sabato 5 febbraio 2011

Il Duce e Biancaneve

Di Marino Mariani

Walt Disney e Shirley Temple
Il film Biancaneve e i sette nani fu il primo lungometraggio realizzato con la tecnica dei cartoni animati, quella che veniva comunemente impiegata nei filmetti di ca. 8 - 9 minuti che, nelle sale cimetografiche, venivano proiettati come intermezzo nel programma che comprendeva un film principale, un film secondario facoltativo, un cinegiornale e, appunto, questi brevi cartoni animati. Ma poi, in America, si ventilò la proposta di rendere obbligatoria la proiezione di un secondo film, ed allora si cominciò a temere che la proiezione dei cartoni animati venisse a cessare. E venissero a cessare gli introiti delle case cinematografiche specializzate nella produzione dei cortometraggi animati, dedicate essenzialmente, ad un pubblico infantile. Tra le case minacciate da questo provvedimento in prima fila si trovava quella di Walt Disney, che si era specializzata nelle cosiddette “Silly Symphonies”, cioè le “Sinfonie Allegre”, che si avvalevano di personaggi che si erano conquistati il favore del pubblico dei più piccini: Topolino e la sua fidanzatina Minnie, Pippo, il cane Pluto, Paperino, i Tre Porcellini…..Wallt Disney pensava di salvarsi se, utilizzando quelle tecniche in cui eccelleva (disegni animati, colori ed accomapagnamento musicale sincronizzato), avesse potuto realizzare un intero film della durata abituale di un’ora e dieci, venti, trenta minuti….Il progetto fu giudicato irrealizzabile, ed i suoi familiari lo pregarono insistentemente di desistere. E dello stesso parere erano anche alcuni dei suoi più stretti collaboratori. L’ostinazione con cui Walt Disney rimase fedele al suo progetto fu denominata ufficialmente “La follia di Disney”. La realizzazione di Biancaneve meriterebbe una trattazione a parte, e qui basterà dire che durò più di tre anni, impiegò diverse centinaia di specialisti, implicò l’invenzione e l’impiego di nuove tecniche e bruciò somme di denaro dieci, cento volte maggiori del preventivato. E così Walt Disney si trovò ad invocare disperatamente nuovi prestiti dalle banche, un'impresa quasi disperata. Comunque tagliò, incollò, spolverò e lucidò i metri di pellicola girata, e si recò in banca con tutta l’apparecchiatura necessaria alla proiezione. Il direttore l’accolse senza fare nessun commento, stette in profondo silenzio per tutta la durata della proiezione, rimase in silenzio anche dopo la proiezione, non espresse nessun segno di approvazione, accompagnò Walt Disney all’uscita e così lo salutò: “Penso che il vostro film farà un sacco di quattrini. Avrete tutto il denaro che vi servirà”. Alla fine Bincaneve venne a costare un milione e settecentomila dollari, una cifra incalcolabile per quei tempi. La sua prima proiezione avvenne il 21 dicembre 1937, nella sala del Carthay Circle Theatre di Los Angeles. Il pubblico non era formato dai più piccini, bensì da critici e giornalisti professionisti, da gente di teatro e di cinema, da affaristi potenziali finanziatori, nonché da tutti coloro che erano rimasti scettici fino all’ultimo. Ed all’ultimo tutti si alzarono in piedi ad applaudire freneticamente.

Leni Riefenstahl 





Lo scontro con Olympia
L’anno successivo (1938) Biancaneve e i sette nani fu presentato alla mostra cinematografica di Venezia, e per ottenere un posto sul podio dei vincitori, si dové scontrare con il colosso tedesco Olympia, che costituiva anch’esso una novità assoluta. Era, infatti, il primo film girato su un’Oimpiade, e le Olimpiadi di questo film erano nientemeno che le Olimpiadi di Berlino del 1936, la manifestazione sportiva più grandiosa ed imponente che mai fosse stata organizzata fino allora, e che anche per il futuro seguita a restare come un modello irripetibile. Furono anche le prime Oimpiadi trasmesse su teleschermi piazzati in vari punti della città, prima ancora che la televisione fosse stata (ufficialmente) inventata (!).In definitiva, come Biancaneve era un grande cartone animato, così Olympia era un grande (anzi: grandissimo) documentario, non un convenzionale film a soggetto. A girarlo fu la più grande donna della cinematografia mondiale: Leni (Elena) Riefenstahl: audace, innovativa, intelligente, conturbante e….michelangiolesca nell’esaltazione della figura umana. Ogni suo fotogramma, ogni sua inquadratura è un’opera di Fidia, di Mirone, di Policleto. Nella massa degli atleti partecipanti ella volle individuare i protagonisti, li vuole isolare nel momento della lotta e della vittoria. Ma li riprende poi nelle pause di intimità e li raffigura come veri esseri umani. Come nella gara del salto in lungo, ove il bianco ariano hitleriano Luz Long si misura col negretto figlio di schiavi Jesse Owens: ad ogni salto Long migliora la misura precedente, e così fa Owens. Finché, all’ultimo salto, prevale il negro. Ma i due non sono rivali: per non so quale alchemia del destino, tra loro scoccò la scintilla della fraternità a prima vista. Owens era impegnato in quattro finali, e Long lo salvò avvertendolo che stava per cominciare l’eliminatoria dei 200 metri, e se non si sbrigava, sarebbe stato squalificato….Quando Owens tornò in patria fu trattato da schiavo figlio di schiavi: l’infame Avery Brundage, capo del settore dell’atletica (ma poi per decenni fu presidente del comitato olimpico internazionale), l’accusò di professionismo e gli fece togliere tutti gli onori conquistati a Berlino. Perché? La federazione di atletica si trovava a riscontrare un deficit di 20 o 30,000 dollari, e Brundage pensò bene di ripianarlo portando gli atleti che avevano disputato le Olimpiadi di Berlino in tournée per tutta l’Europa.

Jesse Owens
Owens invece voleva tornare a casa e rifiutò, da qui il decreto di proscrizione. Owens non poteva più gareggiare, e si arrabbattò facendo il fenomeno da baraccone, correndo contro cavalli, contro ciclisti, ed anche contro il suo amico Joe Louis, campione mondiale dei pesi massimi: Owens comandava agevolmente la gara, ma arrivato a pochi metri dal traguardo…..cadde! Comunque Owens era bello, simpatico, elegantissimo, e non stupitevi se io lo definisco addirittura leggiadro. Per queste sue caratteristiche ebbe diversi incarichi onorifici, tra l’altro quello di accompagnatore della squadra di pallacanestro, formata tutta da funambolici negri, degli Harlem Globe Trotters, che visitava regolarmente anche Roma, ed io la vidi. La squadra faceva tappa anche a Berlino, ed Owens, una volta, vide spuntare dalla folla anche il suo vecchio amico Luz Long. Vecchio? Ma dopo tutti i decenni passati, costui era ancora un giovanotto..! Ed il giovanotto parlò: “Papà è morto in Russia, ma mi aveva detto che il suo più grande amico era Jesse Owens”.
Nonostante i timori iniziali, di essere travolti dai negri americani, la Germania stravinse quei giochi, lasciando gli Usa al secondo posto, e l’Italia al terzo. Accanto alle preventivate vittorie degli schermidori, gli italiani, che erano i campioni del mondo in carica, vinsero anche il torneo di calcio. E particolarmente applaudita fu la vittoria di Trebisonda (Ondina) Valla negli 80 m ad ostacoli, che l’obiettivo di Leni Riefenstahl fissò per l’eternità nel suo fiero saluto romano.

Ondina (Trebisonda)) Valla

E per chiudere, chiariamo un’altra leggenda che molti seguitano a raccontare come se fosse un vangelo sinottico. Quella che Hitler, stizzito, si rifiutò di andare a premiare Jesse Owens. In effetti, durante la prima giornata dei giochi, Hitler si era ripetutamente alzato ed era sceso in campo per stringere la mano ai vincitori, ma il comitato olimpico internazionale gli fece subito passare quel vizio ricordandogli che la premiazione dei vincitori era una cerimonia ufficiale rigidamente regolata dal protocollo, e che nessuno era autorizzato a scendere dagli spalti ed entrare in campo. A nessun titolo. Se Hitler non fosse compostamente rimasto al suo posto, il comitato avrebbe sospeso i Giochi. Non era questo il primo rospo che Hitler dovette ingoiare per opera del comitato che, prima dell’inizio dei Giochi, intimò ad Hitler di far sparire dalla città tutti i manifesti antiebraici di cui era costellata. Hitler replicò che, da parte loro, gli USA perseguitavano i negri, ma il comitato respinse il paragone tra gli ebrei bianchi e i negri neri, e come al solito minacciò di sospendere le Olimpiadi, ed Hitler dovè abbozzare. Nelle sue memorie Jesse Owens afferma che, ogni volta che passava a contatto di vista con Hitler, costui gli faceva un benevolo accenno di saluto, che lui ricambiava.

Amedeo Nazzari
Il volere del Duce
Anche l’Italia, ovviamente, ha la sua schiera di film (“pellicole”, si diceva allora) in lizza per la vittoria. A capo del quale subito si profila “Luciano Serra Pilota”, un film eroico, interpretato da Amedeo Nazzari, l’archetipo del novello italiano di fede fascista: alto, bello, riccioluto, atletico, e soprattutto leale, onesto, pronto ad ogni sacrificio. Non solo in questo film, ma in tutta la sua carriera e sotto i diversi regimi, Amedeo Nazzari ha sempre palesato una suprema dignità, mai abbassandosi a ruoli infami ed equivoci: mai ha pronunciato una parola sconcia. La sua massima invettiva cinematografica fu, nella Cena delle Beffe: “E chi non beve con me, peste lo colga!”, e questa frase detta in stretta tonalità sarda divenne l’epicentro di infinite imitazioni e parodie. Il film traeva spunto dalle famose spettacolari imprese aviatorie di Italo Balbo, che al comando di nutriti squadroni di idrovolanti Savoia Marchetti compì le leggendarie trasvolate atlantiche, in formazione compatta, dei “Sorci Verdi” e del “Decennale” (dell’ascesa al potere del fascismo). Uno degli aviatori partecipanti a queste imprese era, appunto, Luciano Serra, che puoi muore in Africa Orientale cercando di recare aiuto al proprio figlio combattente volontario in Abissinia. Ma il Duce puntava su un altro asso: Biancaneve e i sette nani di Walt Disney: come, dove, quando e perché?! La letteratura, su queste decisioni mussoliniane, era ed è particolarmente disinformata, fuorviante e tendenziosa. Tutta la nazione subì le restrizioni imposte dall’autarchia, cioè il ricorso sistematico ed assoluto ai prodotti nazionali e blocco dell’importazione di ogni tipo di bene, giudicato superfluo, dall’estero. La vulgata tende ad interpretare questa misura come un colpo di testa di Mussolini, invece che come una misura necessaria, ma da quando l’Italia conquistò il suo impero africano, il circolo dei paesi colonialisti respinse l’ingresso dell’Italia nella loro cerchia, come se un cafone pretendesse l’iscrizione al Circolo della Caccia o al Circolo degli Scacchi, notoriamente riservati ai gentlemen. E così, mentre Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda…si scambiavano tra loro le materie prime ed i prodotti agricoli prelevati dai loro imperi sconfinati, l’Italia, in assenza di accordi commerciali paritetici, non poteva importare tali prodotti in cambio di biciclette, macchine per scrivere, automobili e motociclette…., ma solo dietro pagamento in oro. Noi bambini vedemmo sparire dai nostri giornalini gli eroi cui eravamo maggiormente affezionati: Gordon, Cino e Franco, l’Uomo Mascherato, Mandrake….Quello che resistette più a lungo fu Topolino, ed allora si disse che piaceva tanto ai figli di Mussolini, come se i figliolini del Duce non avessero già fatto la guerra d’Africa e non avessero conquistato i gradi di sottotenente per valor militare. Per quanto puerile, questa ipotesi, però, era….più che vera!


Cinecittà
La dote della sposa
Dunque, esisteva la base per un matrimonio, tra la famiglia Disney e la famiglia Mussolini, che non poteva essere definito d’interesse, però (e questo è innegabile) di “reciproco interesse” sì, senz’altro. Walt Disney era titolare di un patrimoniio inestimabile: il suo genio, ma era sempre in lotta con gli ebrei ed i sindacati di Hollywood. La dote della sposa era proprio quello che gli serviva: i 40 ettari di modernissimi teatri di posa sulla via Tuscolana a Roma. E di quei 22 teatri di posa, lo Studio 5, con i suoi 3.200 m2 di superficie, era il più grande d’Europa. Questo complesso di assoluta eccellenza mondiale, si chiama Cinecittà, ed è nato da un’idea di Luigi Freddi che, essendo amico di Galeazzo Ciano (genero di Mussolini), riesce a farla pervenire al Duce che l’approva, e nomina Freddi Direttore Generale per la Cinematografia. Il Duce proclama che: “La Cinematografia è l’Arma più Forte”. Il partito e gli italiani tutti sono galvanizzati. La posa della prima pietra avvenne il 28 gennaio 1936 e dopo soli quindici mesi, l’opera venne inaugurata. Era il 28 aprile 1937, e quel giorno compivo 8 anni. Accanto ai fuochi d’artificio dell’esaltazione retorica, il pensiero di Mussolini era febbrilmente rivolto alla trasformazione di quell’imponente edificio in una miniera d’oro che redimesse l’Italia dalla sua storica povertà. È probabile che la parola “coproduzione” venisse coniata in quei tempi. Ed infatti il progetto di Mussolini era quello di portare a Cinecittà una buona percentuale della produzione di Hollywood, tormentata dalla conflittualità sindacale e dall’esosità capitalistica. In quel particolare, troppo breve, periodo storico, l’America e l’Italia erano strettamente unite. La scritta: “Roosevelt and Mussolini must be brothers!” (Roosevelt e Mussolini siano fratelli!) appariva frequentemente sui muri e sui titoli dei giornali, perché i cittadini di quel grande paese sapevano che il “New Deal”, quel complesso di provvedimenti legislativi emanati dal presidente Roosevelt per battere la grande depressione conseguente al crollo di Wall Street del 1929, era copiato di sana pianta dalla costituzione corporativa italiana, rappresentata massimamente dalla fondazione dell’IRI (Istituto di Ricostruzione Industriale) ed all’istituzione della Previdenza Sociale.

Vitorio Mussolini ad Hollywood, con Shirley
Temple ed il produttore D. F. Zanuck


In questo clima di costruttiva cordiale collaborazione, Mussolini accolse l’invito dei produttori di Hollywood e spedì in America il figlio ventunenne (nel 1937) Vittorio, con cui si iniziarono colloqui sulle coproduzioni. E, puntando tutto sulla popolarità di Biancaneve e i sette nani, provvide affinché a Cinecittà se ne allestisse una versione italiana con i fiocchi e controfiocchi. A tal uopo indusse Lina Pagliughi, il soprano lirico italiano di fama mondiale, nata a New York, a prestare la sua voce alle canzoni cantate da Biancaneve, mentre nei dialoghi la voce di Biancaneve era quella della più esperta tra le doppiatrici cinematografiche italiana: Rosetta Calavetta. Per le canzoni del principe la voce era quella di un altro celebre cantante lirico: il tenore Giovanni Manurita. Va detto che, a quei tempi, il doppiaggio cinematografico era un arte tipicamente italiana. Anzi, si poteva considerare una specialità esclusiva italiana, perché negli altri paesi, in genere, il parlato non veniva toccato e si ricorreva ai sottotitoli, non sempre gradevoli e decorativi. Con questa meticolosa e spettacolare preparazione, la Biancaneve e i sette nani italiana era pronta ad affrontare la giuria internazionale.

Il trionfo
E la giuria internazionale attuò alla lettera il volere di Mussolini, ed emise un verdetto sostanzialmente giusto, attribuendo il Premio Mussolini per il miglior film straniero ad Olympia di Leni Riefenstahl, che fu ben felice di dichiararsi vincitrice del festival di Venezia. L’altro premio Mussolini per il miglior film italiano fu meritatissimamente attribuito a Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini, e rese felici gli italiani tutti. Ma in definitiva chi vinse l’edizione 1938 della Mostra Cinematografica di Venezia? Il vincitore era colui cui veniva attribuito il Gran Trofeo d’Arte della Biennale (sic), e costui fu Walt Disney col suo lungometraggio d’animazione Biancaneve e i sette nani. Si noti che la pellicola vincitrice era la “versione italiana” di Snow White and the seven dwarfs. Walt Disney era raggiante e profuse una marea di complimenti alle maestranze di Cinecittà e a tutti gli artisti che avevano partecipato al doppiaggio. La vittoria a Venezia fu estremamente significativa: in Inghilterra la distribuzione di Biancaneve era stata proibita perché il film era stato giudicato troppo impressionante per i bambini. Anche in Svezia Biancaneve, mi si dice, e non so con quale motivazione, fu proibita. Sulla spinta del successo raccolto a Venezia, anche Hollywood nel 1939 attribui a Walt Disney un premio Oscar speciale, ad honorem, in forma di una statuetta di formato regolamentare, e di altre sette statuette di formato mignon. Pur essendo un premio onorifico, la cerimonia fu toccante, in quanto gli venne consegnato dalla grande diva del momento: Shirley Temple di anni 11.

Adriana Caselotti


C’è quasi un destino che lega Snow White all’Italia, ed è
la voce della protagonista: avendo provveduto a tutto il resto, Walt Disney concentrò tutti i suoi sforzi per trovare la voce adatta per questo personaggio etereo, ed indisse una selezione cui parteciparono qualche centinaio di ragazze. Persino Deanna Durbin partecipò alle prove…e fu respinta! Ed allora si ricorse ad un celebrato maestro di canto italiano: Guido Caselotti, cantante lui stesso, cantante la moglie soprano in un non identificato Royal Theater, cantanti le figlie Louise ed Adriana. Mentre il padre era al telefono a parlare con un emissario di Walt Disney, Adriana, la figlia minore, gridò: “Ci voglio provare anche io!”. Il padre la zittì e l’allontanò dal telefono, ma Walt Disney scelse proprio lei. E per sacramentare questa scelta, le diede 900 dollari e le fece firmare un contratto che la impegnava, per tutta la vita, a non cantare in nessun’altra manifestazione. E così la ragazza passò l’esistenza a pubblicizzare il film e a firmare autografi. Per completare l’aneddoto, vi dirò che l’altra figlia, Louise, si dedicò anch’essa al canto e all’insegnamento del canto, e sposò l’impresario teatrale Eddie Bagarozy, il quale formò una compagnia di cui faceva parte una giovane e promettente Maria Callas. Nel 1946 e 1947 Louise Caselotti si proclamò “insegnante” della Callas. Alla fine, per mancanza di fondi, la compagnia si sciolse, e la Callas e la Caselotti presero la nave ed emigrarono in Italia. Per chiudere: nel 1938 o 39, Walt Disney e signora vennero a Roma, dove ebbero un’udienza col Papa ed un invito di Mussolini, non a Palazzo Venezia, ma proprio a casa della famiglia Mussolini, a Villa Torlonia. Il giorno dopo Luigi Freddi li portò in visita a Cinecittà, e si sarebbe potuto dire che vissero felici e contenti, se non per il fatto che Hitler, insensibile a queste tenerezze, scatenò la 2a Guerra Mondiale.


Biancaneve e i sette nani

Walt Disney trovò il doppiaggio italiano del 1938 eccezionale, perfetto, Ma nel 1972, otto anni dopo la sua morte, il doppiaggio fu rifatto, indubbiamente per buoni motivi tecnici, ma furono anche portate giustificazioni deprimenti come quella secondo cui, il primo doppiaggio non era fedele al testo originale. Per esempio, quando Biancaneve morde la mela, dice “I feel strange”, e cioè “mi sento strana”. Nel doppiaggio del 1938 Biancaneve dice, invece: “Ho freddo al cuore”….L’edizione di Biancaneve e i sette nani che offriamo al nostro pubblico è il rifacimento del 1972, ma contiamo di reperire almeno qualche brano con le voci di Lina Pagliughi e di Rosetta Calavetta da pubblicare in seguito. Se i lettori vorranno aiutarci in questa ricerca…..