martedì 31 maggio 2011

Umi Garrett: la Shirley Temple del pianoforte

Umi Garrett
Yoshie Akimoto, l'insegnante



Ultimamente ho trovato la risposta ad un dubbio che mi dilaniava da tempo. Mi donandavo, per esempio, se, come dicono le biografie, Aimi Kobayash ha iniziato lo studio del pianoforte a tre anni, come faceva, alla stessa data e luogo, a suonare già come un’insegnante della Juilliard Music School? In quale fase della sua vita ha studiato per imparare? È mai esistita, dalla sua nascita in poi, un’epoca in cui ancora non sapesse suonare? E questo interrogativo, ovviamente, non si limita alla personcina di Aimi, ma si estende all’esercito di bambine treenni che suonano come nessun altro mai precedentemente. Internet e YouTube sono pieni di esempi che diventano giornalmente sempre più numerosi. Ed è proprio sfogliando internet, sentendo anche i commenti di altri lettori, che mi è balzata sotto gli occhi una soluzione così semplice e convincente che, da solo, non l’avrei mai pensata: queste bambine, che sembrano bambine come tutte le altre, in realtà non sono bambine come tutte le altre, che per suonare debbono imparare a farlo con un lungo tirocinio. Esse nascono già imparate, perché altro non sono che la reincarnazione dei grandi musicisti morti troppo giovani come Mozart, Schubert, Pergolesi, Bellini, Chopin, Mendelssohn, Gershwin….O di altri grandi musicisti, morti più in là, ma con un enorme potenziale ancora inesplorato. Chiarito dunque questo mistero, non rimaneva altro che indovinare di quale compositore del passato ogni bimba fosse la reincarnazione. Una, che mi sembra l’erede di Rossini, è Umi Garrett, una bambina della California, con un padre americano ed una madre che si chiama Fujiko. Il che spiega i suoi lineamente un po’ asiatici. Il che spiega perché nelle biografie si afferma che la ragazzina parla “fluentemente” l’inglese e il giapponese. E si spiega anche il fatto che la sua prima maestra di piano, quando aveva quattro anni, era la signora Tominagua, mentre adesso la sua insegnante è la rinomata signora Yoshie Akimoto, di cui ho trovato ampi rapporti su internet, assieme alla signora Itoe Akimoto, probabilmente sorella della signora Yoshie, ma senza alcuna traccia su Internet. Su Internet leggo che la bambina è per metà giapponese, conclusione alla quale ero già giunto da solo, mentre l’altra metà va equamente suddivisa tra le etnie tedesca, polacca ed irlandese.
Umi Garrett è balzata alla notorietà per la sua apparizione televisiva nel programma di Ellen Degeneres, specializzata in bambini prodigio, durante il quale la bambina ha suonato a rovescio e a testa in giù. Più di trent’anni fa, quando abitavo all’Olgiata, c’era nel vicinato un mascalzoncello specializzato in tiri birboni, non sempre graditi, che una volta, a casa mia, cominciò la sonata op. 110 di Beethoven dando la schiena alla tastiera. Ero sicuro che sarebbe diventato un pianista famoso, ma poi non ne ho più sentito parlare. Umi Garrett ha ripetuto le sue gag acrobatiche in varie trasmissioni, tra cui al cospetto della Boston Pops Orchestra, ma una sua battuta nella trasmissione di Ellen Degeneres è irripetibile. Alla domanda : “A casa tua hai un pianoforte su cui esercitarti?”, col tono solenne e circospetto di un delegato al G8, Umi Garrett ha risposto: “…..Non ricordo!”. Però non posso darvi una garanzia assoluta sull’esattezza di questa battuta, perché non me la cavo troppo bene con l’inglese televisivo sparato a mitraglia ad altezza d’uomo. Se qualche gentile lettore volesse….
Ho detto che, secondo me, Umi Garrett è (potrebbe essere) la reincarnazione di Gioacchino Rossini, l’autore del Barbiere di Siviglia. Si dirà che il Cigno di Pesaro non è morto giovane, anzi (76 anni)…E non si può dire che, morendo, avesse lasciato incompiuta qualche sua opera, o che non avesse totalmente espresso il suo potenziale creativo. Rossini aveva espresso tutto quello che aveva in sé, tanto che a Parigi fu ufficialmente incoronato come il maggior musicista di tutti i tempi. E, incredibilmente, aveva passato gli ultimi quarant’anni (cioè più di metà) della sua esistenza senza far niente, tranne che pontificare nel campo dell’alta cucina. Ma da bambino e da giovanetto era una inesauribile dinamo di iniziative musicali, assorbendo l’insegnamento di chiunque: d’un ciabattino, di un fabbricante di salumi, di un abbattitore del civico mattatoio, d’un libraio…E, nelle stesse categorie sociali ingaggiando i componenti dei suoi complessi musicali, fornendo loro spartiti scritti senza avere la minima cognizione dell’arte del contrappunto (da lui chiamato: accompagnamento). Nel 1950 è venuto alla luce un suo capolavoro: le Sei sonate a Quattro, composte all’età di dodici anni, in poche ore, minuti primi e minuti secondi. Si tratta di brani estremamente cantabili, talché l’intera composiziione sembra una parafrasi strumentale di qualche opera lirica. Ed infatti il padre di Rossini era un suonatore di contrabbasso, e la madre cantante lirica. Evidentemente le sue Sonate a Quattro rispecchiavano i gorgheggi di mammà. Comunque, non appena la situazione di famiglia si stabilizzò, Rossini fu mandato in Conservatorio e cessò di fare il dilettante.
Così, in Umi Garrett vedo una sorta di gioioso protagonismo. Ella sembra non partecipare agli avvenimenti, ma di esserne il centro, esattamente come Shirley Temple. Non sembra aver lottato per raggiungere una determinata posizione, ma di essere nata bella e arrivata. Il suo universo è quello in cui vige la legge del più piccolo: tutti l’abbracciano, la sollevano da terra e se la stringono al petto, il suo cuoricino balla impazzito la danza degli gnomi e sembra spezzarsi nel tripudio. La ricoprono di fiori e di peluches, ciò che per lei costituisce la sua abituale posizione di comando. Non è vero! La sua posizione di comando lei se la guadagna e la esercita suonando, specialmente in un piccolo complesso come può essere un Trio, quando il violino e il violoncello attendono da lei il segnale d’attacco che ella dà con un colpo di testa. Quando suona con l’orchestra, nessuno è più pronto e disciplinato di lei, ma si vede che vorrebe impugnare la bacchetta e dirigere ella stessa. Cosa che probabilmente, nel corso della sua carriera, avverrà.
Come al solito, i biografi e gli esegeti sono traboccanti di dati sui concerti e suoi premi conquistati, mentre poco (o niente) dicono della famiglia e della data di nascita. Per cui si legge: bambina prodigio di 7 anni, di 8 anni, di 9 anni…..e non sempre si trova la data dell’evento, per fare la sottrazione, e stabilire la data di nascita. Comunque, col rischio di sbagliare, io dico che Umi è nata nel 2001, il giorno e il mese lo troveremo. Alla fine di quest’anno dovrebbe avere 10 anni. Ma per il concerto che terrà sabato 4 giugno a Bevagna, in provincia di Perugia è data ancora come 9enne. Il concerto di Bevagna è dato nell’ambito del Festival “Assisi nel Mondo”, una manifestazione da tenere d’occhio, perché quei dannati organizzatori scoprono sempre i bambini prodigio con qualche anno di anticipo su di me, ed ogni volta che io faccio qualche nuova scoperta, dopo si scopre che loro l’hanno fatta due, tre, quattr’anni prima. Va studiata anche la risonanza che la RAI dà all’evento, che in genere manda in onda su qualcuna delle loro numerose stazioni, e che dovrebbe conservare comunque in preziose registrazioni. Per quanto riguarda il concerto del 4 giugno, Umi Garrett si esibirà assieme alla violinista Mascha Datchenko di 16 anni ed al pianista Massimo Spada di 24 anni, al teatro Torti. I posti a disposizione sono 251, e quindi gli interessati faranno bene a cercare su Goggle i seguenti indirizzi: “Umi Garrett a Bevagna” e “Assisi nel mondo”: troveranno le informazioni che cercano. Per quanto riguarda, invece, il programma musicale di questo articolo, esso si fonda sull’esecuzione di Umi Garrett (in inglese le doppie, presenti nell’ortografia, non si pronunciano. La “a” diviene una “e” apertissima, da pronunciarsi sulla punta della lingua, e che io indico con una “æ”, mentre la “e” può essere riprodotta come tale, per cui la pronuncia di Umi Garrett è “umi gæret”) del concerto per piano e orchestra n. 23 di Mozart. Alcuni anni fa (15, forse) mi si accese improvvisamente un acutissimo interesse per questo brano, talché corsi al negozio Hug sul Limmatquai (Zurigo) per acquistarne la novella edizione Bärenreiter. Non so, non riesco a ricordare, chi eccitò in me questo interesse (teoricamente poteva essere una conversazione televisiva di Roman Vlad, ma non mi sembra). Quello che invece non ho dimenticato è la natura di tanta eccitazione: volevo verificare che nel secondo tempo del concerto, l’adagio, la decima battuta dell’assolo iniziale, quella formata da due terzine di note staccate ascendenti, era dodecafonica! (cioè non legata ad una determinata tonalità). Poiché questo concerto fu composto nella Quaresima del 1786 per le Accademie Viennesi, precede di più d’un secolo la fondazione della Scuola Viennese dodecafonica di Schönberg, Berg e Webern, ma senza la pretesa di durare più… d’una battuta!

Mentre rovistavo in lungo e in largo su internet, mi sono imbattuto nella riflessione di un lettore: “Questo concerto, così difficile per i più grandi pianisti dei nostri tempi, è sin troppo facile per certi bambini…”. E parrebbe proprio vero! (io però avrei detto banbine). Ho incluso anche il terzo tempo dello stesso concerto, con un’altra orchestra, col solo scopo di mostrare Umi ricoperta di fiori e di piccoli omaggi dei suoi ammiratori. Ho incluso entrambe le gags televisive avanti ad Ellen Degeneres e ai Boston Pops. Ho trovato un tempo ciascuno di un trio di Beethoven e uno  di Mendelssohn per pianoforte, violino e violoncello, che dimostrano la capacita, la vocazione di Umi di comamdare e galvanizzare una squadra. E poi. Come tener fuori l’allodola (lark, Lerche, allouette) di Balakirev? La musica è così triste che Umi e la sua maestra, studiandola, l’hanno romanzata, immaginando che una allodola madre, che porta periodicamente il mangiare alla nidiata, quel giorno si sente male e non può alzarsi in volo. Allora l’allodoletta decide che si alzerà lei in volo, e porterà il mangiare a sua madre. E così la piccola allodola, avendo promesso di non allontanarsi molto, e di tornare presto, si getta dal nido e comincia a volare. In mezzo agli alti alberi della foresta, perde l’orientamento, poi si alza un vento violento…….Molti lettori hanno scritto di aver pianto calde lagrime, perché l’esecuzione di Umi sembrava raccontare proprio questa storia commovente. E come lasciar fuori l’improvviso-fantasia di Chopin, un tempo considerato la pietra di paragone del virtuosismo pianistico. Mi ricordo di aver visto un film americano in bianco e nero, in cui un pianista suonava quel brano, con la macchina da presa fissa sulle sue mani. Quel vorticare sovrannaturale ci faceva sembrare che quel pianista fosse il più grande pianista del mondo. A quel tempo i più rinomati pianisti di Hollywood erano Oscar Levant e Josè Iturbi. Miracolo……Era Josè Iturbi in un film del 1941! Mentre scrivevo queste righe, ero andato su YouTube per controllare l’ortografia di José Iturbi, ed il brano è saltato fuori quasi da sé. Certo che fa una certa impressione poter confrontare un divo del passato, che sembrava inarrivabile, con uno stuolo di bambine che gli girano intorno e gli passano avanti. E per chiudere, un brano di Debussy ed un preludio di Gershwin, ma prima di chiudere una suite francese di Bach che ci dà una possibilità veramente impensata: Umi è ancora un po’ piccola, e con i piedini non arriva ai pedali dello Stenway, ma contrariamente ad altre circostanze, non gli viene dato l’ausilio di qualunque congegno che gli alzasse i pedali. In pratica, Umi affronta Bach suonando deliberatamente un moderno piano da concerto senza i pedali: ma è egualmente capace di regolare la sonorità mediante il tocco. Comunque, parlando di queste bambine pianiste (il "prodigio" è sottinteso), emerge una sterminata quantità di questioni, tranne quella che taluno potrebbe ritenere fondamentale, e cioè la questione tecnica, che sembra proprio di importanza assolutamente trascurabile. Meglio occuparsi dell'abbigliamento: il corpino a nido d'ape e la gonna lunga a falpaleoni credo che ormai siano diventati oggetti di culto, e potrebbero essere lanciati tra le giovanette come i pigiamini di seta di Shirley Temple. Umi ha sviluppato anche una camminata particolare, che ha qualche attinenza con la tipica andatura di Groucho Marx: l'azione parte dall'inchino a doppio sprofondo cha la delizia oltre ogni misura.Tiene le braccine distese e serrate lungo il corpo, a limitarne le vibrazioni che la pervadono. Avanza a passettini calibrati, e ride, ride, ride come epicentro del tripudio generale. Una inveterata agiografia musicale rappresenta Mozart e Rossini come un'unica entità, che assume l'aspetto di Mozart quando Rossini è triste, mentre si scioglie nella risata di Rossini quando Mozart è allegro.


(Foto Google di dominio pubblico. Video: YouTube. Click per ingrandire)

sabato 21 maggio 2011

Veronesi: non mangiate la carne...è cancerogena!

Umberto Veronesi

Tempo fa, eravamo ancora nel mese di marzo, gli amici e conoscenti che mi incontravano si congratulavano cone me: “Bravo, anche Veronesi dice che la carne fa male”. Lì per lì la notizia non mi ha smosso, ma poi non ho resistito alla tentazione di andare a vedere che cosa aveva detto il celebre clinico, ma il risultato delle mie prime ricerche è stato piuttosto deludente, perché nel materiale che ho reperito su internet non era presente alcuna affermazione categorica che potesse determinare un cambiamento radicale e repentino delle cosiddette abitudini alimentari. Comunque, tanto per entrare in argomento, riporto quanto ho trovato su La Republica datata 2 marzo 2011, sotto il titolo: Veronesi: “Attenti all’alimentazione / innesca i tumori più del fumo”. Ed ecco l’articolo non firmato:

La prevenzione fa più delle medicine nella lotta contro il cancro. Ne è convinto Umberto Veronesi, direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano, intervenendo a un incontro del ciclo "Vivere in salute" promosso dall'università La Sapienza di Roma. Il primo luogo nel quale fare prevenzione, secondo Veronesi, è la tavola, perché l'alimentazione è responsabile del maggior numero di neoplasie nel mondo, superando anche il fumo. Numeri alla mano, l'oncologo ha spiegato che a innescare il tumore sono nel 35% dei casi le cattive abitudini alimentari; seguono il tabacco (30%), le infezioni virali (10%), i fattori riproduttivi (7%), l'attività lavorativa e l'inquinamento (4%). "Ciò di cui ci nutriamo - ha sottolineato Veronesi, parlando agli studenti - è un elemento fondamentale per la nostra vita. Alimentarsi vuol dire scegliere e questa scelta può essere importantissima per preservarci da diverse malattie, a partire dai tumori. Il 35% di questi - ha ribadito - è dovuto a ciò che mangiamo, che può agire indisturbato sui nostri organi". A sostegno della sua tesi, Veronesi ha mostrato ad esempio due slide che rappresentano la diffusione del tumore al colon nel pianeta e dalle quali emerge che questo tipo di neoplasia "è rarissimo nei Paesi dove non si mangia carne", al contrario di quelli in cui raramente la carne manca a tavola. Frutta e verdura, al contrario, sono alimenti "protettivi": "Più alto è il loro consumo - ha ricordato Veronesi - più diminuisce il rischio" di insorgenza di un tumore perché in essi è presente "un'armata di molecole antitumorali". Per proteggersi, dunque, l'oncologo ha indicato una serie di prodotti comuni quali "fragole, tè verde, aglio, verza, broccoli e pomodori" ed altri di importazione quali la curcuma, "presente ad esempio nel curry": "Nell'isola di Okinawa - ha detto Umberto Veronesi -, dove la curcuma viene consumata quotidianamente, c'è una presenza di ultracentenari che supera del 10-15% quella degli altri Paesi nel mondo". Alcuni cibi, ha aggiunto, formano una pericolosa "complicità" con il fumo: studi recenti avrebbero rilevato una correlazione tra il consumo di carne, fumo e tumore del polmone. Più in generale, Umberto Veronesi ha ribadito che la prevenzione è stata finora più efficace dei farmaci nell'evitare le morti per tumore. "Se le morti per tumore sono diminuite - ha detto - il merito va alla prevenzione, che ha avuto anche una grande importanza sull'incidenza e sulla curabilità; per questo, ha concluso, "adesso vogliamo puntare a identificare i fattori protettivi contenuti negli alimenti che aiutano a combattere il cancro".

Gioia Locati




Gioia Locati
Per una mia conformazione mentale, non riesco a capire come si fa ad inserire in una graduatoria un elemento indefinito come “le cattive abitudini alimentari”: quelle di mangiare avanti al televisore acceso, o con i gomiti sul tavolo, o tagliando il pesce col coltello…..? Comunque, dal contesto, si capisce che le cattive abitudini alimentari consistono nel mangiare la carne, ma la contromossa sarebbe quella di sostituire la carne con fragole, tè verde, aglio, verza, broccoli e pomodori e…curcuma? Un altro passo difficile a metabolizzare è il seguente: studi recenti avrebbero rilevato una correlazione tra il consumo di carne, fumo e tumore del polmone. È dunque questo tutto il frutto della recente ricerca? Ma per me il dato più interessante è questo: se le morti per tumore sono diminuite il merito va alla prevenzione. La frase è dichiarativa: le morti sono diminuite perché c’è stata la prevenzione. Ed io questa frase non la capisco, perché non ho trovato nessun sito su internet che confermasse la diminuzione delle morti per cancro. Anzi, sono capitato nel blog di Gioia Locati su Il Giornale, in particolare nell’articolo intitolato: “Tumore al seno: più colpite le donne friulane” (Gioia Locati è stata lei stessa colpita dal cancro al seno nel 2007):

La paura fa novanta, recita un vecchio detto napoletano. I numeri che ho qui sulla scrivania sono molto molto più alti ma usiamoli senza paura: magari per vincere la pigrizia e fare prevenzione. Eccoli, i numeri. Raccontano incidenza e mortalità del tumore al seno: 38.286 donne colpite nel 2010 (fonte: Centro nazionale di epidemiologia dei tumori). Guardando agli anni passati si vede il trend in crescita (l’anno prima erano 38.128) e via così, ogni anno si aggiungono centinaia di casi. In tutto il mondo è la prima causa di morte per le donne, si ha una diagnosi di tumore al seno ogni 23 secondi e una morte per questo cancro ogni 69 secondi. Le italiane che muoiono sono 11mila all’anno, mentre ogni 15 minuti si registra una nuova diagnosi in tutta la Penisola. Se guardiamo al numero di casi territorio per territorio troviamo in cima alla classifica la Lombardia (7.425 casi nel 2009), seguita dal Veneto (4.361), dal Lazio (4.273) e dal Piemonte (3.965). Queste sono infatti le regioni più numerose. Però il tasso grezzo, ossia quello che ci dice quante donne sono state colpite ogni 100mila abitanti, è più significativo (o perlomeno dovrebbe esserlo per gli studiosi). Il tasso grezzo ci racconta che il cancro alla mammella è più frequente in Friuli Venezia Giulia (215, 47 donne ogni centomila), poi in Emilia Romagna (200,62 su centomila), in Veneto (199,01), in Piemonte (195,59). Dove colpisce meno? In Puglia (85,58) e in Sicilia (103,80).

Il blog di Gioia Locati raccoglie molta corrispondenza, e tra le lettere pubblicate in quel numero, c’è quella datata 19 maggio 2011 del dottor Sergio Stagnaro, clinico di chiara fama internazionale, che scrive in inglese:

Il dottor Stagnaro



Sirs, in spite of editorials and articles published in an awful number of famous peer-reviews, it is generally admitted that Cancer is today’s growing EPIDEMICS! As a consequence, the present war against cancer is an expensive flop….(Signori, nonostante gli editoriali e gli articoli pubblicati in un enorme numero di famose riviste del settore, si ammette generalmente che il Cancro è attualmente un’EPIDEMIA in crescita! Quindi la presente guerra contro il cancro è un costoso fiasco…


Mentre la lettrice Carla, in data 18 maggio 2011, fa questa osservazione:

Ho l’impressione che in Friuli- Venezia Giulia le donne siano più solite bere alcolici rispetto ad altre regioni…non potrebbe questo far aumentare il rischio?......

Ebbene, cara Gioia, mi lasci rispondere a colpo sicuro a questa sua lettrice: le donne del Friuli-Venezia Giulia sono più colpite dal cancro al seno perché bevono più….latte! Non ci pensavate, vero? Ma se non ci credete, andate sul seguente sito: http://www.centopercentoanimalisti.com/phpBB2/-vp456916.html. Però ci tengo a dire che io la mia diagnosi l’ho emessa di getto, e solo in un secondo momento ho reperito questo sito anti-lattiero-caseario

Daria Bignardi
Se però ho mantenuto il titolo iniziale è perché alla fine ho trovato un articolo, vecchio di qualche anno, in cui l’illustre clinico esce dal suo abituale possibilismo e si sbilancia ad emettere un monito deciso ed incontrovertibile. Ma andiamo per ordine: il sito è “Al femminile. com”, ed il messaggio che ha originato la discussione è: "Intervista su La 7, Umberto Veronesi: la carne fa venire il cancro. Finalmente si infrange il muro del tabù secondo il quale in TV, e non solo, è impossibile dire la verità sui danni che il consumo di carne provoca alla salute e controbattere a tutti i luoghi comuni con cui un vegetariano deve continuamente confrontarsi...e si sa, la gente crede solo alla TV. Ci voleva Umberto Veronesi, oncologo di fama mondiale, da anni fra i principali candidati al Nobel per la ricerca contro il cancro, per poter rompere il silenzio dell'omertà televisiva che protegge gli interessi di sponsor e asseconda il pubblico nei suoi vizi. Una volta, nella trasmissione di Fabio Fazio "Che tempo che fa" in cui Umberto Veronesi era ospite, non appena si accennò al fatto che egli fosse vegetariano, Fazio lasciò cadere il discorso dicendo "non parliamo di queste cose che in tv sono tremendamente impopolari". Stavolta Veronesi è riuscito a dirla tutta! Pareva un miracolo e non credevo alle mie orecchie".

Daria Bignardi

A "Le invasione barbariche", Daria Bignardi chiede come si possa arrivare all' età di 81 anni (ora sono diventati 86) così in salute e Veronesi risponde : "facendo una vita sana, seguendo una dieta sana".
La Bignardi prosegue "Lei è vegetariano? da quanto non mangia carne?" E Veronesi :"Ah non ricordo, decenni e decenni". E lei: e come mai? Veronesi: “Per motivi etici, rispetto gli animali". Ma scusi, noi non siamo fatti per mangiare carne? Al che Veronesi con un sorriso di chi si è già sentito dire questa cosa milioni di volte (ahimé posso capirlo), con la tranquillità di chi ha le carte per parlare spiega che la nostra anatomia e il nostro dna dicono che l'uomo è frugivoro ed erbivoro, che il nostro dna è quello delle scimmie frugivore, quasi coincidente con quello dello schimpanzé. I nostri alimenti sono frutta, vegetali, radici. “Quante volte noi vegetariani dobbiamo dire questa cosa per poi ricevere solo battute e spesso insulti? O semplicemente ci rispondono con menzogne del tipo "La carne è indispensabile, mio cugino era vegetariano ma è finito all'ospedale perché era anemico"...ma guarda un po’, sono solo i mangiatori di carne ad avere il cugino anemico. Non sanno neanche che l'anemia non ha niente a che fare con la carne, di ferro ce n'è a valanghe nei legumi e in molti altri vegetali”. Ma forse un possibile premio Nobel lo ascolteranno. O anche a lui diranno che è un povero limitato di mente come sono venuti a dirci su questo sito e come hanno continuato a dire di noi su altri siti per convincersi a vicenda di essere nel giusto. Nel prosieguo dell'intervista si arriva al punto cruciale: come si previene il cancro? Veronesi risponde : " Evitando i fattori cancerogeni, soprattutto nella dieta: mangiare poco, evitare i grassi animali, NON MANGIARE CARNE..... che fra l'altro è CANCEROGENA!" Finalmente qualcuno è riuscito a dirlo senza essere censurato, dopo anni che bisogna sorbirci nutrizionisti da 4 soldi col ventre pingue e le guance rossicce che si assicurano la presenza televisiva nelle trasmissioni domenicali, andando a dire che bisogna mangiare carne! Alleluiiiaaa..silenzio in sala, una folla attonita in funereo silenzio, già si preoccupa di come potrà ancora gustarsi la bistecchina dopo che l'uomo cattivo gli dice la verità e di come affrontare l'amico vegetariano tante volte accusato di dire fandonie per non si sa quali interessi che non siano la salute e la protezione degli esseri più deboli. Alla fine dell'intervista la Bignardi tenta una provocazione: "Se Prodi offrisse al suo Istituto tutti i soldi che lei vuole, ma in cambio lei dovesse mangiare mortadella tutti i giorni, accetterebbe? Umberto Veronesi risponde sicuro: “No, mai. Non è una cosa che si può cambiare. RISPETTO TROPPO GLI ANIMALI".....Vaglielo a spiegare alla gente che la coscienza non conosce compromessi”.

Peggio del cancro
Rivolgo innanzitutto un elogio a Daria Bignardi che, con mirabile arte femminile, ha portato Veronesi a dichiarare esplicitamente il pericolo mortale che risiede nel consumo della carne. L’uomo, non avendo né zanne, né artigli, all’epoca della sua costituzione su questo pianeta, non era assolutamente in grado di affrontare nessuna lottta contro gli altri animali, e non era capace di sventrare e dilaniare neanche le più miti pecorelle.

...le più miti pecorelle

E pertanto la sua vita iniziale fu quella di un abitatore degli alberi, a rodere frutta e noci (questo è il significato dell’attributo “frugivoro”, cioè mangiatore di frutta). Occasionalmente avrà mangiato germogli e radici (come le carote). Ma non era erbivoro, e qui mi tocca correggere la signora Bignardi (o addirittura il dottor Veronesi?). Per mangiare l’erba dei prati e dei pascoli, e digerirla, è necessario il triplice stomaco dei ruminanti, mentre lo stomaco dell’uomo non riesce a decomporre la cellulosa. Quindi, non potendo ruminare per i prati, non necessitando quindi di compiere grosse distanze giornaliere, l’uomo abitava sugli alberi. Ma quando scoprì il fuoco ed inventò l’arte della cottura, l’uomo divenne il re del pianeta perché, per la sua alimentazione, gli si spalancava lo sterninato mondo dei cereali (grano, riso, avena, orzo…), delle leguminose (fagioli, ceci, lenticchie….) e di certe euforbiacee come la cassava (o manioca), una radice che, in Africa ed in Asia costituisce il nutrimento principale di molte popolazioni, e che va cotta per eliminare l’acido prussico. Naturalmente il fuoco è servito anche per cuocere la carne degli animali, cacciati o allevati, e da questo momento in poi possiamo dire che l’uomo, da strettamente vegetariano, è diventato omnivoro? Ma certo che possiamo dirlo, anzi ce lo insegnano anche a scuola, ma non è vero. E qui dobbiamo tirar fuori qualche elemento di anatomia, cui il dottor Veronesi ha sibillinamente accennato, senza sbilanciarsi troppo: la lunghezza del tratto digerente. Negli animali carnivori il condotto digestivo è lungo tre volte il tronco, mentre nell’uomo questo rapporto è pari a dodici volte. Proporzionalmente si può dire che l’apparato dell’uomo è quattro volte maggiore di quello dei carnivori. Questo significa che, nel corpo umano, la carne impudridisce (essendo costituita da materia morta) prima dell’assimilazione. Il premio Nobel Metchnicoff disse: “È la putrefazione alimentare la responsabile delle morti premature, che è causa di tutte le malattie, perché questi veleni, altamente pericolosi, passano dal canale alimentare nella linfa e nel sangue, e da questi sono condotti in tutte le parti del corpo: il fegato, i polmoni, i reni, il cuore e il cervello”. Nonostante indubbi fenomeni di malleabilità epigenetica, nei milioni di anni della sua evoluzione l’uomo non ha cambiato la sua natura di animale frugivoro e non ha mai assunto quella di animale carnivoro. L’allevamento degli animali da macello è diventato il fattore predominante che minaccia la vita del nostro pianeta, sia dal punto di vista dell’inquinamento, sia sotto il profilo della sottrazione di risorse alimentari, che determinano il fenomeno della fame nel mondo. E sotto l’influsso di una digestione irregolare, disarmonica, sfasata ed avvelenata l’uomo ha perso il piacere della vita ed è diventato il peggior nemico di se stesso. (Va a questo sito per saperne di più http://www.famigliamoderna.com/2011/01/i-fondamenti-della-nutrizione-umana-2a.html)

( Foto Google di pubblico dominio. Click per ingrandire)

mercoledì 18 maggio 2011

Gli enigmi di Walt Disney: 1a parte (con 10 cartoons)




Mickey Mouse








Il libro di Marc Eliot (1993)




In casa Disney i misteri sono di…casa. Già la data di nascita del papà di Mickey Mouse è assai incerta: è il 5 dicembre 1901, come è riportato nelle sue biografie? O forse l’8 gennaio dell’anno successivo, o di dieci anni prima? Ogni volta che fu richiesto un certificato di nascita, non si è mai trovato, e si sono dovute fare valutazioni, ipotesi, aggiustamenti e testimonianze, in base alle quali la data di nascita potrebbe essere addirittura anteriore di 10 anni. Il che è semplicemtente assurdo, perché si può confondere se un anziano signore ha 60 o 70 anni, ma un bambino può avere 3 o 13 anni? Tuttavia, nel 1940, un paio di agenti dell’FBI, fecero indagini molto approfondite, che li portarono al villaggio spagnolo di Mojacar da cui, in una certa data, la Señora Zamora partì per l’America, ove avrebbe avuto una relazione con Elias Disney (papà di Walt), e avrebbe avuto…Walt. Che anche in questo caso sarebbe di dieci anni più vecchio di quanto riportato nelle biografie. Il mistero sulla data di nascita di Walt Disney, che lo ha angustiato per tutta la durata della sua vita, è destinato a rimanere tale, perché sono totalmente scomparsi tutti coloro che avrebbero potuto fornire qualche testimonianza. Differente è il caso di tutti gli altri quesiti, che sono: la data di nascita di Mickey Mouse, cioè la data della sua prima proiezione pubblica in un cinematografo, e l’identità del suo paterno genitore, ciooè di chi, per primo, ha disegnato il personaggio (ma come, non l’ha creato Walt Disney?). Inoltre, come quesito accessorio, si pone l’interrogativo: Mickey Mouse non aveva per caso un fratello maggiore? Se poi si tien conto del fatto che la carriera di Mickey Mouse si è divisa in due, di cui una è trascorsa sullo schermo dei cinema, l’altra sulle pagine dei giornaletti, e se si va ad esaminarli con attenzione si vede che i due personaggi si somigliano assai, ma non sembrano la stessa persona, ci si può domandare se Mickey Mouse, oltre ad un fratello maggiore, non avesse avuto anche un fratello gemello. Cerchiamo di dar risposta a ciascuno di questi quesiti, attingendo a piene mani alla nostra biografia di riferimento, quella di Marc Eliot del 1993, l’unica che questi argomenti li ha trattati a fondo.



Il certificato introvabile
A tal uopo è necessario risalire molto indietro nella vita di Walt Disney, per focalizzare i dettagli del suo passaggio dalla fanciullezza vissuta all’ombra, e sotto le cinghiate, di un padre autoritario, assolutista e violento, ai primi tentativi di volare da solo per crearsi una vita indipendente. Siamo a Kansas City nell’autunno del 1917. Il padre, che da qualche anno gestiva un’organizzazione di distribuzione della stampa quotidiana, trova a vendere la sua attività per 16.000$, e decide di trasferirsi a Chicago per impiantare una fabbrica di marmellate.






Mickey e Minnie Mouse
Walt ha 16 anni, si stacca con riluttanza da Kansas City e segue la famiglia a Chicago, ove si iscrive alla McKinley High School per il diploma di scuola media inferiore. E si iscrive inoltre ai corsi serali della Chicago Accademy of Fine Arts (Accademia di Belle Arti). Per pagarsi questa spesa extra, va a lavorare saltuariamente nella fabbrca di marmellate di famiglia. Manda i suoi disegni a giornali ed agenzie, senza successo. La sera va a visitare locali di varietà e spogliarello, per carpire freddure e movenze degli artisti, da inserire nei suoi cartoons. Una volta ci porta anche il padre, che rimane scandalizzato e lo invita a non sprecare così il denaro. In quell’anno 1917 l’America entrava nella 1a Guerra Mondiale, detta la Grande Guerra, ed il fratello Roy, di ventiquattr’anni, corse subito ad arruolarsi, eccitato dall’idea di andare a combattere in terre lontane. A luglio Roy, che è il minore dei tre fratelli maggiori di Walt (dopo Walt c’è una bambina) viene spedito alla Great Lakes Naval Station (Scuola Navale dei Grandi Laghi) per un corso di addestramento, situata a breve distanza da Chicago. E così, Walt, terminato anche quell’anno scolastico, fa le valigie e va a trovare il fratello. Il sedicenne Walt ha sempre ascoltato i racconti di Roy, affascinato un po’ dalla sua saggezza e dalla sua esperienza, ma maggiormente da quel suo modo di presentargli il mondo, la società e le vicende sempre come uno spettacolo scintillante. Questa volta Roy lo travolge con le storie di guerra, ascoltate per bocca dei reduci che si avvicendavano nel suo accampamento, e che lui riciclava ad uso del fratello minore. Ed infatti Walt, rosolato al punto giusto, appena tornato a Chicago si reca all’ufficio di reclutamento, dichiarando un’età maggiore, senza, però, convincere la commissione. L’ufficiale reclutatore gli chiede di presentare un certificato di nascita, e Walt scrive immeidiatamente alla Cook County Hall of Records di Chicago (l’Anagrafe) chiedendo una copia del suo certificato di nascita. Una settimana dopo l’Anagrafe risponde di non essere in possesso di alcun certificato di nascita di tale Walt Disney nato il, o attorno al, 5 dicembre 1901. Allora Walt scrisse a Preacher Parr, cioè al Predicatore Walter Parr, sacerdote della Chiesa Fondamentalista di Saint Paul di Chicago, per il quale suo padre aveva lavorato come carpentiere tanti anni prima, e col quale aveva raggiunto un alto grado di amicizia, al punto di promettere al sant’uomo che, se avesse avuto la benedizione di un quarto figlio maschio, gli avrebbe dato il suo nome, cioè Walter. Da qualche parte doveva esserci, in chiesa, un documento relativo alla sua nascita. Preacher Parr rispose che, come lui stesso ricordava, Walt era nato in casa e quindi la sua nascita non era registrata né in chiesa, né in qualche ospedale. Walt allora scrisse al Departement of Vital Statistic, cioè all’ufficio che registrava ogni nascita ed ogni decesso, il cui responso fu, quantomeno, allucinante: Sì, Walter Dysney era nato da Elis (invece che Elias) e da Flora Disney il giorno 8 gennaio 1891!!!!!!!!!!!!. In base a questo verdetto Walt doveva avere 26 anni, ed essere più vecchio di suo fratello Roy. Il che era impossibile, e da questo momento Walt Disney entrò nell’incubo che l’accompagnò per tutto il resto della vita: era veramente figlio di Elias Disney, o piuttosto un figlio adottivo? La violenza che il padre usava contro di lui già da piccolo gli aveva fatto pensare: è costui veramente mio padre?






Roy, l'angelo custode di Walt Disney
Walt Disney soldato
Comunque Walt in guerra voleva andarci, e, in ogni caso, sentiva il bisogno di andarsene via, non avendo più fiducia nei suoi genitori. Ai quali chiese di scrivere una lettera di assenso che gli avrebbe permesso di arruolarsi. La madre Flora lo scongiurò di recedere, perché, avendo già due figli alle armi (Raymond e Roy), non poteva sopportare che anche il terzo andasse in guerra. Anche Elias era contrario alle intenzioni di Walt: non avrebbe mandato un altro figlio a sfidare la morte in una guerra scatenata dalla cospirazione capitalistia mondiale capeggiata dagli ebrei. Nell’impossibilità di convincere almeno uno dei suoi genitori, Walt falsificò le loro firme e fu arruolato come volontario nella Croce Rossa Internazionale. Il suo primo compito fu quello di andare a lavorare nella Yellow Cab Company di Chicago, la famosa Compagnia dei Tassì Gialli. Gli era stato ordinato di imparare a guidare professionalmente, in modo da poter operare con le autoambulanze. Ma, durante la sua prima settimana di mobilitazione, rimase vittima della grande epidemia d’influenza del 1918, e fu rispedito in barella nella casa dei suoi genitori. Per cortesia, a bordo di un furgone della Croce Rossa. Quando si fu rimesso, fu riassegnato a South Beach nel Connecticut, ed il giorno dopo il suo arrivo alla base, fu firmato l’armistizio. Assieme a cinquanta uomini della sua unità, fu spedito immediatamente in Francia per prendersi cura dei soldati americani feriti o malati. Walt festeggiò il suo diciottesimo compleanno a Saint Cyr, in un castello provvisoriamente convertito ad ospedale militare. A dispetto dei suoi sogni di gloria, il periodo che seguì fu abbastanza noioso. Per lunghe settimane dovette fare da autista agli ufficiali, e dovette scarrozzare colonnelli e generali per ogni dove in tutta la Francia. E persino oltre il Reno, in territorio tedesco occupato dagli Alleati, per rifornire di zucchero e caffè gli ospedali militari. Per vincere la noia, cominciò a dipingere sulle fiancate delle Jeep della Croce Rossa la caricatura dei suoi camerati volontari. Continuava a disegnare i suoi cartoons, che inviava a varie riviste negli Stati Uniti, che glieli respinsero tutti. Infine attrasse l’attenzione di un soldato assai ricco di iniziative e noto col soprannome di Cracker. Costui acquistò un surplus di elmetti tedeschi, sui quali sparava per arricchirli di forellini. Poi li passava a Walt che, per dieci franchi l’uno, li ornava di insegne e di macchie di sangue. Successivamente questi elmetti venivano venduti, ai camerati un po’ creduloni, come veri cimeli di vere sanguinose battaglie. E quando Walt fu congedato, aveva in tasca 300$ in sovrappiù, cifra che non aveva mai visto prima di allora.



Ub Iwerks


L’incontro che cambiò la storia
Ottenuto il congedo, Walt fu imbarcato su un piroscafo e rispedito a New York dove si installò in un albergo di media categoria, si fece una bella doccia calda, di cui sentiva la mancanza da diverse settimane, e si precipitò a vedere l’ultimo film di Charlie Chaplin. Dopodiché, cenato in un ristorante in gran voga, concluse la giornata ubriacandosi ed ascoltando il jazz nei locali del Greenwich Village. La mattina dopo prese il treno per Chicago, dove Elias e Flora lo attendevano alla stazione. I quali rimasero sbigottiti nel vedere questo bel giovanotto, robusto ed alto 1,80, poco somigliante all’incerto ragazzetto che era fuggito dalla dimora familiare un anno fa. A sera il padre s’intrattenne affabilmente col figlio e cominciò a costruire castelli in aria, prospettando azzurri orizzonti per Walt quando si fosse integrato nell’azienda familiare. Ma, con suo stupore, Walt educatamente, ma fermamente, declinò tutti le proposte e le prospettive di papà: aveva i suoi progetti ben definiti, ed intendeva ritornare a Kansas City per intraprendere la carriera di “commercial artist”. Oggi diremmo: un “creativo” nel settore pubblicitario. Il mattino successivo abbandonò per l’ultima volta la sua famiglia, per tornare sui luoghi della sua gioventù perduta. E quando giunse a Kansas City, in quella che era stata l’antica abitazione della sua famiglia, in cui ancora vivevano i suoi fratelli Herbert e Roy, la sua prima preoccupazione fu quella di inviare una domanda d’impiego come illustratore (“cartoonist”) al Kansas City Star, il giornale che, da piccolo, andava a distribuire casa per casa. E fu con suo grande disappunto che la sua domanda fu respinta. Cadde in una depressione che durò diversi giorni, finché Roy, che lavorava in banca, non lo informò che la ditta Pressman-Rubin Studios cercava artisti da ingaggiare. La Pressman-Rubin era la nuova agenzia pubblicitaria che aveva appena aperto un conto bancario di cui Roy era il curatore, e che l’informazione gli era stata passata proprio da uno dei presidenti. Il giorno dopo Walt si presentò alla Pressman-Rubin con un fascio di suoi schizzi ed illustrazioni, e rimase sorpreso e deliziato dal fatto che fu immediatamente assunto. Il suo primo compito fu quello abbastanza facile, per lui, di disegnare attrezzature agricole, come trattori, pulegge, ascensori per silos &c... per illustrare l’imminente Catalogo di Natale e per essere proiettate al cinema. Tale idilliaco posto di lavoro durò soltanto un mese, al termine del quale fu licenziato con la seguente motivazione: “singolare mancanza di abilità nel disegno” (singular lack of drawing abillity).






Walt Diseny e Ub Iwerks: chi è il padre di Mickey Mouse?
Il fratello Roy sostenne che quel posto la ditta glielo aveva assegnato per far un piacere alla sua banca. Impossibilitato a trovare un altro impiego come artista, Walt accettò un lavoro alle Poste per il periodo natalizio. Un lavoro da cani: ritorno a casa di notte, facendosi strada in mezzo la neve, i pasti saltati. Ed arrivato a casa, chiudersi in stanza fino al mattino successivo. Una sera, una settimana prima del capodanno 1920, un giovanotto alto e dall’aspetto perbene bussò alla porta dei fratelli Disney, domandando se lì aabitava il suo amico Walt Disney. Roy lo fece accomodare e gli offrì il caffè, e dopo alcuni convenevoli andò a svegliare Walt: C’è un tuo amico, si chiama Ub Iwerks. Come? Chi lo conosce! Beh, andiamo a vedere……Naturalmente gli appassionati di comics Ub Iwerks lo conoscono benissimo. Noi invece lo conosceremo a fondo nella prossima puntata.







(Film: YouTube, foto: Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)

lunedì 16 maggio 2011

Valentina Lisitsa: "Moonlight Sonata" (Al Chiaro di Luna)

Valentina Lisitsa

Può darsi che non tutti i lettori conoscano, di nome, la sonata di Beethoven n. 14, op. 27 nr. 2, in do diesis minore, dall’autore denominata : “Quasi una Fantasia”, ma tutti, di fatto, conoscono almeno il primo tempo, l’adagio sostenuto, della sonata : “Al Chiaro di Luna”. In effetti Beethoven non ha mai composto una sonata avente questo nome, ma fu alcuni anni dopo la sua morte che il critico musicale, poeta e scrittore Ludwig Rellstab gli attribuì questo titolo che la rese famosa: “Mondscheinsonate”, ovvero Sonata al Chiaro di Luna perché, prendendo il primo movimento come una barcarola, questo gli suggeriva il ricordo di una gita in battello, possibilmente notturna, sul Vierwaldstättersee. Cioè sul Lago dei Quattro Cantoni, di cui la località rivierasca più nota è la città di Lucerna, la perla della Svizzera interna. La sonata piaceva assai, il suo nuovo titolo piacque alla follia, ed in tutto il mondo il brano divenne noto col nome di Moonlight, Au Clair de Lune, al Claro de Luna…Questa sonata è leggermente atipica, perché manca di un primo tempo tradizionalmente svelto (in genere allegro), sostituito dall’adagio sostenuto, che tutti conoscono, dolente, meditativo e lamentoso. Nei movimenti successivi la sonata prende l’aire ed acquista velocità: il secondo tempo è un allegretto in re bemolle che sembra un minuetto. Quanto al terzo tempo, esso è un presto agitato che, nelle mani di Valentina Lisitsa, diventa un vero e proprio tempestoso. Rendendosi conto di queste anomalie rispetto alla schema tradizionale, Beethoven questa sonata la denominò, come abbiamo visto: Quasi una Fantasia, ed adesso sappiamo perché. D’altr’onde, è proprio questa libertà stilistica che portò Beethoven a svincolarsi dal formalismo haydn-mozartiano e sfociare nel travolgente romanticismo tedesco. Se poi la gita notturna in battello del poeta Ludwig Rellstab si fosse conclusa, come la sonata, con una tempesta tipo quella del Guglielmo Tell di Rossini, allora le analogie sarebbero state…..

Ludwig van Beethoven


Benché più volte mi sia vantato di provenire da una famiglia di pianisti (nonne, mamme, zie e zii, sorelle), il “Chiaro di Luna” non l’ho mai sentito durante il periodo di allattamento, né negli immediati anni della puerizia, ma solo quando, undicenne, frequentavo la spiaggia di Fregene. Per un caso veramente più unico che raro, tutti i fanciullini che conobbi erano del 1929, e quindi fu del tutto istintivo associarci in una banda, di cui faceva parte anche Loris, uno che aveva qualche anno più di noi, e che precorreva d’una ventina d’anni il personaggio televisivo di Fonzie. In effetti Loris era un personaggio singolare: aveva una bicicletta da corsa, con un manubrio da corsa, i tubolari da corsa ed un cambio che gli assicurava una netta superiorità su strada su tutti noi. Anche sul mare aveva una netta superiorità su tutti noi che, per imitare il bagnino che aveva partecipato alla trasvolata dei “Sorci Verdi”, remavamo alla veneta su pesanti mosconi (che chiamavamo pattìni), mentre lui sfrecciava come un MAS a bordo del suo sandolino stretto e lungo, su cui remigava con una pagaia a due pale. Altra sua caratteristica che lo differenziava da noi era il fatto che era sempre circondato da uno stuolo di ragazze grandi (che erano prevalentemente, ma non tutte, sue sorelle). Inutile aggiungere che batteva un crawl perfetto. Nel complesso, rispetto a noi, era spavaldo, irriverente e strafottente, per cui i nostri genitori lo consideravano una cattiva compagnia. E noi eravamo d’accordo.
Un giorno fummo invitati tutti a casa di Liana, un’altra del 1929, figlia del tenore Tito Schipa (che a quel tempo era chiacchierato per via di una relazione con la regale attrice cinematografica Caterina Boratto). Per la proverbiale megalomania di Tito Schipa, la sua villa era la più grande e fastosa di tutte, benché a quel tempo Fregene, che era una proprietà privata della Banca d’Italia, pullulasse di famiglie dell’alta nobiltà, di imprenditori di successo, di ingegneri e architetti, pittori e scrittori, e di gerarchi del Fascio. Per tutto il periodo di splendore di Fregene, una cittadina fatta di ville nascoste nella pineta, Tito Schipa non si fece mai vedere, per cui Liana, sua figlia prediletta, era la padroncina di casa. La quale casa consisteva in una grande edificio di più piani, con gli alloggi per i padroni e la servitù, ampi saloni, corridoi, quadri, statue, specchi e mobili di lusso.

Contessina Giulietta Guicciardi


Poi c’era un altro edificio, un teatro munito di palcoscenico e poltroncine, pianoforte a coda e locali vari. In questo secondo edificio ci trovavamo noi, per la prima volta invitati in quella villa: chi giocava nel parco, chi esplorava i vari locali del teatro, e chi…suonava lo Steinway: sì, ad un certo momento sentimmo le note dell’adagio del “Chiaro di Luna” e tutti fummo colpiti dalla maestosa bellezza della melodia, diversa dagli arrangiamenti del maestro Semprini sulle canzoni di Alberto Rabagliati, che tutti noi strimpellavamo per essere alla moda, in quei tempi. Corremmo per scoprire chi fosse l'ignoto pianista, e vedemmo Loris seduto al piano, come rapito e trasfigurato, col capo chino quasi a sfiorare la tastiera. Rimanemmo ammutoliti e restammo in religioso silenzio fino alla fine del brano, e quando ciò avvenne, lo applaudimmo con sincero entusiasmo. Io mi lanciai su di lui, e volli sapere nome e cognome del brano. Tornato a casa, mi precipitai sui tre volumi delle sonate di Beethoven, edizione Ricordi con annotazioni di Alfredo Casella, e, trovata la sonata, cominciai subito a cercare di capirci qualche cosa. Rimasi però perplesso nel leggere, subito all’inizio, questo monito beethoveniano: “Si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordini” e, una riga sotto: “sempre pianissimo e senza sordini”. Sembrava una contraddizione in termini, perché il vecchio Petrov verticale di famiglia aveva due pedali: quello del piano e quello del forte. Quello del piano “metteva la sordina” e smorzava il suono, mentre quello del forte “levava i sordini” ed amplificava il suono. C’era una sottile differenza tra la sordina ed i sordini, per cui “senza sordini”, in definitiva, significava mettere il pedale del forte. Ma come si conciliava il fatto di suonare “sempre pianissimo” tenendo il piede sempre pigiato su pedale del forte? Ebbene, la contraddizione non è apparente e dovuta alla mia inesperienza, ma è reale e messa in bella evidenza da numerosi musicologi! I quali l’attribuivano alla differenza dei pianoforti d’allora rispetto a quelli d’oggidì.
Il frontespizio della sonata con le note dell'autore (in italiano)

Lì per lì mi sono rammaricato che, nelle due esecuzioni di Valentina Lisitsa che ho incluso in questo articolo, non vi era nessuna inquadratura della figura intera, che permettesse di verificare se la Lisitsa tenesse il piede fisso sul pedale del forte (come prescriveva Beethoven), o se lo alzava e abbassava come credeva opportuno. Ma fortunatamente, nell’esecuzione effettuata in dicembre 2009 nella Beethovensaal di Hannover, ogni tanto l’inquadratura cade sul telaio delle corde, e si vede chiaramente la meccanica dei feltrini che si alza e s’abbassa in sincronia con l’uso del pedale, Vi dico subito che questa esecuzione si distingue perché qui Valentina Lisitsa indossa una giacca nera e si vedono i polsini bianchi della camicetta, mentre nell’altra esecuzione la Lisitsa indossa una maglietta nera. Ebbene, da quello che ho capito, andando a vedere le esecuzioni di vari pianisti, costoro sistematicamente ignorano la prescrizione di suonare “senza sordini”, e rendono il “delicatissimamente” ed il “sempre pianissimo” lavorando sui pedali secondo la loro maniera. Fa eccezione Andras Schiff il quale introduce una riforma del metronomo, applicando il tempo “adagio sostenuto” non all’intera battuta ma a metà di essa, in pratica raddoppiando la velocità d’esecuzione. Ed applicando fedelmente e rigidamente la condizione “senza sordini”, tenendo premuto il pedale del forte per tutta la durata del primo movimento. Ho inserito anche l’esecuzione dell’adagio di Andras Schiff in cui manca la ripresa televisiva, ma si sente benissimo ad orecchio il ritmo accelerato e la risonanza dovuta al pedale del forte. Quanto alla Lisitsa, si conferma come il punto di riferimento fisso del pianismo attuale. L’adagio sostenuto lo suona con le mani ferme sulla tastiera, contraddicendomi laddove dissi che le sue dita sembrano non toccare la tastiera, mentre la Kobayashi sembra non staccarsene mai. Questa volta è la Lisitsa a rimanere incollata ai tasti, producendo un legato di nome e di fatto. Il secondo movimento fa da intermezzo tra i due movimenti estremi senza prendere parte alle loro vicende, rendendo ancor più sorprendente la violenza implacabile del presto agitato:

che mugghia come fa mar per tempesta
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal che mai non resta
.........
Sì. Quello che maggiormente mi ha sempre colpito, nella Lisitsa, è quella mano sinistra che sostiene le sue esecuzioni con la devastante grandezza di un sisma. Ed un sisma doveva abbattersi nel cuore di Beethoven, che dedicò questa sonata alla contessina Giulietta Guicciardi, sua allieva diciassettenne, di cui, si dice, giunse a chiedere la mano.


Per evitare inceppamenti tenere la risoluzione non al disopra di 480 pixel.

(Foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)

mercoledì 11 maggio 2011

Mickey Mouse: altri 10 cartoons (e gli enigmi di papà Disney: 1a parte)


Mickey Mouse disegnato da....?


Il libro di Marc Eliot



In casa Disney i misteri sono di…casa. Già la data di nascita del papà di Mickey Mouse è assai incerta: è il 5 dicembre 1901, come è riportato nelle sue biografie? O forse l’8 gennaio dell’anno successivo, o di dieci anni prima? Ogni volta che fu richiesto un certificato di nascita, non si è mai trovato, e si sono dovute fare valutazioni, ipotesi, aggiustamenti e testimonianze, in base alle quali la data di nascita potrebbe essere addirittura anteriore di 10 anni. Il che è semplicemtente assurdo, perché ci si può confondere se un anziano signore ha 60 o 70 anni, ma un bambino può avere 3 o 13 anni? Tuttavia, nel 1940, un paio di agenti dell’FBI, fecero indagini molto approfondite, che li portarono al villaggio spagnolo di Mojacar da cui, in una certa data, la Señora Zamora partì per l’America, ove avrebbe avuto una relazione con Elias Disney (papà di Walt), e avrebbe avuto…Walt. Che anche in questo caso sarebbe di dieci anni più vecchio di quanto riportato nelle biografie. Il mistero sulla data di nascita di Walt Disney, che lo ha angustiato per tutta la durata della sua vita, è destinato a rimanere tale, perché sono totalmente scomparsi tutti coloro che avrebbero potuto fornire qualche testimonianza. Differente è il caso di tutti gli altri quesiti, che sono: la data di nascita di Mickey Mouse, cioè la data della sua prima proiezione pubblica in un cinematografo, e l’identità del suo paterno genitore, ciooè di chi, per primo, ha disegnato il personaggio (ma come, non, l’ha creato Walt Disney?). Inoltre, come quesito accessorio, si pone l’interrogativo: Mickey Mouse non aveva per caso un fratello maggiore? Se poi si tien conto del fatto che la carriera di Mickey Mouse si è divisa in due, di cui una è trascorsa sullo schermo dei cinema, l’altra sulle pagine dei giornaletti, e se si va ad esaminarli con attenzione si vede che i due personaggi si somigliano assai, ma non sembrano la stessa persona, ci si può domandare se Mickey Mouse, oltre ad un fratello maggiore, non avesse avuto anche un fratello gemello. Cerchiamo di dar risposta a ciascuno di questi quesiti, attingendo a piene mani alla nostra biografia di riferimento, quella di Marc Eliot del 1993, l’unica che questi argomenti li ha trattati a fondo.

Il certificato introvabile
A tal uopo è necessario risalire molto indietro nella vita di Walt Disney, per focalizzare i dettagli del suo passaggio dalla fanciullezza vissuta all’ombra, e sotto le cinghiate, di un padre autoritario, assolutista e violento, ai primi tentativi di volare da solo per crearsi una vita indipendente. Siamo a Kansas City nell’autunno del 1917. Il padre, che da qualche anno gestiva un’organizzazione di distribuzione della stampa quotidiana, trova a vendere la sua attività per 16.000$, e decide di trasferirsi a Chicago per impiantare una fabbrica di marmellate.

Mickey e Minnie Mouse

Walt ha 16 anni, si stacca con riluttanza da Kansas City e segue la famiglia a Chicago, ove si iscrive alla McKinley High School per il diploma di scuola media inferiore. E si iscrive inoltre ai corsi serali della Chicago Accademy of Fine Arts (Accademia di Belle Arti). Per pagarsi questa spesa extra, va a lavorare saltuariamente nella fabbrica di marmellate di famiglia. Manda i suoi disegni a giornali ed agenzie, senza successo. La sera va a visitare locali di varietà e spogliarello, per carpire freddure e movenze degli artisti, da inserire nei suoi cartoons. Una volta ci porta anche il padre, che rimane scandalizzato e lo invita a non sprecare così il denaro. In quell’anno 1917 l’America entrava nella 1a Guerra Mondiale, detta la Grande Guerra, ed il fratello Roy, di ventiquattr’anni, corse subito ad arruolarsi, eccitato dall’idea di andare a combattere in terre lontane. A luglio Roy, che è il minore dei tre fratelli maggiori di Walt (dopo Walt c’è una bambina) viene spedito alla Great Lakes Naval Station (Scuola Navale dei Grandi Laghi) per un corso di addestramento, situata a breve distanza da Chicago. E così, Walt, terminato anche quell’anno scolastico, fa le valigie e va a trovare il fratello. Il sedicenne Walt ha sempre ascoltato i racconti di Roy, affascinato un po’ dalla sua saggezza e dalla sua esperienza, ma maggiormente da quel suo modo di presentargli il mondo, la società e le vicende sempre come uno spettacolo scintillante. Questa volta Roy lo travolge con le storie di guerra, ascoltate per bocca dei reduci che si avvicendavano nel suo accampamento, e che lui riciclava ad uso del fratello minore. Ed infatti Walt, rosolato al punto giusto, appena tornato a Chicago si reca all’ufficio di reclutamento, dichiarando un’età maggiore, senza, però, convincere la commissione. L’ufficiale reclutatore gli chiede di presentare un certificato di nascita, e Walt scrive immeidiatamente alla Cook County Hall of Records di Chicago (l’Anagrafe) chiedendo una copia del suo certificato di nascita. Una settimana dopo l’Anagrafe risponde di non essere in possesso di alcun certificato di nascita di tale Walt Disney nato il, o attorno al, 5 dicembre 1901. Allora Walt scrisse a Preacher Parr, cioè al Predicatore Walter Parr, sacerdote della Chiesa Fondamentalista di Saint Paul di Chicago, per il quale suo padre aveva lavorato come carpentiere tanti anni prima, e col quale aveva raggiunto un alto grado di amicizia, al punto di promettere al sant’uomo che, se avesse avuto la benedizione di un quarto figlio maschio, gli avrebbe dato il suo nome, cioè Walter. Da qualche parte doveva esserci, in chiesa, un documento relativo alla sua nascita. Preacher Parr rispose che, come lui stesso ricordava, Walt era nato in casa e quindi la sua nascita non era registrata né in chiesa, né in qualche ospedale. Walt allora scrisse al Departement of Vital Statistic, cioè all’ufficio che registrava ogni nascita ed ogni decesso, il cui responso fu, quantomeno, allucinante: Sì, Walter Dysney era nato da Elis (invece che Elias) e da Flora Disney il giorno 8 gennaio 1891!!!!!!!!!!!!. In base a questo verdetto Walt doveva avere 26 anni, ed essere più vecchio di suo fratello Roy. Il che era impossibile, e da questo momento Walt Disney entrò nell’incubo che l’accompagnò per tutto il resto della vita: era veramente figlio di Elias Disney, o piuttosto un figlio adottivo? La violenza che il padre usava contro di lui già da piccolo gli aveva fatto pensare: è costui veramente mio padre?

Roy, l'angelo custode di Walt Disney

Walt Disney soldato
Comunque Walt in guerra voleva andarci, e, in ogni caso, sentiva il bisogno di andarsene via, non avendo più fiducia nei suoi genitori. Ai quali chiese di scrivere una lettera di assenso che gli avrebbe permesso di arruolarsi. La madre Flora lo scongiurò di recedere, perché, avendo già due figli alle armi (Raymond e Roy), non poteva sopportare che anche il terzo andasse in guerra. Anche Elias era contrario alle intenzioni di Walt: non avrebbe mandato un altro figlio a sfidare la morte in una guerra scatenata dalla cospirazione capitalistia mondiale capeggiata dagli ebrei. Nell’impossibilità di convincere almeno uno dei suoi genitori, Walt falsificò le loro firme e fu arruolato come volontario nella Croce Rossa Internazionale. Il suo primo compito fu quello di andare a lavorare nella Yellow Cab Company di Chicago, la famosa Compagnia dei Tassì Gialli. Gli era stato ordinato di imparare a guidare professionalmente, in modo da poter operare con le autoambulanze. Ma, durante la sua prima settimana di mobilitazione, rimase vittima della grande epidemia d’influenza del 1918, e fu rispedito in barella nella casa dei suoi genitori. Per cortesia, a bordo di un furgone della Croce Rossa. Quando si fu rimesso, fu riassegnato a South Beach nel Connecticut, ed il giorno dopo il suo arrivo alla base, fu firmato l’armistizio. Assieme a cinquanta uomini della sua unità, fu spedito immediatamente in Francia per prendersi cura dei soldati americani feriti o malati. Walt festeggiò il suo diciottesimo compleanno a Saint Cyr, in un castello provvisoriamente convertito ad ospedale militare. A dispetto dei suoi sogni di gloria, il periodo che seguì fu abbastanza noioso. Per lunghe settimane dovette fare da autista agli ufficiali, e dovette scarrozzare colonnelli e generali per ogni dove in tutta la Francia. E persino oltre il Reno, in territorio tedesco occupato dagli Alleati, per rifornire di zucchero e caffè gli ospedali militari. Per vincere la noia, cominciò a dipingere sulle fiancate delle Jeep della Croce Rossa la caricatura dei suoi camerati volontari. Continuava a disegnare i suoi cartoons, che inviava a varie riviste negli Stati Uniti, che glieli respinsero tutti. Infine attrasse l’attenzione di un soldato assai ricco di iniziative e noto col soprannome di Cracker. Costui acquisto un surplus di elmetti tedeschi, sui quali sparava per arricchirli di forellini. Poi li passava a Walt che, per dieci franchi l’uno, li ornava di insegne e di macchie di sangue. Successivamente questi elmetti venivano venduti, ai camerati un po’ creduloni, come veri cimeli di vere sanguinose battaglie. E quando Walt fu congedato, aveva in tasca 300$ in sovrappiù, cifra che non aveva mai visto prima di allora.

Ub Iwerks

L’incontro che cambiò la storia
Ottenuto il congedo, Walt fu imbarcato su un piroscafo e rispedito a New York dove si installò in un albergo di media categoria, si fece una bella doccia calda, di cui sentiva la mancanza da diverse settimane, e si precipitò a vedere l’ultimo film di Charlie Chaplin. Dopodiché, cenato in un ristorante in gran voga, concluse la giornata ubriacandosi ed ascoltando il jazz nei locali del Greenwich Village. La mattina dopo prese il treno per Chicago, dove Elias e Flora lo attendevano alla stazione. I quali rimasero sbigottiti nel vedere questo bel giovanotto, robusto ed alto 1,80, poco somigliante all’incerto ragazzetto che era fuggito dalla dimora familiare un anno fa. A sera il padre s’intrattenne affabilmente col figlio e cominciò a costruire castelli in aria, prospettando azzurri orizzonti per Walt quando si fosse integrato nell’azienda familiare. Ma con suo stupore Walt educatamente, ma fermamente, declinò tutti le proposte e le prospettive di papà: aveva i suoi progetti ben definiti, ed intendeva ritornare a Kansas City per intraprendere la carriera di “commercial artist”. Oggi diremmo: un “creativo” nel settore pubblicitario. Il mattino successivo abbandonò per l’ultima volta la sua famiglia, per tornare sui luoghi della sua gioventù perduta. E quando giunse a Kansas City, in quella che era stata l’antica abitazione della sua famiglia, in cui ancora vivevano i suoi fratelli Herbert e Roy, la sua prima preoccupazione fu quella di inviare una domanda d’impiego come illustratore (“cartoonist”) al Kansas City Star, il giornale che, da piccolo, andava a distribuire casa per casa. E fu con suo grande disappunto che la sua domanda fu respinta. Cadde in depressione, che durò diversi giorni, finché Roy, che lavorava in banca, non lo informò che la ditta Pressman-Rubin Studios cercava artisti da ingaggiare. La Pressman-Rubin era la nuova agenzia pubblicitaria che aveva appena aperto un conto bancario di cui Roy era il curatore, e che l’informazione gli era stata passata proprio da uno dei presidenti. Il giorno dopo Walt si presentò alla Pressman-Rubin con un fascio di suoi schizzi ed illustrazioni, e rimase sorpreso e deliziato dal fatto che fu immediatamente assunto. Il suo primo compito fu abbastanza facile, per lui: quello di disegnare attrezzature agricole, come trattori, pulegge, ascensori per silos &c... per illustrare l’imminente Catalogo di Natale e per essere proiettate al cinema. Tale idilliaco posto di lavoro durò soltanto un mese, al termine del quale fu licenziato con la seguente motivazione: “singolare mancanza di abilità nel disegno” (singular lack of drawing abillity).

Walt Diseny e Ub Iwerks: chi è il padre di Mickey Mouse?
Il fratello Roy sostenne che quel posto la ditta glielo aveva assegnato per far un piacere alla sua banca. Impossibilitato a trovare un altro impiego come artista, Walt accettò un lavoro alle Poste per il periodo natalizio. Un lavoro da cani: ritorno a casa di notte, facendosi strada in mezzo alla neve, i pasti saltati. Ed arrivato a casa, chiudersi in stanza fino al mattino successivo. Una sera, una settimana prima del capodanno 1920, un giovanotto alto e dall’aspetto perbene bussò alla porta dei fratelli Disney, domandando se lì abitava il suo amico Walt Disney. Roy lo fece accomodare e gli offrì il caffè, e dopo alcuni convenevoli andò a svegliare Walt: C’è un tuo amico, si chiama Ub Iwerks. Come? Chi lo conosce! Beh, andiamo a vedere……Naturalmente gli appassionati di comics Ub Iwerks lo conoscono benissimo. Noi invece lo conosceremo a fondo nella prossima puntata.

martedì 3 maggio 2011

Roskopf 2: origine delle leggende

Di Luciano Zambianchi

Orologio dell'epoca ellenistica, 1° secolo avanti Cristo

Foto 1

Ho letto e ascoltato i professionisti della penna spiegare che frequentemente lo spunto per i loro articoli viene dalla realtà quotidiana. Ho anche sempre pensato che fosse impossibile avere ogni giorno un argomento interessante su cui parlare, peggio ancora che lo stesso autore potesse parlare con competenza di tutto. Quando mi sono trovato a scrivere ho deciso di parlare solo dei miei interessi, in questo modo ho potuto approfondire alcuni argomenti, con l’alibi di comprenderli meglio per poi divulgarli.

Foto 2

Ma divulgarli a modo mio: dando solo notizie più volte controllate e cercando di incuriosire indicando possibili approfondimenti. Molte volte mi è capitato di leggere favole al posto di quanto indicato da titoli che annunciavano argomenti storici o scientifici e questo non va bene! Naturalmente anch’io traggo dagli stimoli quotidiani gli argomenti di cui parlare; per anni le mie fonti di ispirazione sono stati i mercatini delle pulci, dove ancora oggi scopro decine di curiosità che mi piace mostrare agli amici e a chi mi legge, che considero un poco come i miei amici. Tutti gli stimoli raccolti vengono poi filtrati e mi portano a parlare di argomenti derivati soltanto dal mondo degli orologi, dalla misurazione del tempo, dalle visioni che del tempo hanno popoli di continenti diversi. Da quando ho iniziato, le cose sono un poco cambiate: i mercatini si sono riempiti di paccottiglie di origine asiatica, ma per fortuna sono nati decine di mercati alternativi nel WEB dove tra gli oggetti esposti da ogni parte del mondo si può girare per ore, scoprendo ogni giorno decine di argomenti. Purtroppo anche questi mercati virtuali sono stati invasi da mercanti orientali che offrono cineserie e patacche, ma questo è il prezzo che si deve pagare alla “globalizzazione”.
Foto 3


Le cose interessanti che si possono scoprire in un solo giorno sono così tante che, anche rimanendo nel “settoriale”, per approfondirle occorrerebbero più vite, ma è necessario che qualcuno lo faccia, anche perché di alcuni oggetti si rischia di perdere anche il ricordo: non esistono più le attività che li giustificavano (pensate alla palamarka di cui si parla ormai solo su “Famiglia moderna”). Altri oggetti sono vittime di mode lanciate da rivenditori interessati, parlo di vittime, perché le mode portano alla scomparsa di questi oggetti, che perdono la loro funzione per diventare soggetti da collezione. Oggetti e documenti materiali stimolano anche i mistificatori che in alcuni casi creano dei falsi storici (con scientifiche operazioni di revisionismo), in altri casi con la semplice perdita o la sapiente distruzione di alcuni documenti si riescono a cambiare le storie importanti, quelle dei personaggi in vista. Posso ricordare le introvabili copie della rivista “La Difesa della Razza”in cui un giovane Giorgio Almirante svolgeva l’importante ruolo di segretario di redazione, oggi nessuno è in grado di leggere i redazionali pubblicati da quel periodico senza inorridire. Tra i cimeli sovietici è invece normale trovare le foto storiche dei primi Comitati Centrali del PCUS in cui il povero Lev Davidovič Bronštejn (1879 – 1940), più noto come Trotsky, è misteriosamente scomparso: in realtà la sua immagine è stata cancellata a causa della damnatio memoriae decretata nei suoi confronti all’epoca di Stalin. Per tornare al settore dell’orologeria le falsificazioni più clamorose sono di origine polacca e bulgara più ancora che cinese, le vittime sono i marchi più famosi e gettonati, da Omega a IWC, da Vacheron Constantin a Rolex. Scoprire i falsi non è molto facile, le differenze dagli originali sono minime, anche nel vasto settore dell’antiquariato le copie sono più numerose degli originali al punto che preferisco acquistare orologi distrutti e magari già cannibalizzati come fonte di pezzi di ricambio piuttosto che esemplari funzionanti e ben tenuti che a volte sono assemblati ssu cui è stato inciso un marchio. Lo stimolo, parlerei addirittura della provocazione, di oggi è legato ad una immagine che mi ha spedito un amico che ha letto i miei articoli sugli orologi e la religione. Si tratta della foto di un movimento Roskopf truccato per il mercato ottomano (Foto 1). Si tratta di un orologio che il truccatore ha tentato di trasformare, non sono in grado di dire con quanto successo, in orologio rispettoso delle norme previste dai dotti islamici.

Foto 4

Naturalmente le modifiche introdotte dall’artigiano non hanno migliorato le prestazioni dell’orologio, anzi lo hanno reso instabile. Osservando bene la foto, devo rettificare una delle mie affermazioni precedenti: ho la certezza che il mercato ottomano ha assorbito una discreta quantità di Roskopf taroccati, le lamelle usate come “ritocchi estetici” sono evidentemente prodotte in serie, e a quanto mi è dato di conoscere, sono state espressamente prodotte per quello scopo.

Foto 4a

L’instabilità introdotta dal ritocco è invece legata all’aumento degli attriti nello scappamento, in particolare all’aumento di peso sul perno della barra su cui sono installati i cavicchi. Negli orologi moderni tutti i manuali di assistenza sconsigliano di oliare i perni dell’ancora dello scappamento, ed anche nelle liste di discussione in internet specializzate in orologeria, gli esperti raccomandano di non mettere mai olio sui perni dell’ancora dello scappamento. Molti sostengono che l’olio in quel punto blocca il movimento o almeno aumenta i possibili attriti. Le mie esperienze concordano solo in parte con le raccomandazioni ufficiali: a mio parere sono da oliare i perni delle ancore quando lavorano su rubini e hanno assi lunghi (montati su ponti che lasciano uno spazio di almeno un millimetro sopra e sotto l’ancora, Foto 2), e sconsiglio di oliare i perni dello scappamento negli orologi con movimento “fuse”. Tornando ai Roskopf devo constatare che ancora oggi sono tra gli orologi più collezionati ed imitati: oltre ai 40 milioni di pezzi prodotti dalla Recovillier con i marchi di famiglia e agli altrettanti pezzi prodotti su licenza, ci sono gli imitatori, esemplare risulta il Rosskopf della Foto 3: una “s” in più nel logo può sfuggire agli osservatori non molto attenti e può far credere, a chi lo compra, di acquistare un originale e non un orologio costruito su licenza o una semplice copia.

Foto 5

Proprio il mese scorso mi sono dedicato ad una ulteriore ricerca sugli orologi Roskopf, un lavoro che mi ha portato ad esaminare circa 5000 immagini e a leggere centinaia di articoli e ricerche precedenti; un grande sforzo che purtroppo non mi ha permesso di trovare documenti utili a sostegno della mia tesi, né in francese né in inglese, forse ce ne sono in tedesco ma per me è troppo difficile cercarli. Ho approfondito le ricerche biografiche su George-Frédéric Roskopf, in particolare sul periodo in cui lavorò a La Chaux de Fonds come apprendista presso Mairet & Sandoz che commerciavano in metalli e forniture da orologeria, e anche sul 1834, l’anno in cui diventò veramente apprendista orologiaio nella bottega di J. Bibier. Ho anche cercato di scoprire i rapporti tra la massoneria e la ricca e importante famiglia della sua prima moglie (Francoise Lorimier) che nel 1835 aveva sposato, sollevando un gran numero di pettegolezzi, visto che lui aveva appena 22 anni e la moglie ne aveva 37 ed era una ricca vedova. Ero alla ricerca di documenti che confermassero rapporti tra lui (o la sua famiglia) e la massoneria, ma sono solo riuscito a scoprire che, indipendentemente dai possibili retroscena che lo portarono al suo ritiro dagli affari nel 1872 (alla morte della moglie), George-Frédéric Roskopf fu un marito fedele. Purtroppo questo, anche se gli fa onore, non risponde alle mie domande. Il merito di questo ulteriore approfondimento sulla “dinastia Roskopf” è di una nostra lettrice che dalla Svizzera mi ha spedito immagini di un suo orologio di famiglia (Fritz Roskopf&Cie Patent: Fritz è il figlio di George-Frédéric) chiedendomi i significati dei simboli contenuti nel marchio, in realtà facendomi notare un particolare che mi ha incuriosito (Foto 4 e 4a). Anche di questo marchio ho poi trovato una imitazione (Foto 5) in una copia di un Roskopf. Nel logo mi è sembrato di vedere un compasso stilizzato e così lo ho mostrato ad un mio amico esperto in simboli e riti massonici e lui ha confermato che entrambi i marchi sono sicuramente di origine massonica, anche il secondo, quello che ho trovato su un “Roskopf copia” e che mi sembrava quasi una parodia.

Foto 6

Come ho già detto, nonostante le mie ricerche non sono riuscito a scoprire se Roskopf, suo figlio, o suo nipote, fossero iscritti alla massoneria. La loro iscrizione ad una loggia di “liberi muratori” potrebbe essere una spiegazione del simbolo, ma potrebbe anche aiutare a capire le ragioni del successo (al di là dei contenuti tecnico commerciali) degli orologi Roskopf, e forse le ragioni profonde dei rapporti che hanno legato Roskopf a Breguet e delle ostilità che Roskopf ebbe dalla gilda dei fabbricanti di orologi svizzeri, all’epoca sicuramente diretta da Calvinisti. Un’altra spiegazione dei simboli nel marchio potrebbe essere legata a ragioni di origine commerciale: lo scopo di diventare l’orologio “ufficiale” degli iscritti alle logge massoniche. Oggi gli orologi con simboli massonici (Foto 6) hanno un mercato particolare, legato sia al collezionismo, sia all’esibizione di eventuali appartenenze (vere o millantate) a logge (più o meno riservate). Purtroppo queste ipotesi non possono essere provate e così non mi rimane che chiedere ai lettori di inviarmi o segnalarmi eventuali documenti a favore o meno di una delle ipotesi, o anche di suggerirmene altre. Come al solito, dopo tanto lavoro su un uomo o una famiglia del passato, ho la sensazione di far parte anch’io della sua famiglia, e così vi prego di pensare al signor George-Frédéric Roskopf come ad una brava persona, degno di essere ricordato anche perché riuscì a raggiungere il suo obiettivo: mettere un orologio in tasca a tutti, indipendentemente dalla professione e dal ceto sociale. Ma sarà stato un bene?


Foto 1: Roskopf ottomano
Foto 2: Ancorine con alberi più o meno lunghi
Foto 3: Rosskopf, una “S” in più rispetto al marchio originale
Foto 4: L’orologio di famiglia della lettrice, prodotto su licenza di Fritz Roskopf&Cie
Foto 4a: Il disegno della lettrice
Foto 5: La copia di un orologio con movimento Roskopf e marchio “FIDELITAS”
Foto 6: Orologio da tasca americano (Elgin) con quadrante massonico.

(Foto 4 e 4a della lettrice PB.Altre foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)