venerdì 5 novembre 2010

Panasonic annuncia la Lumix GF2

Panasonic ha finalmente rivelato l’ultima versione delle sue fotocamere Micro compatte senza specchio DMC-GF2, più piccole e leggere della capostipite GF1. La GF2 dovrà fronteggiare una forte competizione in questo segmento di mercato che si va rapidamente affollando, specialmente da parte della compagna di scuderia Lumix G1, dell’Olympus PEN-P1, della serie NEX della Sony e dei sistemi indipendenti visti in Ricoh GXR e Samsung NX10.

Panasonic afferma che la sua nuovissima fotocamera digitale Micro Quattro Terzi è la più piccola e leggera di tutte quelle del sistema ad obiettivi intercambiabili presenti sul mercato. L’affermazione è confermata dal fatto che la GF2 è più leggera del 7% e più piccola del 19% del modello precedente. Nonostante la riduzione in peso e dimensioni la GF2 ha un lampeggiatore incorporato.


il campionario dei colori



È stata effettuata una riprogettazione della sua interfaccia utente ed ora la GF2 vanta uno schermo tattile da 3” (7,5 cm). È disponibile una serie di modi di autofocalizzazione (AF) che comprendono il riconoscimento del volto ed una sorta di tracciamento AF che facillita la ripresa di soggetti in movimento.

Una gradita novità della GF2 è la sua compatibilità col nuovo obiettivo 3D introdotto dalla Panasonic, il Lumix G 2,5mm/F12, in modo che gli acquirenti possano riprendere fotogrammi 3D. La GF2 vanta un sensore Live MOS da 12,1 megapixel e può girare video full HD 1920x1080 in formato AVCHD (Advanced Video Codec High Definition).

Un dispositivo detto ”Intelligent Scene Selector” (selettore intelligente di scenario) fa sì che la fotocamera automaticamente si commuti sul modo più appropriato in accordo col soggetto “toccato”. Per esempio, il tocco su un volto commuta sul modo “ritratto”, ed un tocco su background (sfondo) o scenery (scenario) commuta sul modo scenery. La Lumix GF2 sarà disponibile a gennaio 2011 ed il listino prezzi sarà annunciato circa trenta giorni prima dell’inizio delle consegne.
David Gilbert

(Da TrustedReviews, rivista tecnica inglese di test e novità. Abbonatevi gratis. È quotidiana)

Aimi Kobayashi: il do diesis di Dio

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Nel primo articolo musicale apparso su questo giornale, attribuivo, e seguito ad attribuire, una singolare omnipotenza pianistica a Valentina Lisitsa, una pianista ukraina di cui non avevo mai sentito parlare. La sua tecnica è eccezionale e la pone ai vertici della classifica mondiale di tutti i tempi. Ma quello che mi aveva maggiormente colpito, più che la tecnica, era la mancanza di ogni forma di sfoggio da parte sua. Certi libri sono scritti benissimo, ma vi si vede, appunto, lo sfoggio della propria bravura letteraria da parte dell’autore. Mentre altri hanno uno stile apparentemente dimesso, ma che ha il pregio di risultare più veritiero. Il De Bello Gallico di Giulio Cesare è scritto volutamente in questo stile humilis, che rende la narrazione, priva di ogni forma di autoincensamento e di vanagloria, straordinariamente realistica. E pensare che viene chiamato cesarismo proprio il palese autoriferimento. Ebbene, di fronte alla Lisitsa è nata una nuova stella, una meraviglia giapponese che, apparentemente, sembra proprio l’opposto di Valentina: piccola invece che gigantesca, una giovanetta di quindici anni, invece che una signora di quarantuno. Quello che le unisce è una tecnica prodigiosa ed una profondità interpretativa che mi lascia senza parole (le troverò, le troverò). La bambina prodigiosa è Aimi Kobayashi, che ha già fatto il giro del mondo come concertista. Il fatto straordinario ed irripetibile è che su YouTube, ed in generale su tutta la rete, la vita pianistica di Aimi è fedelmente registrata a partire dal suo esordio concertistico all’età di anni tre. È quindi possibile vedere questa bambina, sempre nella stessa sala da concerto, prima montare su un seggiolino munito di pantografo per alzarla all’altezza della tastiera, e poi poggiare i piedini su una “cassetta dei congegni”, munita di rimandi, manovelle, molle, cinghiette e differenziali per consentirle di agire sui pedali con i piedini che non ci arrivano. Siccome poi è piccola di natura, questi congegni l’accompagneranno fino ad oltre i dieci anni, rafforzando la sua icona di bimba prodigio.

Aimi è nata il 23 settembre 1995 nella città di Ube, prefettura di Yamaguchi, ed è ivi vissuta fino al 2007, anno in cui si è traferita a Tokyo. Ha cominciato gli studi pianistici a tre anni, ed ha suonato con l’orchestra all’età di sette, e dall’età di otto anni è sotto la guida di Yuko Ninomiya, un’insegnante invero straordinaria come la sua piccola allieva. Ha vinto tre volte (vale a dire ogni volta che ha parttecipato) il premio “Glory Culture Prize” della Prefettura di Yamaguchi. Ha ricevuto l’entusiastico sostegno della AADGT, cioè della American Association for Development of the Giftet and Talented (Associazione Americana per lo Sviluppo dei Dotati e dei Talenti).

Le interpretazioni di Aimi Kobayashi sono impressionanti per la loro “consapevolezza”. Non è tanto il virtuosismo ciò che desta ammirazione, ma è il “rigore”, la perfetta attinenza al testo, la mancanza di orpelli ed abbellimenti. In una parola. la “maturità”. Quella maturità che un bravo musicista costruisce in sé lungo anni ed anni di carriera e che Aimi Kobayashi possiede sin dalla nascita come dono celeste. Sin dalle sue prime esibizioni in pubblico, su un pianoforte da concerto, pur cominciando con brani d’una certa semplicità, le sue interpretazioni sono state sempre “adeguate”, nel senso che “quel” determinato brano neanche Arturo Benedetti Michelangeli l’avrebbe suonato meglio. Ci sono le prove. Prendiamo un pezzo che più che da concerto è da saggio annuale degli insegnanti privati, perché non essendo trascendente come difficoltà, fa  comunque una bellissima figura. Parlo dell’Improvviso op. 90 n. 2 di Schubert. Ho la fortuna di possedere l’esecuzione veramente straordinaria di Dinu Lipatti, il pianista romeno morto troppo prematuramente nel 1950 a soli 33 anni, avendo dimostrato di essere un gioiello di inestimabile caratura. Questo brano lo potete trovare su YouTube, e mi darete ragione se pensate che la sua interpretazione è d’altri tempi, e geni così non se ne incontrano più (questo è quello che pensavo anche io). Questo Improvviso è articolato su due forme musicali: la prima costituita da una serie di fluide sestine da eseguire alla velocità della…luce. Che culminano in un brano cadenzato basato su accordi. Ebbene, Aimi lo esegue alla stessa velocità, ma mentre Lipatti, arrivato agli accordi, li monumentalizza stagliandoli ed indugiandovi sopra con forza un po’ troppo accentuata, Aimi li esegue più agevolmente, contenendoli, domandoli in una perfetta linea melodica. Lipatti merita almeno 9,5, ed Aimi guadagna un bel 10. Aimi aveva 7 anni e le sue spallucce erano quelle di una bambina gracile.





La prova del fuoco è costituita dall’esecuzione della sonata Waldstein (detta anche Aurora) di Beethoven: qui il punto di riferimento assoluto, incontestabile, è rappresentato dall’esecuzione di Walter Gieseking del 1938 (in studio), mentre l’esecuzione di Aimi Kobayashi reperibile su YouTube non è ufficiale, perché avviene nel salone di una casa privata, alcuni giorni prima del suo concerto alla Carnegie Hall di New York. Devo dire che da quando avevo undici o dodici anni, e cioè da quasi settant’anni, ho cercato un’esecuzione di questa sonata che fosse paragonabile a quella di Walter Gieseking, che era posseduta in una serie di dischi da 30 cm a 78 giri, dal nostro più bravo e più ricco della classe, a casa del quale ci radunavamo per ascoltare e riascoltare la Waldstein (che noi chiamavamo Aurora). Ebbene, mentre l’intera nomenclatura del pianismo di questo pianeta è sempre risultata deludente al confronto di Gieseking, Aimi Kobayashi esegue questa sonata, che per esplodere in tutto il suo incomparabile fulgore deve essere tenuta sotto un sovrumano controllo dalla prima all’ultima nota, che dicevo? Ah, che Aimi Kobayashi esegue questa sonata… come Gieseking! Ci sono alcuni errori, non ha ancora la forza per il glissato del Prestissimo, perde alcuni centesimi di secondo nelle rampe ascendenti del Rondò, e di fronte al 10 assoluto di Gieseking arriva comunque ad un 9,6, che dimostra come la piccola principessina non è più il gracile fantolino di quando aveva 7 anni. Adesso ne ha 12. (Prima di chiudere il paragrafo vi dirò che su un parco di almeno venti pianisti da me ascoltati, il terzo classificato è Friedrich Gulda con 8,6. E comunque, con i moderni metodi di registrazione digitale, Aimi e la Lisitsa valgono potenzialmente 11/10).

E veniamo ai nostri giorni, cioè alla Aimi Kobayashi dell’anno 2010. Lei è 15enne, e tutte le tracce di sensualità interpretativa, anticipate nelle sue precedenti esecuzioni, ora assumono le sembianze di una evidente, precoce donnitudine. Da piccola nel suo cervello in via di conformazione si affollavano i feltrini di un pianismo intellettuale oscillante tra le tre corde ed il sordino. Ora interviene il cuore e la marea dell’amore. Ha già suonato tutti i tipi di musica da concerto, ma vediamola in un bis che, prima di adesso, ha già suonato altre tre volte reperibili su YouTube, e quindi chiunque può fare le proprie considerazioni sulle fasi del suo sviluppo. Il brano in questione è un brano facile che, come dico spesso, viene suonato in tutti i saggi annuali degli insegnanti privati. Trattasi del Notturno n. 20 in do diesis minore, opera postuma di Chopin. Difficoltà tecnica: nessuna. Valore musicale: dipende dall’interpretazione. Aimi lo suona con una tale intensità, con un tale rapimento, da creare un vero e proprio turbamento nell’auditorio. Quel do diesis, che nel corso del brano interviene due volte, e si riconosce perché è la nota più alta che viene suonata, è come una freccia scoccata a trafiggerle il grembo e l’apre all’estasi mistica di Santa Teresa d’Avila. Più che un’interpretazione è una vicissitudine, una passione che la isola dal resto del mondo. Come giudicheremmo un Daniel Baremboim, un Alfred Brendel, un Maurizio Pollini che suonassero così? Oltre che impossibile, sarebbe inappropriato. C’è una musica che è fatta solo per donne vere.
Marino Mariani





Orologio di famiglia


Orologio del periodo ellenistico, I° secolo a.c.


La passione è quanto unisce gli “amatori” degli orologi antichi (o semplicemente vecchi) ma la miccia che la fa esplodere è estremamente personale. Come molti primogeniti nella generazione del primo dopoguerra, quando me ne sono andato dalla casa paterna ho “ereditato” l’orologio d’oro di mio padre: per me questa è stata la prima volta in cui un oggetto (l’orologio) assumeva la valenza di un testimone, al di là del valore venale dell’oggetto. Quell’orologio mi venne poi rubato una ventina di anni fa dal mio ufficio in Largo Forano a Roma, lasciandomi un vuoto dentro, non giustificato dal rapporto che avevo, o avevo avuto, con mio padre. Da allora è come se lo stessi ancora cercando, era un cronometro “Universal” in oro rosa. Ho detto “come se lo stessi cercando” perché mi son ben guardato dal ricomprarlo: nel mercato specializzato se ne trovano di identici, in buonissime condizioni, per un prezzo che varia dai 400,00 ai 900,00 Euro (foto 1). 

Crono Universal anni 50, oro rosa
Un amico psicologo, mio quasi coetaneo, ha confermato con il suo comportamento che il “rapporto” con l’orologio di famiglia è particolare. Questo amico, quando è venuto a sapere della mia passione per i restauri mi ha affidato l’orologio di un suo zio, un Longines da tasca calibro 19 in argento. Questo orologio per lui ancora bambino era un oggetto tentatore da esplorare, di grande fascino, purtroppo una volta in una di queste “esplorazioni” l’orologio sfuggì alle manine del mio amico e cadde a terra rompendosi (mancava una parte dello smalto del quadrante e la cassa aveva il gambo che regge la corona di carica staccato) . L’orologio era poi stato riparato alla buona, con delle saldature che negli anni avevano ceduto e con un poco di colla avevano riattaccato i pezzi del quadrante; in aggiunta a questi danni estetici erano crepati un paio di rubini e un asse si era piegato. Revisionarlo e mettere a nuovo la macchina non è stato difficile, per la cassa il problema era diverso, occorreva togliere i residui delle precedenti saldature a stagno e far risaldare in argento, ribattere i “bozzi” e poi c’era il quadrante, ormai inguardabile in un orologio lucidato e rimesso completamente a nuovo, così ho fatto rifare il quadrante, sempre di smalto. Tutto questo spendendo più di quanto sarebbe costato in internet comprare un identico orologio in buone condizioni. Quando ho riportato, come mio regalo, il risultato di un mese di lavoro al mio amico, lui mi ha ringraziato ma ho visto nei suoi occhi un’ombra di tristezza, come se non fosse più l’oggetto che conosceva, evidentemente le riparazioni erano state “troppo” radicali ed avevano cancellato la storia degli incidenti, senza che lo zio ormai morto potesse di nuovo autenticare l’originalità dell’oggetto. L’orologio di famiglia così come l’ ho presentato in queste righe ha il massimo della sua diffusione nella seconda metà dell’Ottocento fino ai primi anni del dopoguerra con la nascita e lo sviluppo della classe media. Ho trovato dei cataloghi, specialmente americani (foto 2-3-4), in cui era il cliente a scegliere la macchina e poi la cassa, un monogramma aggiungeva un ulteriore tocco di unicità a quello che sarebbe diventato il simbolo del gusto, ma anche dello stato sociale della famiglia.



foto 2 foto 3 foto 4
A volte questi “pezzi unici” avevano altre origini, altre storie. Mi viene in mente il caso degli orologi con due o tre marchi, un esempio per tutti gli orologi destinati da Georges Favre-Jacot, poi Zenith (1911) dalla cittadina di Billodes, al mercato islamico (foto 5) tra il 1870 e il 1890. Il mercato era marginale e non giustificava la creazione di un nuovo marchio con cui contrassegnare il macchinario, così abbiamo il macchinario e la cassa marcati “Billodes” (foto 6), il marchio che in quegli anni usava il signor Favre-Jacot, e il quadrante “ K. Serkisoff & Co Costantinople” (foto 7) e addirittura una terza firma, quella del referente turco del marchio, colui che in una casa editrice potrebbe essere il distributore locale (foto 8).

Zenith Turco in argento, seconda metà ottocento

Naturalmente anche la concorrenza a quello che per semplificare chiamerò “Zenith” in quegli anni ha lo stesso comportamento per i mercati marginali. I macchinari diventano pressoché identici (prodotti in Svizzera dalla stessa fabbrica con calibri diversi con marchi e sottomarchi diversi) ma sempre con la stessa logica. La costruzione della macchina era molto legata al gusto estetico del mercato a cui era destinata (quello turco ed egiziano), così ecco controrubini cabochon sorretti da staffe in acciaio lucidate a specchio, uno spettacolo di pietre e specchietti (foto 9). Per chi volesse approfondire, “Georges Favre-Jacot” era un signore che forniva anche Faberge ed il mercato russo della corte dello Zar, come innovatore è stato tra i primi a realizzare macchine a 36000 alternanze, è facile trovare in Internet la sua biografia. L’alternanza è il numero di oscillazioni che un bilanciere compie in un’ora, maggiore è il numero di oscillazioni e maggiore è la precisione di un orologio.

foto 6 foto 7
foto 8 foto 9

Anche gli americani Elgin e Walthman avevano macchine prodotte in Svizzera, ma di questo mi andrebbe di parlare in un prossimo articoletto, in cui scoprire che anche aziende come la Longines per superare i problemi posti dalle Corporazioni dei produttori di orologi svizzeri (che erano una potentissima gilda) e i dazi doganali (altissimi negli USA sugli orologi svizzeri e non sui macchinari) esportavano in America macchine che poi venivano incassate negli Stati Uniti o in America Latina e non sempre con i marchi originali del fabbricante. Una morale? Se avete il vostro orologio di famiglia pensateci bene prima di farlo rimettere a nuovo!
Luciano Zambianchi

(Tutte le foto sono dell'autore. Per ingrandire: click su foto. Per Mac ulteriore ingrandimento su tastiera)