diploma, laurea, abilitazione...), intraprendano una carriera di ricerca nell'ambito della materia in cui si sono specializzati, all'ombra dei professori di cui hanno seguito l'insegnamento. Ed anche per Einstein, in un certo senso, valse questa legge consuetudinaria, e non essendosi specializzato in alcunché, non essendosi formato all'ombra di nessun professore, giustamente si trovò privo di una guida che lo indirizzasse in una determinata direzione. Quindi si trovò libero di spaziare sui 4π steradianti della conoscenza umana, scientifica, immaginativa, filosofica (di un pensatore di vaste vedute si suol dire che il suo orizzonte si estende su 360°, che è la misura di un angolo giro in un piano euclideo. Nello spazio tridimensionale l'orizzonte completo non è più una circonferenza, bensì una sfera, di cui la misura limite è, appunto, un angolo solido di 4π steradianti, invece di 2π radianti. Un radiante equivale a ca. 57,3 gradi sesssagesimali).

Prima ancora della relatività
C'è da domandarsi se Einstein, oltre ad avere l'ambizione di ottenere una convalida accademica, si sentisse capace e voglioso di riformare integralmente il mondo della fisica. E cioè il Mondo stesso. Sir Isaac Newton aveva ordinato l'Universo in una visione deterministica della gravitazione universale e della meccanica in generale. In tale Universo esistevano sistemi inerziali, cioè immobili e solidali con il firmamento delle stelle fisse, e le stelle comete, viaggiando in zone dello spazio sidereo remote da grossi corpi celesti, approssimavano il moto rettilineo uniforme di galileiana concezione, quella del punto materiale non soggetto a forze (l'altra opzione era quella di star fermo). Per questo Universo un orologio cosmico batteva gli istanti, i millenni e le ere, con un ritmo eguale in ogni riposto angolino del creato. Nel suo trattato Laplace concepiva il medesimo Universo di Newton come un immenso meccanismo ad orologeria, in cui ogni punto materiale, date le sue condizioni iniziali e le forze cui è soggetto, avrebbe percorso la sua orbita per tutta la durata del tempo, cioè per sempre. E ciò valeva non solo per il futuro del punto materiale, ma anche per il suo passato. Offrendo il suo trattato a Napoleone, il suddito offriva al suo Imperatore la Chiave dell'Universo, anzi no: la Chiavetta dell'Orologio Cosmico, che era un regalo non meno prezioso.
Pierre-Simon Laplace 


Einstein aveva la più profonda devozione per Newton in quanto personificazione del concetto di causa ed effetto. Nel ramo discendente della sua parabola, Einstein passava il tempo a duellare con i seguaci della meccanica quantistica i quali, al determinismo della Fisica Classica, sostituivano il "probabilismo" della meccanica quantistica. Eppure, cari lettori, il probabilismo ha leggi tanto ferree ed assolutamente inderogabili da costituire, esso stesso, una certa qual sorta di determinismo. Prendiamo come esempio quello di una lampadina elettrica. Quando noi accendiamo la luce, e cioè giriamo un interruttore in modo che ai terminali della lampadina si stabilisca una differenza di potenziale, la lampadina viene attraversata da una corrente che, moliplicata per la differenza di potenziale fornita dalla rete comunale (220 V in Europa), dà la potenza di quella lampadina, per esempio 40 W. La lampadina da 40 W dà una luce di una certa intensità, stabile e continua. Ma a livello submicroscopico quella lampadina non eroga un flusso continuo di luce, bensì una successione di stati in cui l'intensità luminosa fluttua attorno al valore nominale di 40 W. La potenza che noi inviamo al filamento è tale da portare le molecole, gli atomi ed i nuclei interessati in uno "stato eccitato" instabile come la quota raggiunta da un sasso che noi lanciamo verso l'alto: raggiunta la quota di tangenza, il sasso ritorna al suo stato stabile ad energia potenziale minima, ritorna cioè sul suolo da cui l'abbiamo lanciato. Anche gli atomi del filamento della lampadina incamerano l'energia (o potenza, che è l'energia nell'unità di tempo) che noi gli eroghiamo "accendendo la luce" (e pagando la bolletta). Ma poiché lo stato eccitato raggiunto è instabile come la quota di tangenza di un sasso, l'atomo ritorna al suo stato fondamentale liberando il surplus d'energia emettendo "fotoni", cioè atomi di luce ("pacchetti" di luce, in linguaggio scientifico). Ebbene, anche se a solo livello mentale potessimo anagrafizzare i miliardi di atomi interessati alla produzione di luce, non potremmo mai dire quanti e quali si eccitano in un atto elementare di assorbimento, e quanti e quali in un atto elementare di emissione, per tornare al loro stato fondamentale, cedono l'energia di eccitazione sotto forma di quanti di luce. Ma comunque sia, il flusso di luce appare omogeneo e costante, benché sia dovuto ad atti d'emissioni "casuali". È come se una volontà collettiva amministrasse tutto l'insieme degli atomi, "determinando" quanti, quando e quali di essi dovessero emettere i loro fotoni in modo da generare un fascio continuo. È come le formiche di un formicaio che, in condizioni normali ed in caso d'emergenza sanno istantaneamente ed istintivamente ciò che debbono fare, ma non si sa assolutamente chi glielo abbia detto, dove l'abbiano imparato. Nell'interno di un atomo quantistico non si sa minimamente dove stiano le particelle componenti, ma si sa che esse sono titolari di livelli energetici discreti, e possono saltare dall'uno all'altro assorbendo o liberando quantità discrete d'energia, la cui unità fondamentale è "h", la costante di Planck. Al pari di Einstein, anche Planck era estremamente ostico alla meccanica quantistica. C'è da domandarsi perchè l'abbiano fondata.

La radiazione del corpo nero
Anche i profani sanno che il 1905 fu l'annus mirabilis di Einstein, il quale sparò in rapida successione quattro saggi (papers) di cui l'ultimo è il più noto e riguardava la Relatività Speciale, mentre il primo era il più rivoluzionario, s'iniitolava "Su di un punto di vista euristico concernente la produzione e la trasformazione della luce", e fu inviato alla rivista Annalen der Physik il 17 marzo 1905. Un "punto di vista euristico" consiste in una ipotesi che viene avanzata per alimentare e giustificare una serie di ragionamenti, la cui validità è rimandata ad una futura verifica sperimentale. Il cuore di questo saggio era la questione che tormentava la fisica di quel fine secolo (ed inizio del successivo): l'universo è fatto di particelle come l'atomo e gli elettroni, o è costituito da un continuo indiviso, come sembrano essere i campi elettromagnetici e gravitazionali? E se entrambi i metodi di descrizione sono validi in diverse circostanze, che cosa accade quando appaiono in conflitto? Il punto d'intersezione dei due punti di vista, proprio da dove iniziava il conflitto, era costituito dalla cosiddetta "Radiazione del Corpo Nero". Chi ha un minimo di pratica con una fornace, o con la "lampada" da stagnaro o qualsiasi altro tipo di bruciatore a gas (per esempio il becco Bunsen dei laboratori), sa che il bagliore del metallo riscaldato cambia colore con la temperatura, a cominciare da un debole rosso-brace, per passare all'arancione, al bianco e quindi al blu. Per studiare questo tipo di radiazione, Kirchhoff ideò un contenitore metallico chiuso con un forellino sottile per consentire l'uscita di un po' di luce. Ogni volta che il dispositivo si stabilizzava su una certa temperatura, egli tracciava un grafico dell'intensità per ogni lunghezza d'onda, e trovò che, indipendentemente dal materiale e dalla forma del contenitore, i risultati erano identici, e dipendevaano solo dalla temperatura. Non fu possibile trovare una formula matematica che desse conto dell'andamento di quel grafico. Alla sua morte, la cattedra di Kirchhoff fu ereditata da Max Planck che, nel 1900, trovò un'equazione, in parte "indovinandola", che descriveva la curva di radiazione in funzione della lunghezza d'onda, che presentava una strana caratteristica, richiedeva l'introduzione di una costante di entità inconcepibilmente piccola (6,63x10exp(-24)joule sec.), necessaria per far quadrare i conti, e che venne immediatamente chiamata la "costante di Planck", ma chiamabile anche come "quanto d'azione".

Max Plank


Lì per lì (ed anche in seguito) Planck non riusciva a capire il significato di questa costante, e per giustificarne l'introduzione, avanzò un'ipotesi che non ledeva la natura ondulatoria della luce nel suo transito nello spazio, ma che riguardava "solamente" il suo atto di emissione e di assorbimento da parte dei corpi materiali. Egli poneva che la superficie di un qualsiasi corpo materiale che radiasse luce e calore, come le pareti di un corpo nero, contenessero "molecole vibranti" o "oscillatori armonici" come tante piccole molle in oscillazione. Oppure come le corde di uno strumento musicale, che emettono una nota in funzione della loro lunghezza. Questi oscillatori armonici potevano assorbire o emettere energia solo sotto forma di "pacchetti" di determinata energia, indivisibili, non suscettibili di assumere una successione continua di valori, ma multipli interi del quanto d'azione. L'intervento di Einstein in tale disputa fu veramente rivoluzionario, ma non perché abbattesse il castello delle ipotesi di Planck, ma perché le confermava!!!! Infatti Planck considerava la sua costante come un puro e semplice artificio di calcolo. E comunque, a dicembre 1900, al cospetto della Società di Fisica berlinese, Planck disse che nei suoi calcoli l'energia si manifestava come composta da un ben definito numero di pacchetti "egualmente finiti". Einstein, il giovanotto ventiseienne, non un professore né seguace di un accademico luminare, bensì "l'impiegato" per antonomasia, capì immediatamente che la teoria dei quanti poteva minare tutta la fisica classica. Accanto ai risultato dell'esperienza di Planck, egli considerò anche l'esperienza di Lenard sull'emissione fotoelettrica di elettroni da parte di superfici metalliche esposte alla radiazione luminosa. Il risultato dell'esperienza di Lenard era che l'intensità di emissione di elettroni dipendeva, sì, dall'intensità di luce impiegata nell'esperienza. Ma l'energia degli elettroni emessi risultava insensibile all'intensità di luce, mentre invece mostrava dipendenza "dalla lunghezza d'onda" della luce incidente. In pratica Einstein cominciò a pensare alla luce come ad un branco di particelle, e rifece il calcolo dell'entropia dei "quanti" luminosi di Planck come se fossero molecole della teoria cinetica dei gas, e raggiunse lo stesso risultato di Planck! Orbene, perchè l'interpretazione di Einstein faceva crollare la concezione fondamentale della fisica classica? Premettiamo che nella visione classica della fisica, per quanto riguarda la luce esisteva una ipotesi emissiva di Newton per cui la luce consisteva in pallini sparati da una ancora non inventata mitraglietta (ipotesi condivisa dal poeta Goethe nella sua teoria della luce e dei colori). Cui si opponeva, con successo, l'ipotesi ondulatoria di Huygens, suffragata dai fenomeni di diffrazione, tipici della propagazione per onde. Ebbene Einstein fece crollare le basi di questo antagonismo dando ragione all'uno e all'altro! Io non sono un esteta dell'eleganza di certe equazioni della matematica, ma le successive elaborazioni di Einstein per la radiazione del corpo nero portarono ad un'equazione che Emilio Segré (amico di Fermi, amico della famiglia tivolese di mio padre, e premio Nobel per l'antiprotone) definisce di "suprema eleganza". Tale equazione contiene a secondo membro due termini, di cui il primo esprime la struttura granulare dell'energia raggiante. mentre il secondo è ciò che si ottiene dalla teoria elettromagnetica classica, ed è dovuto all'interferenza costruttiva o distruttiva delle onde. In questa maniera la visione ondulatoria di Huygens e quella corpuscolare di Newton, pur antitetiche, sono entranbe confermate, ognuna vigente nel proprio campo di validità, cioè laddove l'energia del quanto luminoso "hn" è maggiore o minore del termine termodinamico "kT", in cui "n" è la frequenza della radiazione, mentre "k" è la costante di Boltzmann e "T" la temperatura assoluta. L'equazione è valida per ogni contesto energetico, in quanto il termine che esce dalla sua "tratta di competenza" si annulla e toglie il disturbo.

Il principio di relatività, ovvero....
Einstein riteneva che l'intuito, cioè un processo mentale induttivo, dovesse portare alla formulazione di un principio generale dal quale si potesse, con un processo deduttivo, discendere alla soluzione di problemi particolari. Il suo primo postulato era quello del "principio di relatività", che asseriva che tutte le leggi fondamentali della fisica dovessero essere invarianti per tutti gli osservatori in moto a velocità costante relativo agli uni rispetto agli altri. Per il secondo postulato, che tirava in ballo la velocità della luce, Einstein poteva contare almeno su un paio di opzioni:
1. Egli poteva adottare la teoria emissiva, in cui la luce sarebbe emessa dalla sua sorgente come un proiettile dalla canna di un fucile. In tal caso non ci sarebbe stato bisogno di postulare l'esistenza dell'etere, dato che le particelle così emesse potevano viaggiare nel vuoto. La loro velocità sarebbe stata relativa rispetto alla propria sorgente, e se questa veniva verso di voi, la sua emissione sarebbe stata più veloce del caso contrario, cioè se la sorgente stava allontanandosi. In altre parole, la luce di una stella sarebbe stata emessa a (ca.) 300.000 km/s. Ma se la stella stava muovendosi verso di voi alla velocità di 10.000 km/s, la velocità della luce rispetto ad un osservatore terrestre dovrebbe risultare pari a 310.000 km/s.
2. Come alternativa si poneva il postulato che la velocità della luce potesse essere una costante pari a 300.000 km/s, indipendentemente dal fatto che la sorgente si stesse avvicinando o allontanandosi con una determinata velocità propria. Il che era maggiormente compatibile con la teoria ondulatoria (se un'ambulanza viene verso di voi a sirene spiegate, o se si allontana, la velocità di propagazione del suono è sempre la stessa, ma per effetto Doppler sentirete il suono più acuto o più grave a seconda dei casi. Avvicinandosi, le lunghezze d'onda si comprimono producendo un suono di frequenza più elevata, e viceversa. Nel caso di onde luminose, si ha uno spostamento dello spettro verso il blu o verso il rosso).
Il pensiero di Einstein oscillava tra la teoria emissiva e quella ondulatoria, ma si scontrava continuamente con la misura della velocità della luce, che era invariante e non si componeva con la velocità della sorgente o con quella dell'osservatore. Mentre, in tal frangente, non si poteva adottare il punto di vista ondulatorio, che non avrebbe consentito l'invarianza delle equazioni di Maxwell. Le equazioni di Maxwell sono il cardine dell'elettrodinamica, e da esse si deduce proprio la velocità della luce. Einstein ricorse, come il suo solito, a diversi esperimenti mentali, ma, come colui che smonta un meccanismo, e nel rimontarlo gli avanza sempre qualche pezzo, non riusciva a conciliare il principio di relatività, secondo cui le leggi della fisica dovevano essere uguali per un osservatore "in riposo" e per un altro osservatore in moto rettilineo uniforme, talché non si potesse distinguere chi dei due fosse in moto relativo rispetto all'altro, e la costanza della velocità della luce. Si potrebbe pensare che tale stato d'incertezza durasse per anni ed anni (come gli capitò durante la sua parabola discendente, in cui non riuscì a chiarire il concetto di campo di forze unitario), invece in quel miracoloso anno 1905, in cui, al contrario di chi una ne fa e cento ne pensa, ne pensava cento e le faceva tutte e subito. Ci doveva essere nel muro della cosiddetta realtà un mattone destinato a cedere e ad aprire un varco alla nuova realtà che gli stava esplodendo nel cervello.

Panorama di Berna

Un lampo... e l'orologio s'infranse
Era una bellissima giornata, a Berna, quando bussò alla porta una graditissima visita, quella del suo amico Michele Angelo Besso, col quale era solito partire per i viaggi dell'immaginazione, trovando in lui la cassa armonica dei suoi pensieri. Ad un certo punto Einstein disse una cosa del tutto inaspettata: "Devo arrendermi..." Ma come, lui...ci dev'essere un equivoco. E cominciarono a discutere. Tutt'a un tratto Einstein capì, ed il giorno dopo, quando rivide Besso, bando ai convenevoli, subito gli disse: "Grazie a te ho risolto il problema!". Passarono cinque settimane ed Einstein poté inviare agli Annalen der Physik, il suo saggio: "Sull'Elettrodinamica dei Corpi in Movimento". Questo saggio non conteneva nessunissima citazione di altri lavori di altri scienziati. Non veniva fatto il nome di Planck o di Boltzmann o di Kirchhoff o di Maxwell o di Newton ...ma l'ultima frase era la seguente: "Fatemi dire che il mio amico e collega M. Besso mi è stato costantemente vicino nell'elaborazione di questo problema, e gli sono debitore per diversi importantissimi suggerimenti". Ma quale era stato il suggerimento di Besso che aveva rimesso in moto il cervello di Einstein? "La soluzione del mio problema è stata un'analisi del concetto di tempo. Il tempo non può essere definito in modo assoluto, ed esiste un'inseparabile relazione tra il tempo e la velocità del segnale". E così, spostato il mattone cedevole, l'orologio universale di Newton, l'orologio cosmico di Laplace donato all'imperatore, s'infrangeva con un boato, spandendo tutt'intorno una pioggia di vetrini, molle, spirali, ruote dentate, bilanceri e lancette!
Più precisamente: due eventi che appaiono contemporaneamente ad un osservatore non appariranno simultanei ad un altro osservatore che si sposta rapidamente (!!!!!!!!!). Ed ecco un'esperienza mentale che rende tale concetto chiarissimo a chiunque: siamo in una stazione ferroviaria. Nei punti A e B della banchina due luci di segnalazione lampeggiano in sincronia, come viene rilevato da un visitatore che si trova, fermo, nel punto M a metà strada tra A e B. Un treno è fermo sulle rotaie, ed un passegero a bordo si trova casualmente perfettamente collimato con il punto M. Anche questo passeggero, trovandosi ad egual distanza tra i punti A e B, vede i due segnali lampeggiare "contemporaneamente". Ma il treno si mette in moto, e mentre il visitatore fermo sulla banchina nel punto M seguita a vedere i due segnali lampeggiare contemporaneamente, il viaggiatore sul treno in moto si avvicina al punto A e si allontana dal punto B, e quindi raccoglie il lampo del punto A "prima" di quello che parte dal punto B. Forse il ragionamento fra Einstein e Besso in quella bella (anzi: bellissima) giornata del 1905 non fu così semplice come questo ferroviario, fatto da Einstein nel 1916 su misura per un libro dedicato al grosso pubblico non specializzato, ma rimane il fatto che da quel momento Einstein pretese che di ogni tipo di misura delle dimensioni e del tempo si desse una "definizione operativa", cioè che fosse fissata l'esatta procedura con cui si effettuava la misura. Come lo studio sull'elettrodinamica dei corpi in movimento diventasse la Teoria della Relatività Ristretta (benché in un primo momento Einstein e Besso volevano chiamarla Principio d'Invarianza) lo si può dedurre da questa lettera inviata da Einstein al suo collega (dell'Accademia Olimpia) Solovine: "La teoria della relatività può essere esposta in poche parole. In contrasto col fatto, noto sin dall'antichità, che il movimento è percepibile solo come spostamento relativo, la fisica è basata sulla nozione di movimento assoluto. Lo studio delle onde luminose ha assunto che uno stato di moto, quello dell'etere "luminifero", è distinto rispetto a tutti gli altri. Tutti i movimenti dei corpi sono stati supposti relativi all'etere luminifero, che era l'incarnazione della quiete assoluta. Ma dopo che ogni sforzo per scoprire lo stato di moto di questo ipotetico etere per il tramite della sperimentazione è fallito, sembra che il problema vada riproposto. È ciò che ha fatto la relatività. Essa ha assunto che non vi sono stati fisici di moto privilegiati. E si è domandata quali conseguenze bisognasse trarne". Einstein mise in evidenza che anche il tempo stesso può essere definito soltanto riferendosi a due eventi simultanei, come le sfere di un orologio che segna le 7 in punto nell'istante in cui il treno arriva in stazione. Con la ovvia, ma stupefacente conclusione che non esiste una simultaneità assoluta e che niente può essere definito come tempo "reale" o assoluto. Disse anche: "Non c'è in nessuna parte dell'universo un ticchettio che possa essere chiamato tempo".
Annalen der Physik 1905 



Equivalenza tra gravità ed accelerazione
Ciò di cui finora abbiamo parlato si riferisce alla Relatività Ristretta, cioè all'invarianza delle leggi della fisica passando da un sistema di riferimento ad un altro che, rispetto al primo, si muova di moto rettilineo uniforme. L'ambientazione è dunque quella di un sistema non soggetto a forze, né (diciamo così) reali, né apparenti del moto relativo (la forza centrifuga, per esempio, appare quando una curva viene percorsa con una certa velocità). Einstein cominciò a pensare ad una teoria generale della rellatività nel mese di novembre del 1907, proprio quando si arrovellava, entro un tempo brevissimo, a scrivere un articolo descrittivo della teoria speciale per un annuario scientifico. Due limitazioni di questa teoria lo assillavano, che fosse ristretta al tipo di moto che abbiamo detto, e che non comprendesse la teeoria della gravità secondo Newton. Egli stesso racconta che: "Ero seduto al mio posto di lavoro nell'Ufficio Brevetti, quando tutt'ad un tratto mi venne un pensiero: se una persona cade liberamente, non sente più il proprio peso". E questo pensiero lo spinse, nei successivi 8 anni, a cercare una generalizzazione della sua relatività speciale, ed alla creazione di una nuova teoria della gravitazione. E perciò lavorò al raffinamento del suo nuovo esperimento mentale. L'uomo che precipita nel vuoto questa volta si trova in un ascensore in caduta libera sulla terra. In tale ascensore egli si sente privo di peso, e se si vuota le tasche, monete, mazzi di chiavi e fazzoletti non cadono al suolo, ma fluttuano insieme a lui. Cambiando inquadratura, immaginò quell'uomo racchiuso in una camera fluttuante nello spazio profondo, lontanissimo da stelle, pianeti ed altri corpi di massa rilevante. Anch'egli si sente privo di peso. "Per questo osservatore la gravitaziione, naturalmente, non esiste. Egli deve legarsi con una corda al pavimento di quella stanza, perché qualsiasi suo movimento lo porterebbe a toccare il soffitto". Poi Einstein pensò che una corda venisse appesa al tetto di quella camera, e la tirasse su con una forza costante. "Allora la camera, insieme all'osservatore, comincerebbe a muoversi verso l'alto con un moto uniformemente accellerato. L'uomo all'interno si sente pressato verso il pavimento. Egli sta in piedi esattamente come chiunque sta in piedi a casa sua, sulla Terra". E se si vuota le tasche, gli oggetti cadono a terra con un moto uniformemente accelerato, indipendentemente dal loro peso, come aveva scoperto Galilleo nel caso della gravitazione. E così l'uomo scoprirebbe di essere in un campo gravitazionale, e rimarrebbe pensieroso di fronte al fatto che la stanza stessa non cadesse giù a causa del suo peso. Ma poi si accorge del gancio sul soffitto e della corda ad esso collegata, e ne dedurrebbe di essere sospeso in un campo gravitazionale. "Dobbiamo ridere di tale conclusione e dire a quell'uomo che si sbaglia? No davvero, anzi dobbiamo ammettere che il suo modo di valutare la situazione non lede il senso comune, né qualsiasi legge della meccanica". Proseguendo questo ragionamento, Einstein dedusse che la massa propria che fa sentire all'uomo il proprio peso, cioè la sua massa gravitazionale, è la stessa massa che resiste, che tende ad opporsi alla forza che tende a mettere in moto qualsiasi oggetto, cioè alla sua massa inerziale. Egli poté così formulare il suo principio di equivalenza tra massa gravitazionale e massa inerziale, e tra gravità e accelerazione. Ci sono una quantità di esempi paradossali generati dall'applicazione dell relatività ristretta. Tutti hanno sentito parlare della contrazione dei regoli di misura, del rallentamento degli orologi, del paradosso dei gemelli, di cui uno diverrebbe più vecchio (o più giovane dell'altro): sono tutte prospettive dello spazio-tempo (detto cronotopo). Come chi si trova all'inizio di un lungo viale alberato e vede le file degli alberi congiungersi tra loro, in lontananza, così un altro osservatore, che si trova alla fine del viale, vede gli alberi congiungersi dall'altra parte. Ma la relatività solo in parte genera queste illusioni prospettiche. La più celebre equazioni di Einstein, che per la sua semplicità tutti conoscono, e cioè E=mc2, è tanto facile da ricavarsi che solo Einstein poteva riuscirci, ed è alla base della produzione dell'energia atomica. Chi vuol sentire e vedere questa formula enunciata (in inglese) da Einstein in persona, vada su YouTube. Ebbene questa formula si ottiene scrivendo il teorema di conservazione dell'energia o della quantità di moto in forma relativistica, la quale si ottiene applicando le trasformazioni di Lorentz-Fitzgerald, che erano già note precedentemente, e procedendo allo sviluppo in serie della funzione "radice quadrata". Il termine che si ottiene trascurando i temini d'ordine superiore è proprio quel magico E= mc2.

Il pensiero di Einstein
Adesso, cari lettori, chiudo tutti i libri di cui mi sono servito per scrivere questa serie di articoli, e, a memoria, vi invito a capire il pensiero fondamentale di Einstein, quello per cui va indicato come il più grande scenziato di tutti i tempi. Il suo cervello, la sua fantasia, superavano di gran lunga ogni laboratorio, ogni strumento di misura, ogni gruppo di sperimentatori esistente. La presenza di una massa, quindi un campo gravitazionale, incurva il cammino di un raggio di luce? Ecco come: vi ricordate dell'esperienza (tutta immaginata) dell'omino chiuso in una cabina legata ad una corda che lo tira su esercitando su di essa una forza ascensionale costante, e quindi un'accelerazione costante com'è quella di gravità? Oggi si parlerebbe di un'astronave spinta da potenti razzi, ma il prino aeroplano dei fratelli Wright aveva spiccato il suo volo appena nel 1901, e quindi Einstein doveva pensare ad un mezzo non molto sofisticato. Ebbene, una forza comunque ascensionale tirava su quella cabina, e l'uomo all'interno, sentendosi attratto verso il pavimento, sperimentava un campo di forze indistinguibile dalla gravità. Orbene, un raggio di luce entra, da un forellino, nella cabina e va a colpire la parete opposta. Ma prima di arrivarci, essendo la parete in moto con tutta la cabina, essendosi quindi sollevata di un tantino rispetto al forellino praticato nella prima parete, viene colpita non a livello del forellino d'ingresso, ma un po' più in basso, in un punto un po' più vicino al pavimento.

Isaac Newton
Se si potesse tracciare la traiettoria di quel raggio di luce, si vedrebbe che questa è incurvata verso il basso. Così Einstein si toglie un'altra soddisfazione: dopo aver mandato in frantumi l'orologio universale di Newton, gli manda in frantumi anche la forza di gravità, che non rappresentata più un'azione diretta, che si trasmette "istantaneaamente" tra corpi dotati di massa, bensì un "campo" che si fa sentire per le modifiche geometriche che apporta nello spazio. Un corpo soggetto a questo campo percorre obligatoriamente le traiettorie, ovvero le linee di percorrenza, disegnate dal campo. Basta provare per credere. Ma come provare? Con l'osservazione astronomica: la luce proveniente dai lontani corpi celesti devìa dalla sua traiettoria rettilinea e si incurva in presenza di forti campi gravitazionali, cioè passando vicino a grosse stelle. Le deviazioni dalla legge di propagazione rettilinea sono di lievissima entità e possono essere osservate solo in condizioni particolarmente favorevoli. Neanche l'enorme massa del pianeta Giove si presta alla verifica di questo fenomeno, bisogna quindi aspettare un'eclissi di Sole. Einstein previde la curvatura di certe traiettorie celesti, ed insieme a Besso cercò di calcolare lo spostamento del perielio di Mercurio, senza però avvicinarsi al valore osservato. Né aveva l'aiuto del suo professore di geometria Minkowsky che, dopo aver creato lo spazio quadrimensionale detto appunto "spazio di Minkowsky" o cronotopo, su misura per la relatività ristretta, avrebbe volentieri collaborato col suo ex allievo ("un vero sfaticato, non mi sarei aspettato niente da lui"), ma il suo debole cuore fu causa di una morte invero prematura. Quando però le osservazioni astronomiche, ancorché approssimative, suggerirono che Einstein avrebbe potuto aver ragione, alimentato principalmente dal New York Times che metteva le scoperte di Einstein in prima pagina e su nove colonne, scoppiò il fenomeno della sua popolarità mondiale. Dice Emilio Segrè "Si ebbe allora lo strano fenomeno della popolarità di Einstein: per ragioni che non mi sono del tutto chiare egli divenne improvvisamente immensamente popolare, anche con un pubblico che ne ignorava totalmente l'opera. Fu trattato quasi come un divo del teatro o del cinema...". La fama di Einstein era intelligentemente amplificata da Einstein stesso, abile come lo stesso Charlie Chaplin nel recitare la propria parte di scienziato sui generis. Ridurre il fenomeno della gravitazione universale ad una questione puramente geometrica fu un colpo di genio che non ha riscontro in tutta la storia della scienza. Tuttavia Einstein a questo punto non aveva ancora un'idea di come fondare, su questa sua intuizione una teoria dinamica coerente, plausibile, verificabile ed utilizzabile come strumento di calcolo. Un conto è quello di utilizzare come sistema di riferimento la lavagna di scuola o il quaderno degli appunti, un altro è quello di tracciare traiettorie nello spazio pluridimensionale, in cui tutta la geometria piana di Euclide non è più valida. Se in casa avete un mappamondo, ma basta anche una palla di gomma, o anche un palloncino bello gonfio, fate questa prova: tracciate con un pennarello l'equatore e poi un meridiano che passa per il polo Nord, ed un altro meridiano scalato di 90° dal precedente, ed anche questo passante per il polo Nord. Ebbene, esaminiamo gli angoli di questo triangolo: i due meridiani partono a perpendicolo dall'equatore, e si incontrano sul polo Nord ancora a perpendicolo! Abbiamo dunque un triangolo con tre angoli retti, ciascuno di 90°, per un totale di 270°. Ma la somma degli angoli di un triangolo non dovrebbe essere di 180°? Sì, sul piano, ma qui siamo su una sfera! Se poi andiamo nello spazio-tempo.....Quando si abbandona la geometria piana, per calcolare la distanza tra due punti, non possiamo più contare sul teorema di Pitagora. La linea più breve che congiunge due punti non è rettilinea, bensì un arco di geodetica tracciata nello spazio tempo. Sfortunatamente, già dal tempo del Politecnico la geometria non euclidea era un boccone altamente indigesto per lo studente Einstein. Ma fortunatamente il suo amico Marcel Grossmann (quello degli appunti) aveva recentemente ultimato una pubblicazione per il dottorato proprio sulla geometria non euclidea. e la prima cosa che Einstein fece a luglio del 1912, fu proprio quella di chiedere aiuto al suo amico, che nel frattempo era addirittura diventato il direttore della facoltà di matematica nell'antica alma mater di Zurigo: "Marcello, aiutami, sennò divento pazzo". Grossmann indica ad Einstein la via da seguire: la geometria di Riemann degli spazi pluridimensionali incurvati. Rieman era stato un fanciullo prodigio, inventore, insieme a Christoffel del tensore di curvatura, ma era già morto nel 1866 a soli quarant'anni, e la sua geometria era stata presa in mano dai matematici italiani che facevano capo a Gregorio Ricci Curbastro e, in seguito, a Tullio Levi Civita, che fondarono il calcolo differenziale assoluto, che per molto tempo fu chiamato il "calcolo di Ricci". A questo punto Einstein capì che la matematica non era una materia ausiliaria, che poteva essere riguardata con sufficienza da un fisico puro: era un potentissimo strumento d'indagine, capace di fornire agili ali all'immaginazione più sfrenata, guidandola e mantenendola nei rigidi percorsi della logica. E come si può parlare di un'intuizione fisica che cerca un supporto matematico. così si può parlare di un'intuizione matematica che trova sostegno nelle scoperte della fisica. Così, nel 1916, con l'aiuto di Grossmann, di Besso, di Ricci, ma soprattutto di Levi Civita, con cui intratteneva colloqui in italiano, Einstein racchiuse la sua teoria della gravitazione, cioè della Relatività Generale, nella formula
Rhk- 1/2 ghkR = 8π Thk
in cui il Rhk è il tensore di Ricci, ghk è il tensore metrico, R è lo scalare di Ricci.

Gregorio Ricci Curbastro
Il tensore metrico è la formula matematica che generalizza e sostituisce il teorema di Pitagora per il calcolo della distanza tra due punti in uno spazio-tempo pluridimensionale e incurvato. Entrambi i termini a primo membro di questa equazione assommano in sé tutte le informazioni su come la geometria dello spazio-tempo viene increspata e incurvata dalla presenza della materia, mentre il tensore a secondo membro descrive il moto della materia nel campo gravitazionale. Il gioco reciproco dei due membri mostra come la materia incurva lo spazio-tempo, e come questa incurvatura determina il moto degli oggetti. 

Conclusioni
I due termini a primo membro spesso vengono indicati con un unico simbolo detto tensore di Einstein, e per questo io chiamo questa formula "il grande tensore  italo-svizzero", ricordando che Einstein da giovane ripudiò la sua cittadinanza tedesca a favore di quella svizzera, anzi quella del Cantone e della Città di Zurigo, alla quale rimase fedele fino al suo ultimo momento. Il significato di questa formula trascende il suo puro significato fisico-matematico, per investire il problema fondamentale della ragione umana: la materia plasma la geometria dello spazio e la gravitazione è figlia della geometria. Verrà il momento in cui un altro Einstein ci dirà come dal nulla nacque la materia. Nel ramo discendente della sua parabola Einstein ha rivestito un ruolo politico maggiore di quello scientifico, ed il popolo ebraico può sempre rivolgersi al suo insegnamento adottandolo come il verbo di un nuovo Mosè. Il 25 novembre del 1929 egli scrisse a Chaim Weizmann: "Dovessimo mostrarci incapaci di trovare una via di onesta cooperazione e di onesti trattati con gli Arabi, allora non avremmo imparato assolutamente nulla durante i nostri 2000 anni di sofferenze" (Albert Einstein Archives 33-411). Einstein non fu mai favorevole alla costituzione di uno stato ebraico. Quando morì Chaim Weizmann, la presidenza di Israele fu offerta ad Albert Einstein, che la rifiutò.

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Provvisorio

I due termini a primo membro spesso vengono indicati con un unico simbolo Ghk detto tensore di Einstein, e per questo io chiamo questa formula il "grande tensore italo svizzero", ricordando che Einstein da giovane ripudiò la sua cittadinanza tedesca a favore di quella svizzera, anzi quella del Cantone e della Città di Zurigo, alla quale rimase fedele fino al suo ultimo momento. Il significato di questa formula trascende il suo puro significato fisico-matematico, per investire il problema fondamentale della ragione umana: la materia plasma la geometria dello spazio e la gravitazione è figlia della geometria. Verrà il momento in cui un altro Einstein ci dirà come dal nulla nacque la materia

venerdì 29 aprile 2011

Possedere il tempo: 2a parte

 (di Luciano Zambianchi)
Orologio ellenistico, 1° secolo avamti Cristo


Foto 1

Nascono gli orologi! La naturale evoluzione del desiderio di possedere il tempo è realizzare uno strumento individuale per misurarlo. Dopo le clessidre e le meridiane a partire dal XII secolo la meccanica ha un grande sviluppo nell’orologeria. In Cina intorno all’anno 1000 viene costruito il primo vero orologio ad acqua, ossia con un meccanismo a ruote mosso dall’acqua, non una clessidra, anche se in quel periodo di clessidre ne erano state costruite di complicate.
Foto 2

La maggior parte di questi strumenti erano destinati alla misurazione pubblica del tempo; sulle torri dei comuni, e nei campanili incominciano ad essere istallati orologi meccanici, sono sistemi che producono suoni, normalmente rintocchi: un rintocco per ogni ora, ma che ancora non hanno i quadranti. Vengono costruiti i primi automi, spesso sono loro che sulle torri colpiscono con martelli o mazze le campane, e con le campane piccole suonano anche le mezz’ore, mentre i meccanismi diventano sempre più piccoli. Solo nel 1330, tuttavia, oltre al suono compaiono i quadranti e diventa possibile leggere le ore. Forse per questo da allora, nella lingua francese, orologio si dice “montre” da “ore in mostra”. Sono pochi gli orologi di questo periodo rimasti al loro posto. Uno di questi è ad Orvieto, sulla torre Maurizio o torre del Moro, dalle date impresse sulle campane l’orologio risulta costruito nel 1351 (foto 1-2), anche se poi il meccanismo verrà sostituito verso la fine del 1300; un altro orologio antico lo possiamo ammirare a Venezia in piazza San Marco: è un orologio astronomico, complicato e ricco di automi, costruito intorno al 1400.
Foto 3

Tra il 1400 e il 1500 tante città si dotarono di orologi pubblici e oggi è possibile vederli ma quasi nessuno è ancora funzionante. Nello stesso periodo vengono realizzati orologi da tavola, sono gli svegliarini monastici che servono per indicare le ore delle preghiere (foto 3). Nelle corti e nei castelli vengono accolti artisti e astronomi che progettano e realizzano macchinari sempre più complicati: famoso è l’orologio astronomico di Giovanni Dondi (1330-1388) che per tutta la sua vita a Firenze perfezionò un meccanismo di sua invenzione, poi andato perduto, e per fortuna ne sono rimasti i disegni e sono state realizzate diverse copie. Spesso, proprio grazie ai disegni, è stato possibile riprodurre esemplari andati distrutti. Rivedere queste macchine è estremamente stimolante per chi ama l’orologeria.

Foto 4 

Per dirla tutta, la ragione stessa di questo articolo è che mi è capitato di dover riparare un orologio (foto 4) con un meccanismo analogo ai primi orologi da tasca (foto 5). In realtà non è possibile stabilire chi fu il primo costruttore di orologi da tasca: da anni orologiai di varie nazioni europee cercavano di produrne uno. Probabilmente le prime macchine sono andate distrutte e non se ne ha più traccia. È certo però che le prime casse erano portaprofumi che tutti erano costretti ad usare nel 1500: le “mele muschiate” (come si chiamavano in Italia) erano contenitori sferici d’ottone forati nella parte superiore, che contenevano legni e muschi profumati; questi contenitori avevano un anello alla sommità con cui appenderli al collo tramite una catena.
Foto 5

Le “mele” erano divise a metà per permettere di sostituire i muschi e i profumi. La ragione di questi contenitori è che nel 1500 la gente non si lavava, si ha notizia che una signora veniva considerata “eccentrica” se si lavava una volta all’anno senza un ordine specifico di un medico. In quegli anni era anche normale lanciare dalla finestra gli escrementi, passare nei vicoli di città come Londra, Parigi, Roma era decisamente pericoloso, ma soprattutto non era possibile se non si aveva la possibilità di respirare attraverso un “respiratore” capace di mascherare gli odori. Il più antico orologio da tasca (o meglio da borsa) che è rimasto è ora esposto a Baltimora, si tratta dell’orologio di un riformatore protestante, molto famoso nella sua epoca: Philip Melanchthon (1497-1560, noto anche in Italia come Filippo Melantone). Su questo orologio c’è scritto: - PHIL. MELA. GOTT. ALEIN. DIE HER 1530. La carica è a molla e il movimento è trasmesso alle ruote attraverso un sistema “fuse” (foto 6) una specie di cambio continuo che si dice essere stato inventato da Leonardo da Vinci.

Foto 6
L’accoppiamento è realizzato con una corda in budello di gatto: già in quel periodo il budello veniva usato nelle corde dei violini. L’orologio che ho riparato in realtà è stato costruito in Inghilterra nel 1930 in modo artigianale e tutto il meccanismo era sovradimensionato. Dopo aver sistemato la corda ho dovuto tarare la tensione della molla attraverso una ruota dentata, quasi uguale a quella del primo orologio (foto 10).

Foto 7

Le repliche degli orologi storici sono molto importanti, e grazie ad alcuni soci dell’associazione americana dei collezionisti d’orologi d’epoca si sono realizzate repliche perfette di movimenti che sono stati pietre miliari nello sviluppo dell’orologeria. Dal XV secolo ad oggi i movimenti sono diventati sempre più piccoli e complicati: molti produttori hanno puntato sulla precisione estrema. Ma anche gli orologiai hanno un posto speciale nella storia: nel XII secolo gli artisti facevano a gara nel costruire meccanismi, ma la passione per l’arte dell’orologeria è continuata nei secoli. Avreste mai creduto che Jean-Jacques Rousseau (foto 11), nato a Ginevra il 28 giugno del 1712, era figlio di un orologiaio e per molti anni è stato orologiaio lui stesso, anche se non è certo famoso per questo?

Foto 8

Che dire poi di François-Marie Arouet (foto 12), più noto con lo pseudonimo di Voltaire (Parigi, 21 novembre 1694 – Parigi, 30 maggio 1778), usò la metafora dell’orologiaio per spiegare la sua cosmogonia: pochi sanno che lui stesso, dopo un soggiorno a Ginevra nel 1755 comprò nel 1758 una tenuta a Ferney nel paese di Gex (in territorio francese, ma al confine con la Svizzera). Voltaire oltre a fare l’allevatore iniziò a fabbricare orologi: i suoi biografi ricordano che nel paese dava da vivere a circa mille persone. Ho controllato con attenzione queste informazioni, sono pochi i biografi che danno un peso alle sue capacità di orologiaio. Oggi gli orologi da polso sono diventati piccoli computer che possono essere usati anche per telefonare o collegarsi ad internet, scattare foto, misurare la frequenza cardiaca o l’altitudine. Personalmente però rimango legato agli orologi meccanici, li trovo più “umani” e vicini a noi: anche se esiste un collezionismo legato agli orologi digitali, a mio parere solo quelli meccanici sono opere d’arte da conservare per i posteri. “Segnatempo” capaci di rappresentare il loro tempo.

Foto 9


Didascalie
Foto 1: Torre del Moro (o torre di S. Maurizio) a Orvieto.
Foto 2: L’automa della Torre del Moro e le campane(Orvieto 1351).
Foto 3: Uno svegliarono monastico.
Foto 4: Meccanismo di un pendolo inglese del 1930 prima della riparazione.
Foto 5: Il più vecchio orologio individuale arrivato fino a noi.
Foto 6: Il meccanismo a fuse è collegato alla molla da un budello di gatto.
Foto 7: Nel movimento antico la taratura dell’accoppiamento usa un sistema identico.
Foto 8: Jean-Jacques Rousseau figlio di un orologiaio ha lavorato come orologiaio lui stesso.
Foto 9: François-Marie Arouet, più noto come Voltaire.


(Foto 1, 4 dell'autore. Altre foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)








giovedì 28 aprile 2011

Possedere il tempo: 1a parte

 (di Luciano Zambianchi)

Orologio del periodo ellenistico, 1° secolo avanti Cristo

Foto 1





Quando è nato il tempo? Quando è nata la voglia di misurarlo? Chi decide di scrivere una storia, anche se breve, dell’arte di misurare il tempo si trova a riassumere in poche righe la storia dell’umanità. La voglia o la necessità di misurare il tempo per determinare i ritmi giusti per la caccia, la coltivazione, le transumanze, i matrimoni e ogni altro evento della vita nasce praticamente con l’uomo. Da matematico mi piace scoprire le “formule” che rappresentano un fenomeno, una di queste rappresentazioni è comune a tutti e la voglio condividere con un gioco che potrebbe chiamarsi “possedere il tempo”. Avrete tutti notato che nella terza età molti anziani si dedicano con assiduità al gioco delle carte, alcuni lo fanno arrivando ad esprimere nel loro gioco la propria personalità o addirittura i propri bisogni.
Foto 2

Ma che cosa rappresentano le carte e quali sono le ragioni di questo successo planetario? Proviamo a svelarne alcuni aspetti, intanto i quattro semi (cuori, quadri, fiori e picche) per alcuni rappresentano le quattro stagioni, per altri, più documentati, derivano direttamente dai quattro elementi: aria, acqua, fuoco e terra. Secondo il libro “Gli orologi” (di Enrico Morpurgo) in Egitto il dio della terra era Horo (da cui Ora). In questo caso Morpurgo è superficiale, in realtà c’è solo una somiglianza tra Horo e Ora: Horo figlio di Iside ed Osiride va pronunciato Rà, per questo ci può forse essere una comune radice ma niente più. In realtà sarebbe stato bello e ricco di significati metaforici, se così non fosse: in Horo si incarnavano i faraoni e secondo uno studio teosofico sempre Horo è un precursore di Gesù di Nazareth, di cui anticipa la vita: nato da una vergine con una immacolata concezione, morto a trentatre anni risuscita e siede alla destra del Padre, e per completare il quadro è il punto di partenza di una nuova era. Torniamo alle carte: un mazzo contiene 52 carte, tante quante sono le settimane in un anno. Ogni seme contiene 13 carte, i mesi lunari in un anno. Se si sommano i numeri delle 13 carte di ogni seme e si moltiplica per quattro (il numero dei semi) si ottiene 364: i giorni dell’anno, ma in più c’è una matta (per gli anni bisestili), anzi ce ne sono due ad ulteriore correzione di questa rappresentazione metaforica della misurazione del tempo, e che rappresentazione! 


Foto 3

Considerate che il gioco delle carte è antichissimo, in Italia sembra che il gioco abbia avuto inizio prima nel sud e poi nell’Italia settentrionale e a diffonderlo pare siano stati i “gitani”, possessori di un potere quasi magico e per questo temuti. Ma gitano deriva da egiziano, e non furono proprio gli egiziani ad impegnarsi nello studio dell’astronomia e della misurazione del tempo? Sempre il dottor Enrico Morpurgo nel suo libro “Gli orologi” ci consiglia di osservare bene i disegni riportati comunemente sulle carte che rappresentano i fanti di picche e di fiori: sono simboli interessanti, in particolare è una clessidra stilizzata quella osservata dal fante di picche (foto 1), mentre il fante di fiori ha una pertica per misurare la quantità d’acqua di una clessidra ad acqua che veniva comunemente usata in Egitto. Ricordo che la parola “clessidra” deriva dal greco e significa “misurare l’acqua”. Naturalmente, “paese che vai usanze che trovi” (e quindi mazzi di carte) (foto 2). Alcuni degli elementi che ho segnalato rimangono costanti anche in culture diverse e lontanissime tra loro). Le clessidre sono oggetti usati oggi solo per gioco, anticamente però erano usate ovunque, specialmente negli uffici pubblici. Il problema era la necessità di avere un addetto alla misurazione dell’ora (foto 3). 

Foto 4

Diversa è la sorte delle meridiane solari (foto 4) che vengono ancora oggi usate dagli esploratori: ne esistono modelli estremamente sofisticati, ce ne sono da tasca (foto 5) o addirittura da polso (foto 6). Il problema era ed ancora è che le meridiane solari funzionano solo se c’è il sole.

Foto 5

L’imperatore Augusto fece realizzare a Roma, in Campo Marzio una gigantesca meridiana e come gnomone, alto più di 22 metri, volle usare un obelisco preso nel 10 aC in Egitto ad Heliopolis: era l’orologio solare più grande d’Europa (Horologium Augusti). Ho avuto la possibilità di osservare pezzi dei tracciati in pietra (con cui erano segnate le ore), tracciati intarsiati sul pavimento della piazza che oggi sono nelle cantine di Campo Marzio (foto7) diversi metri sotto l’attuale livello del suolo. La meridiana di Augusto venne distrutta durante le invasioni barbariche e, soprattutto, da un terremoto che fece crollare il 30 aprile 801 molti palazzi romani oltre al tetto della basilica di S. Paolo Fuori le Mura (del terremoto parla Eginardo negli “Annales”). 

Foto 6

Per secoli i cinque frammenti dell’obelisco rimasero sepolti fino al 1502, quando vennero trovati per caso nella cantina di un barbiere in Largo dell’Impresa. Quasi tre secoli dopo, nel 1791, Papa Pio VI dette incarico di restaurare la meridiana all’architetto Giovanni Antonioli che terminò il suo lavoro in tre anni anche con l’aiuto degli astronomi vaticani, sistemando sulla punta dello gnomone (dell’obelisco ) una cuspide con una fessura che permetteva di osservare il mezzogiorno solare sul lastrico di piazza di Montecitorio (vicino all’ingresso del parlamento). L’obelisco, per problemi urbanistici era stato sistemato in un punto diverso rispetto a quello originale, ma a leggere Plinio (morto nel novembre del 79 dC) la meridiana non funzionava più già nel 47 dC, per colpa di un terremoto, o più semplicemente di un assestamento del terreno. 

Foto 7

Il funzionamento di una clessidra ad acqua è abbastanza intuitivo: un flusso costante permette di riempire una vasca e, a seconda dell’altezza dell’acqua, ossia della quantità di acqua presente nella vasca, saremo in grado di conoscere il tempo che è passato dal momento dell’apertura del rubinetto al momento della misurazione. Di solito sulle pertiche usate per la misurazione sono già riportate le ore ed i minuti. Quando la vasca è piena si passerà a riempire una nuova vasca mentre si svuota quella piena. Le meridiane funzionano grazie all’ombra che un perno di una certa altezza (gnomone) proietta sulla scala graduata. La meridiana deve essere tarata per tener conto della latitudine e longitudine e naturalmente dei punti cardinali (di solito lo gnomone va orientato a nord). A seconda dell’altezza del sole sull’orizzonte (quindi del mese) ci sarà un’ombra più o meno lunga e sarà possibile leggere l’ora solare in modo corretto. Dopo le clessidre e le meridiane a partire dal XII secolo nasce la meccanica nell’orologeria,  e chi è curioso potrà scoprirne delle belle.


Didascalie:
Foto 1: Il fante di picche osserva una clessidra, il fante di fiori ha una pertica.
Foto 2: Mazzo di carte russe.
Foto 3: Vaso di una clessidra ad acqua dell’antico Egitto.
Foto 4: Meridiana solare tedesca.
Foto 5: Meridiana da tasca americana.
Foto 6: Meridiana da polso.
Foto 7: Parte del quadrante della grande meridiana di Augusto (nelle cantine di Campo Marzio).

(Le foto 1, 2, 4, 5 sono dell'autore.Altre foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)

mercoledì 27 aprile 2011

Le mie Tartarughe

Di Ornella Tessitore 
Foto 1


Foto 2


Da qualche anno sono molto interessata al mondo indiano ed in particolare alle antiche credenze di origine bangladese, così mi è capitato di leggere che alcuni indiani raccontarono all’antropologo Geertzì la reazione di un inglese quando essi gli dissero che il mondo poggiava su una piattaforma che si trova sulla schiena di quattro elefanti, i quali a loro volta erano sostenuti dal dorso di una tartaruga. L’inglese, da buon razionalista, chiese su che cosa poggiasse allora la tartaruga. “Su un’altra tartaruga”, gli risposero. “E questa allora su che cosa poggia?” “Ah, Sahib, sotto ci sono tante tartarughe!”. Questa storia mi ha molto divertito pensando alla faccia dell’inglese che prefigurava un mondo in bilico traballante su un numero indefinito di tartarughe (foto 1). E venne il giorno in cui, per una fortunata serie di coincidenze, anche noi ci ritrovammo ad ospitare una colonia di tartarughe diverse per età e dimensioni. Fino ad allora gli unici animali con cui avevo condiviso una parte della mia vita erano stati uno splendido Collie e un bellissimo gatto nero simile ad un persiano, e devo confessare che avevo sempre ritenuto che solo cani e gatti potessero essere considerati animali domestici.
Le tartarughe che avevo avuto fino a quel momento erano esemplari inanimati, di vari materiali, che avevo iniziato a collezionare sin dal tempo della mia permanenza universitaria a Siena, con relativa frequentazione della contrada della Tartuca (foto 2). Mi sono affezionata immediatamente a quei piccoli carri armati che hanno iniziato a circolare sul nostro terrazzo, osservando i loro comportamenti per imparare a conoscerli e anche per assegnare i nomi di battesimo a quelli che ancora non ne avevano. E già, perché una delle prime cose che abbiamo fatto è stata quella di spiarle, con discrezione, per scoprirne i caratteri e quelle differenze che ci avrebbero permesso di trovare i nomi adeguati.

Foto 3

A dire il vero, osservarle per ore è una cosa che continuiamo a fare anche adesso (a tre anni dal loro arrivo) e le nostre amiche ci ricambiano mostrando di riconoscerci e di avere fiducia. A differenza di tre anni fa, non si ritirano nel carapace quando le accudiamo: si lasciano accarezzare sotto il collo, ci vengono incontro quando usciamo in terrazza ed hanno con me un rapporto diverso da quello che hanno con Luciano. Non sono disturbate dalla nostra presenza neppure nei momenti più intimi: ho potuto vedere Leopoldina scavare il nido e deporre le uova, e lo stesso ho potuto fare anche con Rosina e Colomba (che abbiamo chiamato così perché ha sul carapace certe abrasioni che sembrano disegnare la coda di una colomba). Anche in quei momenti ho potuto osservare i diversi caratteri, Leopoldina è scrupolosa nella scelta del luogo e molto attenta nel cancellare le tracce del nido, passandoci e ripassandoci sopra. Rosina e Colomba sembrano più frettolose, forse dipende dal fatto che sono più giovani. Ho nominato per prima Leopoldina perché a lei è legata una scenetta a cui ho assistito durante una deposizione: mentre la nostra amica stava sforzandosi per far uscire e sistemare nel nido le sue uova (foto 3, 3a) ha incominciato a piovere violentemente, Luciano che la stava fotografando ha preso un ombrello ed è rimasto mezz’ora immobile a proteggere la “mamma” dall’acquazzone.


Foto 3a

La cosa mi è piaciuta e mi ha divertito. Ho fotografato con il mio telefonino la scenetta, che poi ho mostrato agli amici a spiegazione degli “acciacchi” lamentati da Luciano. Fino a due anni fa tra le nostre ospiti le femmine adulte erano solo tre, ed anche per questo abbiamo deciso di tenere le loro uova al calduccio in una incubatrice in modo da controllare il sesso dei nascituri e riequilibrare la quantità di femmine nella nostra piccola comunità. Mamma mia! che emozione quando è nata la prima piccolina (foto 4)! Poco prima che si liberasse del tutto dal guscio dell’uovo che la conteneva l’ho presa in mano con estrema delicatezza: una piccola pallina da ping pong con gli occhietti ancora chiusi e pezzettini di guscio ancora incollati addosso. La prima piccolina che abbiamo chiamato Ada non era perfetta, aveva la testolina piegata verso sinistra e un numero spropositato di placchette sul carapace. Sembrava anche un po’ in difficoltà con le gambine. A proposito, le gambette delle tartarughe esercitano un fascino particolare, con tutte quelle piegoline, e un po’ grassocce, mi fanno pensare alle gambe dei neonati: è una cosa irresistibile fare il solletico ai piedini delle mie bimbe. Quando ho tenuto in mano Ada, guardandola ho provato l’irresistibile desiderio di proteggerla, lei che per le sue imperfezioni aveva maggior bisogno di affetto. Non avrei mai creduto di poter pensare una cosa simile! Per i venditori di tartarughe i difetti che io riscontravo sono tutti pregi che impreziosiscono le bestiole, rendendole come pezzi unici, da vendere a caro prezzo, come se fossero rarità. Per me ognuna delle bimbe è un pezzo unico, ognuna ha il proprio carattere, la propria unicità, che le rendono individui vivi, parte integrante della famiglia.


Foto 4

Gli amici si stupiscono perché le riconosco tutte. A proposito, abbiamo stabilito di assegnar loro i nomi in ordine alfabetico (rispettando il tempo di schiusa delle uova) e con un numero di lettere definito dall’anno di nascita: tre lettere per la prima covata (2009), quattro per la seconda e in seguito aumenteremo il numero delle lettere. Abbiamo usato solo nomi femminili, anche se avremo la certezza del loro sesso solo tra 5 o 6 anni, e tra quelli possibili abbiamo dato la preferenza ai nomi delle nostre amiche, cosa che continueremo a fare. La mia preferita fra le piccole è Flo (foto 5). È una furbacchiona che si accorge di essere la prediletta. Quando metto la mano nello spazio dove vivono, quasi tutte si avvicinano e dopo un po’ cercano di mordere le mie dita: Flo no, lei si avvicina, piano piano comincia a salire sulle mie dita e quando raggiunge il palmo della mano appoggia la testina nell’incavo fra le dita e si addormenta.


Foto 5

Questo sempre ogni volta che le avvicino la mano. Flo è proprio speciale anche come aspetto: è l’unica del suo gruppo ad indossare un pullover a V, o meglio, io chiamo maglioncino il carapace delle piccoline e Flo è l’unica che ha sotto il collo una apertura che ricorda la scollatura di un maglione a V (foto 6). Ma non ci sono solo le piccole tra le mie preferite. Quando esco sul terrazzo per accudire le tartarughe più grandi comincio a chiamarle per nome e subito sento uno smuoversi di foglie e di qualcosa che si agita e come un carro armato vedo arrivare Elena di corsa: ma chi l’ha detto che le tartarughe camminano lentamente? Parte sparata magari dal gazebo in fondo al terrazzo solo perché sente la mia voce e arriva di corsa, poi si piazza davanti a me e mi guarda, mi sale sulle scarpe e mi viene appresso appresso e quando metto la lattuga nel posto dove mangiano, lei non si ferma e continua a seguirmi. Per coccolarle mi porto dietro qualche cibo che so essere di loro gradimento, a seconda delle diverse preferenze, perché Pietro ama le mele, Elena i pomodori e un po’ tutte si contendono i fichi.


Foto 6

Cerco di non dare troppo da mangiare, so bene che, come per noi, le cose che piacciono di più sono quelle che fanno più male. A volte le imbocco ed è uno spasso vedere quando strappano a morsi i pomodori senza sbagliare mira e schivando le mie dita. Mentre Elena mi segue, Paride si precipita seguito magari da Pietro o da Aurelio (foto 7) e, a ruota, da Colomba o Rosina che vengono di corsa a vedere che cosa si stanno perdendo, in un attacco di gelosia. Le piccole dovrebbero essere tutte femmine e ne hanno le caratteristiche: quando le accarezzo come se niente fosse allungano il collo e cercano di mettere in bocca le pietre dei miei anelli, come se davvero fossero attratte dai gioielli e dai monili; devo aggiungere che il carattere delle piccole non è solo positivo, spesso siamo vittime dei loro dispetti. Quando a volte ci assentiamo dalla mattina, le svegliamo un po’ più presto del solito: beh! ci guardano storto e, per un po’, non ci danno confidenza (foto 8). Quando poi rientriamo ci fanno trovare qualche disastro: a volte hanno spostato la loro casetta o rovesciato il contenitore con l’acqua, come ragazzini capricciosi.


Foto 7

Si dice che le femminucce siano più curiose, e questo è vero anche per le nostre piccoline: una notte ho trovato Gea che era andata nella cassetta accanto alla sua per vedere che cosa erano quelle palline piccoline munite di zampe, che da un po’ vivevano lì accanto. Poi, tranquilla, si è addormentata nella cassetta delle sorelline. Flo invece ha scavalcato il bordo della sua cassetta e ha fatto il giro della cucina lungo tutto il perimetro, poi, quando è arrivata verso la metà della superficie che stava esplorando, si è fermata, come se stesse pensando, e quindi di corsa, senza indecisioni, ha percorso la stanza in diagonale ed è rientrata nella sua casetta. Le differenze emergono in ogni momento, anche quando le prendo in mano: Gea si mette con le zampine di dietro dritte dritte come uno sciatore durante un salto, Flo invece si aggancia e si tiene stretta al palmo della mano come se al posto delle zampette avesse una sorta di molle con cui stringe le mie dita.


Foto 8

Ogni volta che passiamo davanti alle loro cassette tirano su la testa e allungano il collo. se parliamo si girano a guardarci e seguono i nostri discorsi, come se volessero interloquire. Di fatto le nostre tartarughe non sono mute e quindi non mi stupirei se tra qualche anno ci rispondessero. Ho scoperto che le nostre piccoline squittiscono, non a volume altissimo, ma si sentono. Chiedo scusa di questo tartarughilogio, capisco benissimo che posso sembrare un poco fissata, anch’io avrei pensato così leggendo queste cose qualche anno fa. Ma fidatevi, non è così!

Didascalie
Foto 1: Bronzo indiano con tartarughe sovrapposte.
Foto 2: Una parte della mia collezione, poi ci sono le monete e i francobolli.
Foto 3: Leopoldina scava la buca per deporre le uova.
Foto 3a: Leopoldina depone le uova che sistema una ad una nel nido.
Foto 4: Ada la nostra prima nascita.
Foto 5: Flo (la sesta nata) al suo primo compleanno.
Foto 6: Flo ha sul piastrone una scollatura a V.
Foto 7: Aurelio, un maschio di circa un chilo e mezzo.
Foto 8: Undici piccole ad un mese dalla nascita.


(Tutte le foto sono dell'autore. Click per ingrandire)