giovedì 24 febbraio 2011

Tanti auguri, caro Steve!

Steve Jobs

Steve Jobs, il capo della Apple e padre dell’iPod e di tutti gli oggetti che cominciano con la i minuscola, ha bisogno dei nostri auguri. Le notizie che trapelano dai giornali, a proposito del suo stato di salute, sono tutt’altro che rassicuranti, anzi…E poi lui è nato il 24 febbraio 1955, oggi è il 24 febbraio, quindi i nostri auguri hanno una doppia giustificazione, e speriamo che valgano il doppio.
Walter Isaacson


Dagli ultimi rilevamenti risulta che Famiglia Moderna, negli Stati Uniti, ha 693 lettori. Un po’ pochi per un Paese così grande, ma sarebbe bello che uno di questi si trovasse a Cupertino, e gli telefonasse: “Ehi, Steve, guarda: ti fanno gli auguri anche dall’Italia”. Ma anche se il nostro messaggio non giungesse a destinazione, qualche altro milione di messaggi gli arriveranno certamente da tutta la gente che lo ama. E poi resta con noi per un altro bel po’ di anni, così terrai occupato Walter Isaacson che sta scrivendo la tua biografia. Non sei curioso di sapere che cosa hai combinato nella vita? Tanti auguri, comunque, da tutti noi.

(Foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)

domenica 13 febbraio 2011

Albert Einstein: 4a parte

Di Marino Mariani


Questa volta, cari lettori, sia pur di malavoglia cedo la parola, anzi la scena, a Liliana Cavani, regista della finzione “Einstein”, andata in onda in due puntate su RAI 1, il 26 e il 27 ottobre. Così facendo, questa puntata della mia biografia di Einstein diventa anomala, perché non rispetta la continuità temporale. Ma non si tratterà di tempo, o meglio: di spazio tipografico perso, perché approfitterò della mia constestazione dell’opera della Cavani per narrare episodi della massima importanza della vita di Einstein, che avrei comunque dovuto toccare nelle future puntate. (Biografia scritta originariamente per la rivista Suono)

Albert Einstein

Se non mi sbaglio, questa è la seconda volta, da quando ho iniziato la mia collaborazione con Suono, che uso la parola “finzione” laddove chiunque altro, in Italia, avrebbe usato la parola “fiction”. Non è un mio vezzo esclusivo: questa parola (finzione), con questo significato (fiction), l’ho sentita pronunciare alla TV della Svizzera Italiana, e siccome sono cittadino svizzero, mi sono sentito pienamente autorizzato ad utilizzare liberamente vocaboli dell’Italiano Federale che si scrive e parla nel Canton Ticino. Ovviamente, dovendo scendere apertamente in lizza sul significato di questa parola non in un contesto Federale, bensì di lingua Nazionale Italiana, mi sono premurato innanzitutto di stabilire il significato esatto di questa parola nella sua lingua originale, cioè l’inglese scritto e parlato sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Nel “dock” del mio computer MacIntosh c’è una figurina (icona) intitolata Dictionary, che incorpora il New Oxford American Dictionary (che è anche il mio dizionario inglese di riferimento), l’Oxford American Writer’s Thesaurus, l’Apple Dictionary, e la Wikipedia. Alla voce “fiction” il dizionario mi dà tre significati: 1. Brano letterario in forma di prosa, prevalentemente storie brevi o novelle, che descrive eventi e personaggi immaginari. 2. Invenzione o montatura opposta alla realtà (he dismissed the alligation as absolute fiction: respinse l’accusa come un’assoluta falsità).  3. Falsa supposizione o dichiarazione, che spesso si assume come vera per la convenienza di farlo (the notion of that country being a democracy is a polite fiction: dire che quel paese è una democrazia è una pietosa bugia).

Liliana Cavani giovane



Dunque, nel suo significato primigenio, la fiction è una finzione, una falsità. Se andiamo ad esplorare le altre sezioni del mio dizionario su schermo, cioè la Wikipedia, leggiamo: “per fiction (letteralmente in italiano “finzione”, dal latino fingere) si intende la narrazione di eventi immaginari, in netto contrasto con la narrazione di eventi reali”. Questo testo è in italiano, quindi non soggetto ad errori di traduzione. Viene trattata anche la voce “Fiction Televisiva”, sempre in italiano: “…Per quanto riguarda la fiction televisiva l’aspetto prevalente di finzione non risiede nella storia narrata, che può invece essere basata anche su fatti realmente accaduti (è il caso della fiction televisiva di genere biografico e storico) ma nella rappresentazione scenica. La fiction televisiva si contrappone quindi al documentario nel quale può esservi certamente finzione scenica, ma questa non ne costituisce un aspetto prevalente, bensì funzionale a quello che è il suo scopo: l’informazione, la divulgazione scientifica, la documentazione. Questo differenzia la fiction televisiva dall’opera cinematografica, il film, per il quale il documentario costituisce invece un genere”. Ed infine: “Uso del termine fiction televisiva: soprattutto nelle guide ai programmi televisivi, per film TV, miniserie televisive, serie televisive (escluse sitcom) e serial televisivi (escluse le soap opera e le telenovela) prodotti in Italia, viene usato più frequentemente il termine più generico “fiction”, mentre per le produzioni straniere vengono usati i più specifici termini “film TV”, “miniserie televisiva”, “serie televisiva”, “serial televisivo” e “telefilm”. Dal momento che in lingua inglese non viene usato, per denominare la “serie TV”, il termine fiction può indurre a pensare che solo la fiction televisiva italiana sia fiction, cosa non vera in quanto trattasi esclusivamante di consuetudine linguistica”. Come volevasi dimostrare.

Ma era una fiction?
Dunque io seguiterò ad utilizzare il termine finzione, con cui ci capiremo al volo, salvo tornare al temine fiction se devo parlare con qualche funzionario della RAI. Ebbene, Liliana Cavani ha presentato in anteprima la sua miniserie televisiva in due puntate da un’ora e mezza ciascuna alla quarta giornata del “RomaFictionFest”, quindi l’opera di cui parliamo avrebbe il dovere di essere classificata come una “finzione” ed io avrei il dovere di astenermi da ogni critica riguardo alla sua veridicità e credibilità. Senonché Liliana Cavani ha rilasciato un’intervista di 7’:30’’ reperibile su YouTube in cui ha dichiarato di non aver avuta nessuna intenzione di fare una fiction (“…non esiste….è assurdo, a meno che uno non voglia fare un serial, che però richiede tecniche specifiche..”). Ha affermato che la sua miniserie di complessive tre ore, è come un film di tre ore. Se avesse dovuto girare un film destinato alle sale, l’avrebbe fatto esattamente così. E su questo intento erano d’accordo lei stessa, i suoi sceneggiatori Massimo De Rita e Massimo Falcone, i finanziatori Claudia Mori, la RAI &c., gli attori, ed anche tutto il personale tecnico dai caporeparto all’edizione…. al montaggio. La Cavani fa cenno, in termini dichiaratamente spregiativi, ad un “docudramma” prodotto tempo fa tra Parigi e la BBC “ …che però è la solita cosa: c’è lo studio, poi un’immagine completamente inventata…” mentre il suo è “un film in assoluto, che vuol andare a fondo, ma nel contempo vuol far capire quello che stiamo raccontando…”. 

Il professor Gino Isidori


E qui la signora Cavani invoca il suo consulente, il fisico Prof. Gino Isidori a testimoniare i loro sforzi “per approfondire la figura di Einstein, personaggio semplice ed autoironico, anticipatore dei tempi moderni perché le cose non sono più come cinque o dieci anni fa “(ma Einstein è nato 121 anni fa!). Chi vuole infine sentire parola per parola tutto quello che la regista ha detto per sostenere la veridicità e le buone intenzioni della sua “miniserie”, vada su Google e chieda “einstein liliana cavani”, e sarà servito di barba, capelli e shampo.
Ebbene, contro la pretesa di Liliana Cavani di aver fatto di Einstein una narrazione tesa all’approfondimento della verità, ed un film vero e proprio invece che una finzione, io affermo che tutta la sua narrazione, più che una finzione immaginata sulle ali della fantasia, è una sequela di falsità gratuite, ingenue, sistematiche e fuorvianti. In tutto il filmato che ho potuto vedere, c’è solo un piccolo episodio assolutamente vero che la Cavani ha rispettato in tutta la sua minimalistica integrità, e di ciò ringrazio la signora sin da questo momento. Lo rivelerò alla fine di questa puntata
Ebbene, dico subito che né la prima, né la seconda puntata dell’opera ho potuto vederle sin dall’inizio: ero intento a scrivere la quarta puntata di questa biografia, quando mi ha telefonato il professor Caprioli avvertendomi che su RAI era iniziata la trasmissione di un film su Einstein. Lì per lì neanche vi badai, ma più tardi mi sintonizzai, ed il giorno dopo, per caso, scoprii che andava in onda la seconda puntata, ed anch’essa la vidi, ma non dall’ìinizio

Einstein e Niels Bohr

“Einstein, piantala di……..”
Lo scopo principale di questa puntata, comunque, non è tanto quello di istruire un castello di accuse contro la Cavani, quanto quello di individuare gli episodi maggiormente travisati e sostituirli con la loro realtà storica. Suppongo che diversi lettori di Suono abbiano visto l’Einstein televisivo, e principalmente ad essi devo il ripristino della realtà
Comincerò dalla fine, quando Einstein muore, e la Cavani gli fa dire alcune parole di commiato iniziate dalla frase “Dio non gioca a dadi….” Quando Einstein morì, essendo un ateo irremovibile come Bohr e Fermi, il suo pensiero non era rivolto a Dio. Ma Einstein quella frase, rimasta famosa, la disse una quarantina d’anni prima quando battibbeccava con Bohr sulle conseguenze del principio di indeterminazione di Heisenberg che trasformava il determinismo della fisica classica nel probabilismo della meccanica quantistica. Pensando di poter chiudere la questione con una “frase scenica” alla maniera degli operisti italiani dell’ottocento (tipo “Ridi, pagliaccio!”, “Cortigiani, vil razza dannata”, “Eri tu che macchiavi quell’alma”…..), Einstein gli lanciò questo lungolinea: “Dio non gioca a dadi!”. Ma Bohr gli rispose con uno smash imprendibile: “Einstein, piantala di dire a Dio quello che deve fare!”. Qualsiasi uomo di teatro, o di cinema, o di piccolo schermo non si sarebbe lasciato sfuggire questo scambio al fulmicotone, sempre che qualcuno del gruppo avesse letto una biografia di Einstein.
Ma questa, in fondo, è un’omissione, un’occasione perduta, e dal punto di vista della rilevanza dibattimentale c’è di peggio. Passiamo adesso ad un punto cruciale della vita di Einstein e del mondo intero. Ve lo racconto integralmente, perché tanto l’avrei pubblicato in una puntata successiva, e dopo che ve l’avrò raccontato a modo mio, vedremo come invece è stato interpretato dalla Cavani.

La lettera
Vi devo presentare Leò Szilàrd, un fisico ungherese brillante ed alquanto eccentrico, vecchio amico di Einstein, con cui aveva collaborato a Berlino negli anni 20 nel progetto e nello sviluppo di un nuovo tipo di frigorifero “senza alcuna parte in movimento”, una vera trovata da geni, che i due brevettarono, senza riuscire ad immetterlo con successo sul mercatto, data la loro inesperienza nel campo degli affari. Sfuggito ai nazisti, Szilàrd si recò in Inghilterra, e poi a New York, dove lavorò nella Columbia University alla realizzazione di una reazione nucleare a catena, idea che gli era venuta in mente qualche anno prima, attendendo che un semaforo diventasse verde. Quando ebbe notizia della scissione avvenuta con l’impiego dell’uranio, egli realizzò l’idea che questo stesso elemento poteva essere utilizzato per una reazione a catena potenzialmente esplosiva, e ne discusse con Wigner, altro fisico rifugiato da Budapest, e i due cominciarono a preoccuparsi dell’acquisto, da parte della Germania, delle riserve di uranio del Congo, che a quel tempo era una colonia del Belgio (a scuola si chiamava Congo Belga). Come potevano due rifugiati ungheresi in America mettere in guardia il Belgio? Szilàrd si ricordò che Einstein era grande amico della Regina Madre del Belgio. Ed Einstein stava passando l’estate del 1939 in barca a vela a Great Pecony Bay, in Long Island, nel paesino di Hamptons. Altri particolari Szilàrd li ebbe, telefonicamente, dall’Università di Princeton. Domenica 16 luglio 1939 i due ungheresi si misero in viaggio, con Wigner al volante, perché Szilàrd, al pari di Einstein, non sapeva guidare. Arrivati ad Hamptons, nessuno seppe indicare loro il villino del dott. Moore, dove Einstein alloggiava, ma sul punto di arrendersi ebbero l’idea di domandare ad un ragazzo: “Per caso, non sapete dove vive il Professor Einstein?”. La risposta affermativa fu immediata.

Einstein e Szilàrd preparano a lettera a Roosevelt

Seduti ad un rustico tavolo di legno, Szilàrd spiegò come dall’uranio cui erano sovrapposti strati di grafite poteva svilupparsi una reazione a catena esplosiva a causa dei neutroni prodotti da scissione nucleare. “Ed io non ci avevo mai pensato!”, esclamò Einstein. Fece ancora qualche domanda e ci pensò sopra per un quarto d’ora, e poi cominciò a capire tutte le implicazioni: invece di scrivere alla Regina Madre, forse era meglio scrivere ad un ministro belga che egli conosceva. Wigner, più saggiamente, ritenne che tre stranieri, prima di confidare ad uno stato estero tanto delicati argomenti di sicurezza, avrebbero dovuto interpellare il Dipartimento di Stato, ed in tale caso la lettera avrebbe dovuto essere firmata da Einstein, per poi essere smistata all’ambasciatore belga in una busta del Dipartimento di Stato. D’accordo su ciò. Einstein dettò una bozza in lingua tedesca. Wigner la tradusse in inglese, la diede alla segretaria per dattiloscriverla, e la inviò a Szilàrd. Alcuni giorni dopo un amico combinò per Szilàrd un colloquio con Alexander Sachs, un economista della Lehman Brothers ed amico del presidente Roosevelt. Più pratico dei tre fisici teorici, Sachs consigliò di inviare la lettera direttamente alla Casa Bianca, e si offrì di recapitarla personalmente, a mano. Pur avendo incontrato Sachs solo per la prima volta, a Szilàrd quel piano piacque. “Non farà male a nessuno seguire questa via”, scrisse ad Einstein. Potevano farlo per telefono o dovevano incontrarsi personalmente per eseguire la revisione della lettera? Einstein rispose che doveva ritornare a Peconic, mentre Wigner doveva recarsi in California per una visita. E così Szilàrd ingaggiò un altro esponente dell’incredibile gruppo di fisici teorici ungheresi che si erano ritrovati in America. Costui era Edward Teller (che in seguito costruì la bomba all’idrogeno, dopo che Fermi aveva costruito la prima bomba atomica). Oltre che essere un simpaticissimo genio, Teller possedeva una spaziosa Plymouth del 1935, e su tale mezzo Szilàrd riprese la strada per Peconic, portando con sé la bozza originale della lettera, vecchia ormai di due settimane. Ma Einstein realizzò che adesso si trattava di scrivere una lettera ben più esplosiva che non un semplice invito alla prudenza indirizzato al governo belga, a proposito della vendita dell’uranio congolese: lo scienziato più celebre al mondo si rivolgeva al Presidente degli Stati Uniti mettendolo in guardia su una probabile arma di incommensurabile potenza. Szilàrd ricorda che “Einstein dettò una lettera in tedesco, che Teller buttò giù, e che io presi a modello per preparare due bozze di lettera destinata al Presidente”. Secondo gli appunti di Teller, Einstein dettò una bozza in cui non solo sollevava la questione dell’uranio del Congo, ma che spiegava anche la possibilità di una reazione a catena, suggeriva che ne poteva nascere un nuovo tipo di bomba, e sollecitava il Presidente di prendere un contatto formale con i fisici che si interessavano a questa materia. Poi Szilàrd preparò ed inviò ad Einstein due versioni, una di 45 righe e l’altra di 25, entrambe datate 2 agosto 1939, lasciando ad Einstein il compito di decidere quale fosse la migliore. Einstein le firmò entrambe con una semplice sigla, abbandonando la pomposa firma fiorita che spesso utilizzava. La versione maggiore giunse infine al Presidente.

Il monito
Eccone il contenuto:
Signore 
Alcuni recenti lavori di E. Fermi e di L. Szilàrd, che mi sono stati comunicati in forma di manoscritto, mi inducono a prevedere che l’elemento uranio possa diventare, nell’immediato futuro, una nuova ed importante fonte di energia. Certi aspetti della situazione che si è venuta a creare sembrano richiedere vigilanza e, se necessario, una pronta azione da parte dell’Amministrazione. Credo pertanto essere mio dovere quello di porgere alla vostra attenzione i seguenti fatti e raccomandazioni:……Può sorgere la possibilità di provocare una reazione nucleare a catena in una notevole massa di uranio, dalla quale potrà essere generata una grande quantità di potenza e grosse quantità di nuovi elementi simili al radio. Ora sembra quasi certo che ciò potrà essere realizzato nell’immediato futuro.Questi nuovi fenomeni potranno dunque sfociare nella costruzione di bombe ed è probabile – ma molto meno certo – che potranno essere costruite bombe di nuovo tipo estremamente potenti. Una singola bomba di questo tipo, portata per nave e fatta esplodere in un porto, può benissimo distruggere tutto il porto e parte del territorio circostante……Alla luce di questa situazione voi potrete ritenere auspicabile stabilire un contatto permanente tra l’Amministrazione ed il gruppo di fisici che lavorano alle reazioni a catena in America.

Avrei potuto presentare questa lettera in una miglior forma italiana, ma mi sono strettamente attenuto all’originale elaborato da quattro fisici di cui nessuno era di madrelingua inglese. La lettera iniziava con la parola “Sir”, e terminava con il monito che gli scienziati tedeschi forse stavano già lavorando alla realizzazione della bomba, ma una volta scritta la lettera, rimaneva il problema di come farla pervenire nelle mani del Presidente Roosevelt. Einstein dubitava di Sachs. I quattro presero in considerazione il finanziere Bernard Baruch ed il presidente del MIT Karl Compton. Stupefacente fu il fatto che quando Szilàrd rispedì la copia dattiloscritta della lettera, avanzò il consiglio di utilizzare come intermediario Charles Lindbergh, reso celebre, dodici anni prima, dal suo volo solitario attraverso l’Atlantico.

Chaels Lindbergh. il primo trasvolatore solitario dell'oceano Atlantico

Questi illustri rifugiati ebrei sembravano non rendersi conto che Lindbergh era un ammiratore di Mussolini, ed era stato entusiasticamente accolto in Germania ove Hermann Göring in persona lo aveva decorato con la Medaglia d’Onore della Nazione Tedesca, ed era diventato isolazionista, in netto contrasto con Roosevelt. Einstein l’aveva conosciuto pochi anni prima a New York, e gli scrisse una missiva in cui gli chiedeva di ricevere il dott. Szilàrd che gli avrebbe fatto importanti rivelazioni…..Lindbergh neanche rispose. Allora Szilàrd si rifece vivo con una lettera del 13 settembre, ma il gruppo si rese conto della vanità di questi tentativi quando, due giorni dopo, Lindbergh tenne un discorso radio a tutta la nazione, incitandola vieppiù all’isolazionismo. Rassegnato, Szilard scrisse ad Einstein: “Lindbergh non è il nostro uomo”.
L’ultima loro speranza rimaneva Alexander Sachs, cui era stata affidata le missiva firmata da Einstein, ma che, nonostante la sua importanza, per almeno due mesi non fu in grado di inoltare la lettera. Nel frattempo la lettera da importante divenne impellente, perché alla fine di agosto Germania e URSS firmarono un patto di non aggressione che consentiva loro di spartirsi la Polonia. Immediatamente l’Inghilterra e la Francia (quest’ultima con un ritardo di 24 ore) dichiararono guerra alla Germania, dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale. Per il momento l’America rimaneva neutrale, però iniziava il riarmo
Il Presidente F:D:Roosevelt


Alla fine di settembre Szilàrd venne a trovare Sachs e rimase inorridito scoprendo che costui ancora non era stato in grado di fissare un appuntamento con Roosevelt, quindi scrisse ad Einstein. “C’è una seria possibilità che Sachs non ci possa servire a nulla. Wigner ed io abbiamo deciso di imporgli un termine di dieci giorni”. Sachs ce la fece per un pelo, e mercoledì 11 ottobre fu ricevuto, con in mano la lettera di Einstein, nell’Ufficio Ovale. Nella versione della Cavani Szilàrd e Wigner andarono a trovare Einstein, gli dissero come stavano le cose, gli proposero di scrivere una lettera a Roosevelt. Egli domandò: “Che cosa devo scrivere?”, “Comincia con: Caro Presidente”. Fine della trasmissione.


Rain Man
Quella che segue non è una divagazione fuori tema, ve ne accorgerete più tardi. Vi ricordate quel bel film americano del 1988 intitolato “Rain Man”? Credo che in italiano si chiamasse “L’uomo della pioggia”, che è l’esatta traduzione di Rain Man, ma in realtà quel “Rain Man” è una deformazione di “Raymond”, il nome che nel film assume Dustin Hoffman, mentre Tom Cruise si chiama Charlie, ed è il fratello minore di Raymond. Charlie è dipinto come uno yuppie egoista, che subisce un rovescio nel commercio di automobili Lamborghini, e che ignora persino di avere un fratello maggiore, d’altronde ricoverato in clinica perché egotista (non confondete con egoista). Lo viene a sapere quando muore il padre, ed il grosso dell’ingentissima eredità va proprio al fratello maggiore.

Tom Cruise e Dustin Hoffman


Sia come sia, egli va a prelevare Raymond nell’istituto ove è ricoverato ed assieme a lui inizia un viaggio da Cincinnati a Los Angeles, reso interminabile dal fatto che Raymond, per il suo stato psichico, non può viaggiare né in aereo, né in autostrada. Durante questo viaggio Charlie comincia ad affezionarsi al fratello che, accanto a comportamenti maniacali, come la ripetizione infinita di “Who’s on first” (una gag presa da un film di Gianni e Pinotto, relativa ad una partita di baseball: “Chi è in prima base?”, in cui “Who” è l’interrogativo “Chi?”, ma è anche un nome proprio), ebbene, oltre a queste pause psicotiche, Raymond mostra di avere una memoria prodigiosa. Così capitano a Las Vegas, e si siedono ad un tavolo di Blackjack, il più popolare “casino game” descritto per la prima volta, nel 1602, da Miguel Cervantes autore del Don Quijote. nella sua opera “Novelas Ejemplares”. Il gioco si svolge tra un certo numero di giocatori ed il banco. Vince chi ottiene il punteggio più alto, ma inferiore a 21 (chi supera questo valore “sballa”), attribuendo alle carte i seguenti valori: da due a dieci le carte valgono tanti punti quanto il loro valore nominale. Le figure valgono, indistintamente, dieci punti, mentre gli assi possono valere “uno” o “undici” a seconda delle circostanze e per scelta del giocatore. Il fascino di questo gioco consiste nel fatto che il giocatore, oltre alla fortuna che presiede alla distribuzione delle carte, può contare su una certa strategia: quella di tenere il conteggio mentale delle carte già uscite per calcolare la probabilità di uscita delle successive carte del mazzo, determinando così la convenienza di chieder carta o restare. Ebbene, sfruttando la prodigiosa memoria di Raymond, i due fratelli effettuano grosse vincite prima di essere allontanati dal casino.

Dustin Hoffman memorizza le carte uscite a Blackjack
Diverso è il caso di altri giochi di fortuna. Per esempio, giocando con una coppia di dadi, noi conosciamo perfettamente le probabilità a priori di ciascun numero. Il calcolo è facile: poiché ciascuna delle 6 facce di un dado si può liberamente combinare con ciascuna delle 6 facce dell’altro dado, le “figure” totali sono 6x6=36. Di queste i numeri 2 e 12 si possono verificare in uno ed un solo modo, cioè 1+1 e 6+6, quindi ognuno di questi numeri ha una sola probabilità a priori su un totale di 36. L’11 ed il 3 hanno invece una probabilità doppia, perché si possono ottenere in due modi: 2+1 e1+2, oppure 5+6 e 6+5. Ripetendo il ragionamento, ecco le probabilità a priori degli altri numeri: il 4 e il 10 ne hanno 3 ciascuno; il 5 e il 9 ne hanno 4; il 6 e l’8 ne hanno 5, ed infine il 7 ne ha ben 6, potendosi verificare nei modi: 6+1, 1+6, 5+2, 2+5, 4+3 e 3+4. Se fate la somma di tutte le probabilità a priori, troverete quel valore, 36, che avevamo detto sin dal principio. Ma questo aiuta poco un giocatore di dadi, che terrà conto di questi calcoli, ma se i suoi dadi non sono truccati non potrà impedir loro di far uscire un numero sempre casuale, sempre indipendente del numero che è uscito immediatamente prima. La frequenza di uscita di un ceerto numero è però soggetta ad una legge ferrea, che è detta la “Legge dei Grandi Numeri”, la quale afferma che, all’infinito, la frequenza tende ad eguagliare la probabilità a priori. Questo significa che se tirate i dadi 10, 20 o 50 volte otterrete una serie di risultatii che non sembra seguire nessuna legge. Per esempio il 2 (o il 12), che sono numeri rari, potrebbero uscire anche 5 o 6 volte di seguito, mentre il 7, favorito nel calcolo delle probabilità a priori, potrebbe tardare in modo anomalo. Ma se tirate i dadi moltissime volte, per esempio migliaia di volte, troverete che la frequenza del 7 si avvicinerà al suo valore asintotico calcolato a priori. A seconda delle giocate eseguite, la frequenza d’uscita del 7 si avvicinerà, per esempio, al valore 60mila, la frequenza del 6 e dell’8 al valore 50.000 e così via. Come si vede, uscito un numero, non c’è nessun procedimento matematico per predire il numero successivo. A maggior ragione questa indeterminazione vale per un gioco come quello delle macchinette a gettone, in cui le probabilità a priori possono essere calcolate solo sapendo quante volte ciascuno dei vari simboli (ciliegine, arancio, campana……) è stampigliato su ciascuna delle ruote (in genere tre). Questi dati non sono assolutamente a disposizione dei visitatori casuali, e comunque non possono dare alcuna indicazione sulle figurine che usciranno la prossima volta, e solamente con l’esperienza il giocatore imparerà, a proprie spese, a conoscere quali sono le combinazioni più frequenti (e meno remunerate), e quelle più ricche (che non escono mai). Ma che c’entra tutto questo con la biografia di Einstein? Assolutamente nulla. Ma Liliana Cavani non la pensa così.


Eduard, Mileva e Hans Albert Einstein

Il viaggio di Eduard
Liliana Cavani prende molto a cuore la situazione familiare di Einstein, ed in particolare i suoi rapporti con il figlio minore Eduard, che sin da ragazzino mostrava tanta buona tendenza allo studio della musica, quanto saltuari comportamenti neurotici nichilisti nei confronti del padre. Eduard voleva intraprendere studi di psichiatria, ma fu lui stesso travolto da turbe psichiche che gli impedivano di studiare con rendimento costante. Eduard fu una continua preoccupazione per Einstein, che vedeva nel figlio avanzare ineluttabilmente una tara ereditaria forse generata nell’ambito della discendenza materna (Mileva Maric, prima moglie di Einstein, era la madre di Eduard). Durante i suoi viaggi e le sue lunghe permanenze all’estero, Einstein era continuamente informato sullo stato di salute di Eduard dal suo amico Michele Angelo Besso, col quale, sino all fine della vita di entrambi, intratteneva una fitta corrispondenza scientifica e familiare. Ecco uno stralcio della Lettera 112 del carteggio Besso- Einstein, datata Berna, 18 settembre 1932. La lettera è diretta da Besso ad Einstein, ed inizia con dolenti considerazioni suoi legami tra i due, che si ripercuotono parallelamente nel figlio di Besso, Vero, e nel figlio minore di Einstein, Eduard (detto Tete o Tetel):
……. È per questo che sono affezionato al tuo Eduard. Quali ponti ci collegano? La mia vita e la tua giovinezza, il tempo in cui il tuo genio ti suggeriva centomila idee e i tuoi sforzi tenaci riuscivano a trarne l’unica valida, e il modo puro con cui io ne gioivo, e le mie infinite obiezioni. Le pene simili a quelle altrui, la difficile posizione accanto al padre celebre, il dissidio proprio sotto i nostri occhi che ci colpisce proprio diritto al cuore. Il destino peer cui i miei sforzi sinceri per riappacificare te e Mileva hanno finito per mutarsi nella mano che ha sancito la separazione: le mie parole di allora, quando pensavo che la tua separazione dal nostro popolo e dalle sue aspirazioni non fosse così profonda come appariva al tuo sentire profondamente umano – e che in qualche modo possono aver contribuito a separazioni e unioni. Ora, il ponte esiste. Certo qualcuno potrebbe dire: ha un padre straordinario, un’ottima madre, è dotato e simpatico, anche se un po’ chiuso come molti giovani.........Lo stesso Eduard mi ha detto: “Fatico a condurre a termine il dovere impostomi. Papà deve provare un sentimento analogo quando fa lezione malvolentieri”. Fare lezione non ha per te un’importanza veramente profonda, ha pensato tra sé il vecchio amico. “Che cosa ci posso fare? Ognuno deve cavarsela da solo. Io ho dovuto farlo e devo continuare a farlo. Che ne sai tu bambino dai capelli bianchi, di quanto pesante sia il fardello di colui che cerca e di quanti ancora, da tutte le parti, vorrebbero addossamene! Aiuta, se puoi, e altrimenti rassegnati, come anche altre persone devono rassegnarsi!”.E tuttavia: prendi con te per una volta il ragazzo in uno dei tuoi grandi viaggi. Quando gli avrai dedicato il tempo libero di sei mesi della tua vita – avrai allora imparato a sopportare in lui anche cose che non ammettiamo con gli altri – perché dall’esterno le cose appaiono diversamente che dall’interno; ma allora saprete anche, una volta per tutte che cosa vi unisce e, a meno che non mi sia clamorosamente sbagliato, in quest’occasione gli si aprirebbe la via verso una propria, gioiosa attività. Un proverbio italiano dice: offelé, fa’l to mesté: “Pasticcere, fa’ pasticcini”; in tedesco, indirizzato a me, impicciati degli affari di casa tua. E ancora in italiano: va’ a farti benedire!
Caro, vecchio amico, perdona il tuo vecchio amico Besso.

Besso e Anna Winteler. foto unica esistente


Questa lettera di Besso, tanto diversa da tutte le altre, di contenuto provalentemente scientifico, se la poniamo nella giusta prospettiva, è veramente straziante. Il vecchio amico fa i salti mortali per manifestare con estrema delicatezza e discrezione la sua preoccupazione per lo stato di Eduard, e suggerisce ad Einstein quella che ritiene l’unica cura possibile che dia ancora un filo di speranza: portatelo con te e mostragli tutto il tuo amore di padre! E, nel timore di aver in qualche modo passato i limiti della buona creanza, affibbia a a se stesso l’accusa di essere un impiccione. Einstein gli risponde il 21 ottobre 1932:
Caro Michele, come potrei essere arrabbiato con te? Non ti ho ancora mai visto dire o fare qualche cosa se non con l’intenzione di fare del bene. Così è stato nel caso di Tetel. L’ho quindi invitato per l’anno prossimo in America (a Princeton). Quest’anno non sarebbe stato opportuno, perché in California la situazione e i miei doveri in particolare sono piuttosto delicati. Per Tetel sarebbe più un peso nocivo vhe un riposo. Tutto porta purtroppo a credere che la pesante eredità di famiglia si manifesti in modo decisivo in lui. L’ho già vista arrivare, lenta ma inarrestabile, fin dalla giovinezza di Tetel. Gli eventi e le influenze esteriori, in simili casi, non rivestono che un piccolo ruolo in confronto alle secrezioni interne, sulle quali nessuno può niente.
Convinto (non a torto) che si trattasse di una tara genetica, Einstein aveva già declinato un invito di Besso a far psicoanalizzare Tetel. Per convincere Einstein, Besso aveva anche affermato di aver lui stesso ricavato notevoli benefici da un trattamento psicoanalitico cui si era sottoposto per superare difficoltà con la moglie Anna Winteler, sorella di Marie Winteler di Aarau, che Einstein stesso gli aveva fatto conoscere. Nonché le difficoltà che aveva incontrato con il figlio Vero. Benché fosse amico di Sigmund Freud, Einstein ritenne che la psicoanalisi non c’entrasse per nulla con il caso di Tetel.
A questo punto facciamo rientrare nello scenario Liliana Cavani. La quale descrive la visita di Tetel a Princeton e i rapporti ripresi col padre. Il quale, in perfetto parallelismo col film “Rain Man”, si carica il figlio su un macchinone scoperto e, lui al volante, se lo porta in un lungo viaggio per la campagna del New Jersey. Sostano in vari hotel e ristoranti. In uno di questi si sta esibendo una banda di jazz, e Tetel (Eduard) si lancia sul pianoforte, lasciato provvidenzialmente libero, e si mette a capo del complesso suonando meglio di Paderewski. Ma l’analogia col film di Dustin Hoffman si fa anche più stretta quando, in un locale con annessa sala da gioco, Tetel osserva un giocatore che, spazientito per le continue perdite, sta abbandonando una macchina a gettone, e lo ferma esclamando: “Giocate ancora, alla prossima vincerete”. Ma costui perde ancora e si allontana spazientito. “Ma no, dovete assolutamente giocare ancora, la vincita è sicura!”. Einstein viene in soccorso del figlio: “Giocate ancora, se non vincerete vi rimborseremo la spesa”. Naturalmente il giocatore non vince ed Einstein lo risarcisce.
Ma a questo punto i nodi vengono al pettine: Einstein non ha mai guidato un’automobile, non possiede nessuna automobile, né può prenderla in noleggio, non avendo la patente. Al contrario di Dustin Hoffman, Eduard Einstein non è un soggetto autistico, bensì schizofrenico. Inoltre si difende sostenendo “Avevo calcolato tutte le probabilità!”. Orbene, Liliana Cavani, nell’intervista riportata da YouTube, afferma di aver usufruito della consulenza del fisico Isidori, che avrebbe dovuto spiegargli la differenza tra un calcolo delle probabilità in un gioco soggetto alla legge dei grandi numeri ed il conteggio delle carte ancora presenti in un mazzo da Blackjack, avendo memorizzato tutte le carte sinora uscite. Infine poteva fare del tutto a meno di ficcarsi in questo ginepraio, che non fa onore alla sua squadra di collaboratori, se avesse tenuto conto che Eduard Einstein era sepolto in una clinica svizzera, cui, in qualità di malato di mente, le autorià USA non concessero mai il visto d’ingresso.


Il frigorifero di Einstein e Szilàrd

Girandola finale
Dunque, tutto il viaggio in America di Eduard Einstein e le sue avventure in campagna col papà sono ”non avvenute”. Eduard, detto Tete o Tetel, è morto a 55 anni a Burghölzli, che altri non è che il nome popolare dato all’Ospedale Psichiatrico dell’Università di Zurigo. Dalla data della sua risposta alla lettera di Michele Angelo Besso, Einstein non ha più rivisto quel figlio..
Nell’opera della Cavani si vede una Berlino del dopoguerra della Prima Guerra Mondiale tirata completamente a lucido, con i cubetti di porfido (sampietrini, in romanesco) del selciato lavati e stirati uno per uno, con i professori dell’Università severamente e dignitosamente intabarrati nei loro vestimenti accademici. Ma a quel tempo, il governo tedesco, per non pagare i debiti di guerra, aveva fatto svalutare la propria moneta oltre ogni limite concepibile. Ricordo, nella collezione di francobolli di mio padre, valori di diversi milioni di RM (Reichsmark), ma sul catalogo Yvert et Tellier erano registrati anche valori postali di miliardi di RM. A quel tempo anche un paio di guanti scompagnati o di scarpe sfondate aveva un valore superiore a qualsiasi somma in danaro. I costumi erano completamente degenerati: Berlino era un lazzaretto, un bordello, un carnaio a cielo aperto. È strano che la Cavani, autrice del film “Il portiere di notte”, ritenuta quindi un’esperta di degenerazioni tedesche, abbia preferito ambientarsi in una Berlino di fantasia. In America Einstein viene alloggiato in un appartemento arredato in maniera strana. “Che cosa essere questo?”. Semplicemente un frigorifero, del tutto sconosciuto ad un Einstein che insieme a Slilàrd ne aveva progettato uno avveniristico senza parti in movimento. Sconosciuto ad un Einstein il cui padre Hermann e lo zio Jakob guidavano un’industria elettromeccanica operante nel Nord Italia.

Einstein e la segretaria Helen Dukas



Appena passata la trentina Einstein ebbe i capelli bianchi caratteristici della sua storia iconografica, ma la Cavani l’ha fatto morire con i capelli neri. Einstein si presenta ad un ricevimento senza pantaloni. Einstein si lamenta che nessuno rammenda i suoi calzini, capo d’abbigliamento che non usava. Ma lo spazio a mia disposizioni è completamente esaurito, e quindi voglio chiudere con l’episodio più improbabile evocato dalla Cavani: in America, una bambina del vicinato bussa alla porta del suo villino, e gli offre una tortina fatta in casa. In cambio l’aiuterebbe a fare i compiti di scuola? Ma certamente! Come resistere ad una bambina vera, verissima, magicamente infiltratasi nella favola della Cavani? Un altro motivo di gratitudine va alla Cavani per aver lasciato completamente in ombra la figura di Helen Dukas, segretaria di Einstein dal 1928 al 1955 (anno della morte dello scienziato). Helen Dukas è infatti vissuta nell’ombra di Einstein, ma è venuta splendidamente alla luce più radiosa dopo la morte del genio, rendendo possibile la pubblicazione della sua opera omnia in 36 volumi, in corso di stampa a cura della Princeton University Press.
(Foto Goggle di pubblico dominio. Click per ingrandire)

sabato 12 febbraio 2011

La vera storia del "Gronchi Rosa"


Di Luciano Zambianchi
Orologio del periodo ellenistico, 1° secolo avanti Cristo


Foto 1


Foto 1a


“Dotto’, ‘o vulite fa’ n’affare?” Quasi tutti noi ce lo siamo sentiti chiedere nel parcheggio di un autogrill, o ad un semaforo, oppure in un giardino. Il seguito lo conoscete: l’improvvisato venditore ci spiega che, per un errore nella bolla di carico, si trova qualche oggetto di troppo che deve assolutamente svendere, altrimenti la Guardia di Finanza ….. Quando questo succede, ormai sappiamo che dobbiamo essere estremamente diffidenti, è il solito giochetto della stangata in cui il truffatore sfrutta la bramosia del pollo di far l’affare per ammollargli il pacco (una scatola vuota o, al massimo, con un mattone). Di solito questi signori propongono di acquistare costosi oggetti di marca a prezzi irrisori: telecamere, macchine fotografiche, pellicce, computer, telefonini, ma attenzione: da qualche anno ci sono anche gli orologi. Non vi darò lezioni di buon senso, visto che probabilmente ne avete più di me, ma permettetemi alcuni suggerimenti: Intanto attenzione ai falsi (alle copie). I falsi non li abbiamo certo inventati in questo secolo, sono molte le monete romane false, coeve a quelle vere. Pensate che i Romani stessi per limitare il fenomeno dei falsi avevano ispettori pagati dall’imperatore, per verificare le monete d’oro e d’argento (quelle di bronzo erano fatte coniare dal Senato). Questo ci porterebbe a dire che oggi, dopo tanti secoli di tentate truffe, noi compratori siamo ben vaccinati. Mi dispiace, ma non è così. È vero che da alcuni anni circolano copie cinesi degli orologi più prestigiosi (foto 1, 1a), ma non basta: da qualche tempo le copie si sono molto raffinate nella forma (la sostanza rimane di serie B) ed apparentemente sembrano uguali all’originale. Attenti a non acquistarle: in Italia i marchi sono protetti, e chi acquista una copia commette un reato, punito con la confisca dell’oggetto acquistato ed una forte multa, oltre alla denuncia penale. Già questo potrebbe bastare per sconsigliare un probabile affare. Purtroppo non tutti lo capiscono, e così chi crede di essere furbo spesso viene castigato, ma c’è di peggio: quelle fregature che si rischiava di prendere in autostrada ora si sono trasferite sulle autostrade telematiche. La tecnica è proprio quella classica: ci sono siti fantasma che compaiono per alcuni giorni e poi scompaiono appena rintracciati dalla polizia postale, e su questi siti vengono offerti modelli di orologi

Foto 2

di tutte le marche fino ad un prezzo massimo di 140€. Poi ci sono siti apparentemente stabili (foto 2): l’acquirente dovrebbe scegliere l’orologio, poi inviare i soldi a un conto corrente (di solito in Russia o in Lettonia), e dopo una settimana dovrebbe ricevere l’oggetto ordinato. C’è addirittura un sito che propone copie vantate non cinesi, fatte da artigiani autorizzati dalle Case ufficiali, che dovrebbero realizzare copie su ordinazione, a prezzi che superano i 300€. Per averle, occorre aspettare almeno due mesi, ma questo sito rimane attivo per una settimana al massimo. Pensate che per 250€ è possibile ordinare copie anche di orologi Seiko e Citizen, che di solito in gioielleria costano meno. A volte qualche orologio arriva, specie se per pagare usate Paypal o circuiti analoghi, ma non crediate di aver fatto un affare: se non sarete soddisfatti non riuscirete a trovare un interlocutore con cui lamentarvi, e Paypal poi vi tutela solo nel caso che non riceviate nulla, ma se avete firmato la ricevuta del pacco, non vuole entrare nelle discussioni sulla qualità del prodotto. Da quanto ho affermato sembrerebbe che gli orologi vadano acquistati solo nelle orologerie, ma in realtà ci sono associazioni e mercatini paralleli sicuramente degni di fiducia. Qualche mese fa mi sono iscritto ad un’associazione di collezionisti, “Collezionando”, che associa soprattutto signori che hanno trasformato la loro passione in un lavoro. Molti degli iscritti si possono incontrare la prima e la terza domenica di ogni mese sotto i portici di Piazza Augusto a Roma.

Foto 3


Una specie di mercato delle pulci, dove non si trova né il classico abbigliamento, né le solite cineserie. Molti sono collezionisti che si liberano delle eccedenze accumulate nelle loro ricerche, altri invece utilizzano le loro capacità e i loro collegamenti per fare da trovarobe, ed in questo modo riescono a ricavare un piccolo utile nella intermediazione, con la soddisfazione di tutti. Se scrivo queste note però non è certo per fare un’apologia dell’associazione e neppure per indicare ai giovani una ulteriore possibilità di lavoro: si tratta soltanto di porre in evidenza i limiti dell’essere collezionista. Anni fa ho conosciuto uno dei più famosi collezionisti di francobolli e conchiglie, “l’inventore” del famoso “Gronchi Rosa” (foto 3) tristemente noto tra i filatelici. Era una specie di Re Mida, che ogni cosa toccasse trasformava in oro, o meglio, in qualche cosa che sembrava oro ma oro non era! Solo per i più giovani ricorderò che il “dottore” acquistò in blocco la produzione sbagliata nella stampa di una partita di francobolli che dovevano accompagnare il viaggio dell’allora Presidente Gronchi. I cosiddetti “Gronchi Rosa” rischiavano di scatenare una guerra diplomatica e così vennero velocemente sostituiti dalle Poste Italiane con i “Gronchi Grigi”: nella emissione in rosa i confini tra il Perù e l’Ecuador erano sbagliati (mancava la parte amazzonica del Perù). Si trattava di una quantità enorme di fogli di francobolli (circa 1000) che “il dottore” bruciò quasi per intero lasciandone solo pochissimi esemplari (il tutto in pubblico ed alla presenza di un notaio che certificò l’avvenuto sacrificio). A questo punto i pochi francobolli rimasti furono valutati nelle aste filateliche a prezzi da capogiro: ho saputo che con dieci “Gronchi Rosa” negli anni sessanta si poteva acquistare un appartamento di due stanze a Roma. Con gli anni però ci si accorse che molti dei fogli che avrebbero dovuto essere bruciati erano rimasti nella cassaforte del collezionista, e che venivano abilmente distribuiti nel mercato mondiale, e questo fece precipitare il valore a poche centinaia di migliaia di lire e poi a poche centinaia di euro. Al di là dell’imbroglio, di cui non conosco le dimensioni, in pratica il “dottore” aveva venduto ai collezionisti quello che desideravano: un oggetto che credevano unico, e per farlo aveva distrutto una intera produzione. Attenzione, spesso è questo che il collezionista fa, in modo consapevole o no, contribuendo alla distruzione di ciò che colleziona. Ed ecco l’anomalia che volevo segnalare: non sarebbe meglio a questo punto parlare di amatori, piuttosto che di collezionisti? Comprendo bene il fascino esercitato dalla stanza delle meraviglie 

Foto 4


(foto 4) che già nel XIV secolo conquistava le famiglie nobili e dava una ulteriore patente di “mondanità”; ricordo anche con gratitudine (data la mia età) l’utilissima “collezione di farfalle” classico pretesto per socializzare negli anni sessanta, ma oggi occorre essere in linea con i valori e le credenze di questo nuovo secolo e tra questi valori c’è quello di preservare e non di distruggere. Fatta chiarezza su questo punto vorrei parlarvi delle centinaia di amatori che si sono alternati nel mercatino sotto i portici di piazza Augusto a Roma sotto la supervisione della organizzatrice, la signora Marion, ma ci vorrebbe troppo spazio, la cosa migliore è invitarvi a visitare questo mercato del collezionismo. Da cliente posso dire che è un piacere girare per i banchi e scoprire l’eleganza e la bellezza di alcuni oggetti che abbiamo usato da bambini senza apprezzarne la forma. Da esperto posso anche rimanere deluso dal fatto di trovare venditori ugualmente esperti e perfettamente informati e consapevoli del valore dei loro oggetti: purtroppo a piazza Augusto non riuscirò a comprare un dipinto di Picasso o di Ligabue per pochi euro. Alcuni venditori addirittura espongono oggetti preziosissimi (tipo uova di Faberger o icone originali del 1700) (foto 5) assieme ad oggetti di modernariato.

Foto 5
Ho scoperto che nella maggior parte dei casi lo fanno per cercare un rapporto con il possibile cliente, per tentarlo e coinvolgerlo nelle loro passioni. Le chiacchierate sugli oggetti diventano lezioni di storia d’arte, o di tecnica. Ci sono anche decine di orologi interessanti, funzionanti o da riparare, spesso venduti da orologiai professionisti. Quello che si acquista, al di là dell’oggetto, è l’affascinazione per la storia, la passione, spesso sincera, del venditore, che è sempre un poco restio a cederti quello che gli chiedi senza avertelo descritto per quello che per lui è. Se non sapessi che la maggior parte di quei ricavi verrà reinvestito in altri oggetti, altrettanto importanti, mi verrebbe da dire al venditore (come dice l’alcolizzato all’oste nell’antologia di Spoon River) “… come fai a venderlo? Che cosa puoi comprarci di meglio? …”. Tornando alla mia passione per gli orologi antichi, trovo molte somiglianze tra la mia voglia di conservare il tempo e le sue rappresentazioni con la passione dei frequentatori del mercatino e dell’associazione. Siamo persone forse fuori dal tempo, incapaci di vivere senza la storia, o almeno una storia. 
Foto 6

Quando troviamo un cucchiaino d’argento (foto 6) con uno stemma, comprendiamo che poi, in fondo in fondo, Tess dei D’Urbervilles non era così “strana”.



Didascalie
Foto 1: Replica di un orologio Panerai
Foto 1a: Immagine posteriore con le referenze e i numeri di serie
Foto 2: Logo di un sito che vende copie di orologi di marca
Foto 3:Il famoso “Gronchi Rosa”
Foto 4: Esposizione di oggetti antichi
Foto 5: Icona russa del 1700
Foto 6: Cucchiaini in argento, avorio e smalti


(Foto 6 dell'autore. Altre foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)

venerdì 11 febbraio 2011

La Recensione

Per Sempre di Francesco Robustelli

Sono in quotidiano contatto fonovisivo (via Skype) col mio antico compagno di scuola Marcello Finelli che, laureatosi in ingegneria, vinto un posto a Cagliari si trasferì nell’isola e ci rimase, e tuttora vi rimane. Io da parte mia presi la via della Svizzera, ma poi tornai a Roma, ove tuttora risiedo. In uno dei nostri ultimi contatti, Marcello mi informò che un nostro, pur esso antico, compagno di scuola gli aveva comunicato di aver scritto un libro, che gli avrebbe inviato per mezzo della posta: era Francesco Robustelli, psicologo e ricercatore di livello internazionale. Alcuni giorni dopo, mi telefonò un altro (vecchio) compagno di scuola, Napoleone Giordano, avvertendomi che Francesco (da ora in poi: Franco) Robustelli gli aveva telefonato avvertendolo che giovedì 10 febbraio avrebbe presentato il suo libro presso una libreria di via Reggio Emilia. Allora io telefonai a Franco Robustelli per domandargli se aveva Internet. Lo sentii gridare: “Camilla, abbiamo Internet?”. La risposta fu affermativa, ed allora gli dissi che pubblicavo sulla rete “Famiglia Moderna”, e che avrei scritto volentieri una recensione del suo libro. Non volle prendere nota del nome del nostro giornale, dicendo: “Me lo dirai in libreria”.
Con Finelli, che nel frattempo aveva ricevuto il libro, ci scambiammo le rispettive impressioni: lui aveva trovato il libro molto interessante per i suoi aspetti psicologici, ed io invece avevo trovato arido e burbero il colloquio telefonico con Robustelli. Però dissi che sicuramente il libro sarà stato scritto bene, visto che, come noi, aveva avuto “la Castelli” (la nostra professoressa di lettere nel ginnasio inferiore). Non l’avessi mai detto: Finelli mi ricordò un episodio che io avevo completamente obliterato dalla mia memoria. Che Robustelli, per colpa della temutissima Castelli, aveva avuto una crisi nervosa per cui era stato curato da illustri primari, come il professor Bollea, detto “lo psicologo dei bambini”. In effetti la Castelli era micidiale: la mattina faceva l’appello, ed ognuno di noi doveva presentare non solo il “quaderno di bella”, ma anche il “quaderno di brutta” con i compiti scritti. Ci insegnò che i settimanali in rotocalco si chiamavano “rassegne” (non riviste), e sullo slancio imparammo che quando il Duce passava in “rivista” reparti della milizia, era il Duce che stava fermo sul palco e salutava romanamente i reparti che marciavano. Mentre, quando il Duce passava in “rassegna” un reparto di Alpini, il reparto era schierato ed immobile sul “presentat’arm”, mentre il Duce transitava avanti a loro a passo di marcia, salutando romanamente. Non si dice: “Cosa fai?”, bensì “Che cosa fai?” e, del pari: “Qualche cosa” e non “Qualcosa”. “Malgrado” è un francesismo, e va detto “Nonostante”. Anche l'articolo partitivo “del, dei…” era un francesismo, e quindi: “Dei bambini giocavano in giardino…” non andava detto, bensì: “Alcuni bambini giocavano in giardino..” Anch’io temevo la Castelli: una volta, in un tema da svolgere a casa, dopo aver consultato il vocabolario scrissi: “Il debutto…..”, e trovai quella parola (evidentemente anch’essa un francesismo) corretta così: “L’esordio..”. A quel tempo, nel correggere i compiti, gli insegnanti usavano una matita rosso e blù, ma non ricordo quale, tra il rosso e il blu, veniva utilizzato per sottolineare gli errori veniali e quelli mortali. Al contrario di altri, pur ritenendo la Castelli brutta e antipatica, di tutto quello che ci disse in tre anni di Ginnasio, ricordo “tutto quanto”. Ho messo questa espressione tra virgolette, perché l’ho scritta a titolo esemplificativo. Se l’avessi scritta veramente, la Castelli avrebbe cancellato “quanto”, e con la sua voce acida avrebbe detto: “Il quanto lascialo dal quantaio”.

Alla presentazione in libreria arrivai con oltre un’ora di ritardo, e Napoleone Giordano, insieme ad un altro compagno di scuola, se n’era già andato via. I numerosi invitati erano affollati attorno ad un tavolo di dolcetti e salatini, cosicché potei parlare con calma con Franco Robustelli, che mi presentò la moglie Camilla che non avevo mai conosciuto prima. Domandai se c’era anche la sorella, della quale nutrivo simpatiche rimembranze, e dalla folla sgusciò Anna con la quale mi intrattenni per tutto il resto della serata. Benché più giovane del fratello di ben quattordici anni, ricordava per filo e per segno le giovanili disavventure del fratello alle prese con la professoressa Castelli e sapeva tutto sulle vicende della nostra sezione “E”. E fu tanto gentile di darmi la sua copia del libro che mi sarebbe servita per fare la recensione, e che, promisi, le avrei restituita. Sulla via del ritorno, mi venne in mente come e perché provai un immediato odio istintivo per la Castelli, la cui ragione scoprii una cinquantina d’anni dopo: era il primo giorno di scuola, e prima di iniziare le lezioni, la Castelli ci fece un discorsetto introduttivo, che infranse d’un sol colpo tutte le mie speranze di gloria. Ella disse che noi eravamo: “Gli operai della cultura, i lavoratori dell’intelletto”. Ed io, che venivo dal paese in cui mio padre era il “Delegato Governatoriale”, e credevo di fare il mio ingresso al Ginnasio come il piccolo lord, venivo ricacciato nella classe inferiore degli operai e dei lavoratori! Dopo circa mezzo secolo mi resi conto che quell’anno veniva abolita la Riforma Gentile ed entrava in vigore la Riforma Bottai: la scuola abbandonava la colorazione elitaria del filosofo Giovanni Gentile per adottare i modi e le maniere più popolari del ministro Giuseppe Bottai. E così veniva istituita anche una lezione settimanale di lavoro manuale, che per i maschietti della nostra classe consisteva nella lavorazione dei metalli col trapano girabacchino e la seghetta ad arco. Invidiavo le classi che facevano aeromodellismo.

Tornato a casa, assaporai la gioia di potermi coricare e leggere d’un sol colpo l’ottantina di pagine del libro di Franco Robustelli, mentre Finelli mi faceva sapere di andare avanti molto lentamente, perché doveva interpretare i significati più profondi. Affrontai il primo racconto, intitolato “l’esplorazione” che, ingenuamente credevo fosse il rapporto scientifico di una missione esplorativa realmente compiuta. E così mi meravigliai che non fosse detto in che continente avvenisse. Era comunque al dilà del fiume Iavi. Riporto testualmente: “Andremo in aereo a Saloki. Di lì un battello ci porterà fino all’estuario del Pila-na e risalirà il fiume per oltre millecinquecento chilometri. Poi proseguiremo a piedi per circa duecentocinquanta chilometri fino allo Iavi. Al di là dello Iavi, c’è la regione inesplorata”. La spedizione parte l’11 marzo, e dopo sei ore di volo giunge a Saloki. Dove sarà mai? In sei ore di volo,  partendo da Roma (ma lui non lo dice) si può giungere in qualche località egiziana, o in qualche oasi della Libia desertica. Comunque ci deve essere il mare, visto che a Saloki è pronto un battello che li porterà all’estuario del Pila-na, che dovrà essere percorso, controcorrente, per millecinquecento chilometri. Ed allora potrebbe trattarsi di una località costiera del Marocco che si affaccia sull’Oceano Atlantico. Comunque addì 15 marzo Robustelli scrive nel suo diario: “Siamo entrati nel Pila-na. Me lo immaginavo più grande. Acqua torbida, limacciosa. Sulle rive sabbiose coccodrilli che prendono il sole”. E poi, il 18 marzo: “Verso le nove del mattino siamo arrivati al punto da cui dobbiamo proseguire a piedi fino allo Iavi. Abbiamo trovato ad aspettarci i trecento indigeni che dovranno portare i viveri ed il nostro equipaggiamento. Ci sono anche quattro interpreti. Abbiamo viveri per cinque mesi”. Quindi quel battello ha percorso millecinquecento chilometri controcorrente in tre giorni? Ma neanche un aliscafo…..A questo punto comincio a pensare che si tratti di un parto della fantasia, ed ha ragione Finelli quando dice che certi significati vanno studiati in profondità. Comunque plaudo Robustelli quando una pistola la chiama, correttamente “pistola”. Infatti, rivoltella o revolver non sono sinonimi di pistola, bensì decrivono un particolare tipo di pistola: quella dei cow boys, a tamburo rotante.
Ma subito dopo arriva la mazzata. “È possibile che tutti indicassero qualcosa…” e, poco dopo: “Sul terreno fangoso, vicino alla mano, c’erano dei segni….”. Ma come, Franco: qualcosa invece di qualche cosa, e poi dei segni, invece di alcuni segni…? Ma allora la Castelli aveva ragione quando cercava di prostrarti ai suoi voleri. Ma tre anni d’insegnamento sono pochi, e tu non ti sei fatto dolcemente prostrare da quell'arpia. Devo dire che a questo punto io, che l’odiavo come tutti, ma le obbedivo, mi sono sentito un poco amareggiato e quando, assalito dal sonno, ho lasciato il libro cadere per terra, il mio ultimo pensiero fu: “Domani, se si trovano ancora, devo comprarmi una matita rossa e blu”.

PS: Su Internet troverete l’elenco completo delle opere scientifiche di Francesco Robustelli, e le indicazioni per reperire questo libro di fantasie e riflessioni xraccolte nel corso di cinquant’anni di vita, che si chiama: “Per sempre”, editore Alpes, prezzo 10€.

mercoledì 9 febbraio 2011

Il Suono del Suono: 1a parte

Di Marino Mariani

"Incidi la tua voce e spediscila a lui"

Nel 1981 Audiovisione, la rivista che allora dirigevo, pubblicò una serie di articoli intitolati "Il suono del suono", in cui spiegai quali erano i veri parametri che deteminavano il valore di un giradischi. Non il wow, il flutter o il rumble. bensì la sua capacità di afferrare il disco e proteggerlo da ogni tipo di vibrazione spuria (cioè estranea al segnale utile), sia di origine esterna, sia, principalmente, di origine interna, generate, pensate un po', dal pick-up stesso e dal solco vinilico. I nostri insegnamenti, poiché proprio in quel periodo il disco in vinile veniva soppiantato dal dischetto PCM (poi detto CD), vennero travolti dal corso degli eventi, e nessuno avrebbe mai pensato che dopo decenni e decenni, la rinascita del disco vinilico avrebbe tassativamente imposto il ripristino dei test vibrazionali introdotti da Audiovisione, e mai eseguiti in nessun'altra parte del mondo. Il testo che segue è la fotocopia del primo articolo apparso in AV/57/1981, in cui riportavamo, tra l'altro, il curioso esperimento che la rivista americana IAR aveva occasionalmente affidato ad un laboratorio federale: era l'abbozzo dei test vibrazionali che, perfezionati nei nostri laboratori, divennero il marchio di fabbrica di Audiovisione


Audiovisione n.1, febbraio 1973


Nel primo numero di Audiovisione, pubblicato in data febbraio 1973, l'editoriale d'apertura era intitolato "In nome dell'high fidelity", ed accanto a tanti buoni proprositi di natura generale, auspicava che le invalicabili difficoltà di lettura dell'intricato solco analogico venissero rimosse con l'introduzione dei sistemi numerici a larga banda, quelli che tutti ora chiamano PCM (Pulse Coded Modulation). A sostegno della tesi favorevole al videodisco "audio", nello stesso numero abbiamo pubblicato un'accurata analisi del sistema Teldec detto "TED", che si avvaleva di un pick-up a pressione funzionante a conteggio degli impulsi codificati, con una larghezza di banda pari ad alcuni MHz, impervio alla polvere e ai graffi.
Sin da quel momento sarebbe stato possibile introdurre sul mercato questo tipo di disco PCM, a bassissimo costo, con il che l'high fidelity avrebbe guadagnato non meno di un decennio di sviluppo tecnologico e di mercato. E ciò sarebbe stato possibile se la Teldec avesse sviluppato tale sistema in vista delle sue eccezionali potenzialità audio, invece che impelagarsi in una battaglia prematura e senza speranza nel campo delle applicazioni televisive a colori. Tant'è: nel numero scorso di Audiovisione abbiamo visto che il PCM oggi potrebbe arrivare nelle nostre case sotto forma di videoregistratore ccorredatato da apposito adattatore (vedi AV/56/81, articolo "Sanyo TEN-Plus PCM Processor").
Ma il primissimo numero di Audiovisione conteneva anche un articolo saggistico di W.A.Wettler, col quale avevo fatto amicizia tanti anni prima, quando era Tonmeister presso la DGG. Ed a quel tempo m'aveva confidato per quale ragione i dischi in commercio erano cattivi invece che buoni: perché da una sola matrice di stampa venivano tirate migliaia di copie, invece che quell'unico centinaio che potevano essere considerate ottimali, prima dell'iniziio del processo di degradazione della matrice metallica. Ed inoltre, invece del vinile puro, che richiedeva un tempo di lavorazione di quasi 2 minuti, veniva usato un materiale additivato, lavorabile in solo 8 s. In tutto questo frattempo, con tutti i fantastici progressi introdotti nei pick-up, nei giradischi, negli amplificatori e nelle casse acustiche, ebbene, dopo tanti anni, il possessore del migliore impianto hi-fi del mondo è ancora costretto a sentire i dischi da 8 s, di basso peso, fabbricati con materiale di scarto.
È dalla notte dei tempi che l'appassionato di high fidelity ha mostrato di essere disposto a pagare "di più" per acquistare dischi selezionati, e possiamo dire che la maggior parte dei progressi tecnologici introdotti nella catena di riproduzione sono stati finora vanificati dalla bassa quallità della fonte del suono. E se un giorno il fenomeno dell' high fidelity verrà sottoposto ad un processo storico, una storica condanna andrà comminata alla pavidità della spettabile Teldec, che s'è lasciata sfuggire l'occasione del millennio. Ed un'altra severa condanna attende le grandi case discografiche, che per interminabili decenni hanno smerciato pompose etichette invece che suono.
Ciò premesso, posso ora spiegare per quale ragione al ritorno dal WCES di Las Vegas (Winter Consumer Electronics Show, gennaio 1981), prima di entrare in argomento, ho citato i temi che la nostra rivista ha incominciato a dibattere sin dalla sua nascita: finalmente, proprio quando l'introduzione dei sistemi a larga banda (PCM), sotto qualsiasi forma, sembra più che mai incombente, finalmente dunque posso annunciare che avremo i fatidici dischi (analogici) fabbricati a regola d'arte. E sapremo come suonarli.

Il videodisco TED della Teldec

Ebbene , il momento di massimo splendore dell'analogico a noi sembra di averlo ravvisato a Las Vegas nel giradischi canadese Oracle, che introduce il concetto di "isolamento del solco", e nei dischi a strato spesso, alta massa e ciclo termico prolungato, di cui campioni e indiscrezioni ci sono stati forniti da Gary Giorgi della Mobile Fidelity (Original Master Recording) e da Ken Kreisel della spettabile Miller & Kreisel. Forse è solo un caso che questi due diversi tipi di prodotto appaiano contemporaneamente sulla scena, ma essi ci sembrano talmente coordinati e reciprocamente finalizzati che per la prima volta, in tutta la storia dell' high fidelity, l'impero della ragione e della fantasia creativa sembra prevalere sull'impero della mistificazione e della difesa degli interessi commerciali. Va riconosciuto che tutto è cominciato dalla recente introduzione dei dischi a larga banda e ad alta dinamica (direct to disc e da master PCM), i quali hanno focalizzato l'attenzione sugli amplificatori di grosso calibro. Questi elementi sono serviti a definire un nuovo stato dell'arte nel campo dell'high fidelity, ed hanno provocato una netta scissione del mercato: da una parte le grandi multinazionalli discografiche che seguiteranno a produrre per gli acquirenti del rack da 600.000 lire tutto compreso. Dall'altra c'è il mercato dell'esoterico e del semiesoterico, del trascendente e del semitrascendente, un mercato in espansione che ha già raggiunto dimensioni notevoli, tali da meritare e giustificare una produzione discografica a parte, a complemento di apparecchiature che costano fior di milioni.

Il suono del giradischi
Iniziamo la nostra rassegna dal giradischi Oracle che a Las Vegas, e nel successivo meeting internazionale di Montreal, ha raggiunto un fulmineo successo mondiale. Un successo di critiche e un successo di vendite.Le ragioni di questo successo sono facilmente identificabili nella chiarezza concettuale della filosofia di progetto, che al rigore scientifico unisce un'abilità d'esposizione di rara eleganza, merito del presidente Riendeau, giunto all'high fidelity non dalla strada, bensì da una cattedra, appunto, di filosofia. Sono diversi anni che le riviste underground parlano di suono del giradischi, e di giradischi "peggiori" (in tema di rumble e fluttuazioni) che però "suonano meglio" (Linn Sondek). Poiché i latori di questo verbo disdegnano il linguaggio tecnico-scientifico, e pongono all'apice del giudizio non tanto l'orecchio in generale, quanto il "loro" orecchio (mentre ascoltano una sinfonia di Beethoven sentono variare la distorsione in funzione dell'errore di tangenziallità del braccio), è difficile prenderli sul serio, se non a costo di un vero e proprio atto di fede. Ebbene, la chiarezza espositiva di Marcel Riendeau è ben altra, e vediamo di riassumerla.

Il solco: natura e problemi
L'informazione musicale è contenuta nei meandri e nelle tortuosità del solco, che costituisce la replica analogica dell'onda sonora proodotta e catturata nella sessione di registrazione. Il diamante di lettura vibra in accordo con la modulazione del solco, ed il pick-up trasforma queste vibrazioni meccaniche in un segnale elettrico destinato alla successiva amplificazione. Sfortunatamente il diamante di lettura legge, rivela ed invia all'amplificazione elettrica "ogni" vibrazione meccanica, di qualsiasi natura, anche quelle totalmente estranee al pacchetto d'informazioni contenute nel solco. Va da sé che lo stilo deve essere isolato da queste sollecitazioni spurie. Esso deve suonare soltanto il solco, non il disco inteso come oggetto, non il piatto rotante, non lo chassis, né deve essere inflluenzato dall'ambiente, dall'energia acustica irradiata nell'aria dalle casse, dai passi della gente, dalle vibrazioni del motore e dalle vibrazioni delle sospensioni. I fabbricanti, invece, badano più alle fluttuazioni, all'estetica e agli automatismi, e dedicano poca attenzione a questi problemi d'isolamento. E se qualche giradischi, in passato, è riuscito a produrre un suono migliore, lo è stato nella misura in cui il fabbricante è riuscito a turare una o qualcuna di queste falle. Ma nessuno ha mai individuato (stiamo interpretando le parole di Riendeau) la più letale fra tutte le sorgenti di vibrazioni spurie: IL DISCO STESSO.

Un Oracle Delphi degli anni '80

Il concetto è questo: prima di tutti l'Oracle non s'è limitata a progettare un ottimo giradischi su cui "poi" poggiare un disco e suonarlo come evento accessorio, ovvio e...fatale, bensì a considerare il disco come parte integrante del processo di trascrizione e ad includerlo nel progetto. Il vinile potrà essere il mezzo ottimale per immagazzinare informazioni in forma di modulazione analogica del solco, ma il processo di lettura eccita numerosi e gravi effetti collaterali inerenti alla natura stessa di questo materiali. Essi sono:

1. La risonanza del vinile: nel processo di lettura delle ondulazioni del solco, il diamante subisce accelerazioni laterali e verticali dell'ordine di 1000 g, che si traducono in altrettante sollecitazioni applicate alla facce del solco. Ebbene, ogni materiale possiede certe risonanze intrinseche, che vengono eccitate se gli viene comunicata sufficiente energia, ed il vinile, sotto questo aspetto, è un materiale particolarmente "vivo". Gran parte dell'eccessiva brillanza, dello stridore dei moderni impianti di riproduzione musicale, è originata dalle risonanze del vinile, eccitate dalla puntina stessa.

2. Il vinile come mezzo d'immagazzinamento d'energia acustica: il vinile è un mezzo elastico, e come una molla incamera energia quando viene compressa, e la libera quando si distende, così il vinile assorbe l'onda d'urto generata dalla lettura d'un transiente, e la rende, dopo un certo intervallo di tempo, quando si rilassa. L'effetto maggiormente avvertibile non è tanto un'eco definita, quanto una perdita generale di definizione e di dettaglio, dato che il processo continua per tutta la durata del disco.

3. Il vinile come mezzo di trasmissione di energia acustica: data la natura "viva" ed elastica del vinile, esso immagazzina parte dell'energia acustica che viaggia nell'aria (non solo la musica irradiata dalle casse, ma qualsiasi rumore ambiente) e la trasmette alla puntina sotto forma di vibrazione spuria, contribuendo alla perdita di definizione e di dettaglio, e provocando il rimbombo dei bassi.

4. Le ondulazioni del vinile (warps): si tratta di un male ben noto, anch'esso dovuto all'elasticità del vinile. I warps insidiano la stabilità dell'intero sitema di lettura, producono una variazione periodica di tono (warps wow), e in generale, introducono problemi nell'intera catena di riproduzione.
Le ondulazioni del disco si traducono in questa condizione fisica: alcune parti del disco galleggiano in aria libera, e quindi risultano infinitamente più suscettibili a qualsiasi tipo di eccitazione spuria.

Isolamento del solco
Affinché venga suonata "solo" l'informazione contenuta nel solco, il solco deve essere isolato dal resto del disco. Per ottenere ciò l'Oracle fa uso di un pressore che si avvita al capstan filettato del giradischi, di uno speciale tappetino liscio (che da ora in poi chiameremo "mat"), e di un rialzo conico, attorno al capstan, che serve a distanziare il centro del disco dal mat. Per capire il funzionamento di questo dispositivo d'accoppiamento, prendiamo di mira i quattro diagrammi che seguono:


Diagrammi per l'isolamento del solco

1. Questo diagramma, in forma esagerata, mostra un disco ondulato poggiato su un giradischi qualsiasi munito di un classico mat scanalato. Si vede che a causa dei warps e delle sacche d'aria incluse nel mat scanalato, il contatto tra il disco e il giradischi è solo parziale, ed il disco è completamente libero di vibrare e risonare in risposta alle sollecitazioni meccaniche esterne ed alle onde d'urto generate dalla puntina stessa.

2. In questa seconda figura si può osservare il primo stadio del processo d'accoppiamento del disco al giradischi Oracle: il distanziatore centrale fa sì che il disco penda da un lato.

3. Ma se sulla zona dell'etichetta esercitiamo, per esempio a mano, una leggera pressione, questa si traduce in una pressione uniforme distribuita su tutta la superficie del disco.

4. Ed ecco lo stadio finale del processo di accoppiamento al giradischi Oracle: il pressore viene avvitato al capstan del giradischi ed esercita una pressione uniiforme sulla periferia della zona dell'etichetta, e quindi lavora contro l'apice del cono distanziatore centrale. Ne consegue che tutta la zona utile del disco viene spinta contro il mat liscio, e vi aderisce per suzione, visto che sotto al disco si forma un vuoto parziale.

Prrima di proseguire sarà bene dare informazioni sulla speciale natura del mat dell'Oracle. Innanzitutto esso è liscio per evitare che si formino sacche d'aria risonanti. Inoltre è fatto d'un materiale speciale ad altissimo smorzamento interno, che si presenta superficialmente viscoso (intendiamoci bene: se uno ci preme sopra con un dito, rimane appiccicato). Inoltre ha un diametro leggermente inferiore a quello di un LP normalizzato in modo che la superficie di contatto è tutta e soltanto quella modulata, e dal contatto rimane escluso il bordo (leggermente ingrossato) del disco, nonché la zona centrale tenuta separata dal mat in virtù del distanziatore.
E così la zona utile del disco, quella che contiene i solchi modulati, risulta compressa e letteralmente incollata al mat, il quale ha il compito di assorbire e smorzare tutte le vibrazioni impresse al vinile "prima" che vengano ritrasmesse al vinile, e quindi alla puntina. È in questo modo che si effettua l'isolamento del solco, e il diamante può leggere l'informazione musicale senza essere turbato da nessun'altra vibrazione spuria.
È chiaro che il concetto di isolamento del solco, e il dispositivo adottato per attuarlo, costituiscono solo il nucleo centrale del sistema filosoofico Oracle. Vediamo come questo sistema si estenda puntigliosamente a tutti gli altri elementi del giradischi.

Il piatto rotante
Il piatto dell'Oracle è tornito in una speciale lega ad alta rigidità e resistenza di magnesio/alluminio, lega con cui è costruito anche tutto il resto del giradischi. Esso è disegnato in forma di volano, con la massa concenrrata sul bordo in modo da rendere massimo il momento d'inerzia, allo scopo di prevenire il flutter indotto dalla lettura dei transienti. Infatti quando il diamante di lettura attraversa un transiente di grande ampiezza, la forza che si genera è abbatanza elevata da rallentare il piatto rotante, ed in questi casi ogni dispositivo di servo controllo è completamente inutile perché effettua la correzione quando l'errore è già passato. Il piatto rotante di un giradischi viene in genere realizzato in metallo, e presenta una vasta area supericiale, è quindi particolarmente soggetto a risonanze e alle vibrazioni meccaniche. In molti casi lo smorzamento del piatto viene affidato interamente alla mercè del tappetino (mat) che lo ricopre, ma chiaramente in un sistema ottimizzato anche il piatto rotante deve essere intrinsecamente non risonante. E pertanto il bordo del piatto dell'Oracle reca un inserto speciale fatto d'uno speciale composto elastico spugnoso denominato Peripheral Wawe Trap, che fa da assorbitore d'onda per tutte le vibrazioni che attraversano il piatto. Queste bande d'assorbimento periferiche, unite alla caratteristica di bassa risonanza intrinseca della lega al magnesio/alluminio, danno luogo ad un piatto rotante vistosamente meno risonante di qualsiasi altro. Basta picchiettare sul piatto dell'Oracle e su quelli più o meno argentini degli altri giradischi, per constatare che esso è elasticamente "morto".

Il subchassis
Lasciamo perdere la descrizione del perno rotante lavorato a specchio e del suo sistema di supporto: basta dire che l'intero dispositivo utilizza materiali di varia durezza, dai 70 ad oltre 90 gradi Rockwell, poggia su una punta di carburo di tungsteno contrastata da una piastra di controspinta ancora più dura, e cioè in carburo di tungsteno superficialmente nitrurato (92 Rockwell), ed utilizza un complesso sistema di cuscinetti di nuovo disegno che disperde nel subchassis ogni vibrazione di moto del piatto rotante. E passiamo al subchassis costruito nel modo più esoterico che si possa immaginare, e cioè in un compensato a 7 strati così formato: 4 strati in lega al magnesio/alluminio con inframezzati tre strati di uno speciale collante, il tutto unito in un'unica struttura estremamente rigida ed elasticamente "morta", formata ad altissima pressione. Il collante interposto fa evidentemente da diaccoppiatore e smorzatore delle vibrazioni che tentano di trasmettersi tra uno strato metallico e l'altro.
Altro elemento esoterico del subchassis è costituito dalla sua geometria, studiata per minimizzare la superficie esposta, che agisce come il diaframma d'un microfono suscettibile al campo d'onde circostante. Inoltre s'è studiata la concentrazione della massa attorno all'asse centrale, in modo da assorbire e dissipare ogni vibrazione proveniente dal perno rotante. In generale si può dire che tutto il problema della distribuzione della massa è stato studiato in modo che il subchassis non dia alcun contributo proprio in tema di indesiderate colorazioni, assorba le vibrazioni, e si integri opportunamente col sistema delle sospensioni, ognuna delle quali ha un differente coefficiente di elasticità, in modo che tutto l'insieme flottante risulti esattamente sintonizzato sulla frequenza prestabilita. Nel disegno del subchassis è stato compreso anche il metodo di montaggio della piastra base del braccio. Il concetto è stato quello di includere questa piastra nei confini rigidi e inerti di un'estensione circolare del subchassis stesso. Ciò consente di minimizzare la tendenza della piastra base ad agire come un diaframma (microfonico), e a tenerla alla stessa quota (geometrica) del subchassis, e così la massa del braccio viene meglio integrata nella massa complessiva dell'insieme flottante (massa sospesa) e meglio controllata dal punto di vista del problema generale della distribuzione delle masse. Queste considerazioni hanno portato all'esclusione del sistema consueto di montaggio su una tavolaetta esterna ai confini del subchassis. Per garantire che il montaggio del braccio non venga ad interferire con la sintonizzazione del sistema di sospensioni elastiche, vengono fornite molle accessorie da utilizzare in congiunzione di bracci dal peso inusitato. Ci risulta inoltre che gli esemplari di prossima importazione saranno muniti di un contrappeso, che non appare nei disegni attualmente in nostro possesso. Infine, la conformazione circolare della base del braccio consente di utilizzare bracci di differente lunghezza, basta farla leggermente ruotare attorno al suo asse fuori centro.

Le sospensioni
Se in quanto precede i lettori hanno ravvisato alti motivi d'interesse, il sistema di sospensione del giradischi Oracle merita poi tutto uno studio a parte. Essi stessi si vantano di aver realizzato"un capolavoro di funzionale eleganza". Lo scopo fondamentale d'un sistema di sospensionii è quello di agire come un filtro nei riguardi delle vibrazioni esterne. Le sospensioni agiscono come un filtro passa-basso, che taglia le frequenze vibrazionali esterne al di sopra della propria frequenza d'accordo. Più bassa è la frequenza d'accordo (risonanza) delle sospensioni, maggiore è la quantità d'energia esterna cui viene sbarrato l'ingresso nel sistema. La sospensione dell'Oracle, come abbiamo visto, è del tipo a subchassis flottante, ed è sintonizzata sulla frequenza di 3,5 Hz. Sia nella sua concezione globale, sia negli aspetti particolari, essa differisce profondamente da ogni cosa vista sugli altri giradischi. Probabilmente la caratteeristica maggiormante distintiva, rispetto agli altri giradischi, sta nel fatto che il baricentro della massa sospesa (subchassis flottante) giace esattamente alla stessa quota dei punti di fissaggio delle molle, il che rende l'apparato di lettura immune dai modi di vibrazione orizzontali che si generano nel giradischi per esempio quando il piatto si mette in moto, o per qualsiasi altra causa esterna. Quando il centro di gravitò del sistema sospeso non giace sullo stesso piano dei punti di fissaggio delle delle sopensioni, qualsiasi perturbazione esterna tende a trasformare questi ultimi in punti fissi attorno ai quali si eccitano moti di rotazione. Questo effetto è grandemente ridotto nell' Oracle, che pertanto si configura come un sistema flottante intrinsecamente stabile, largamente immune agli urti provocati dal trapestio e dalla gente che smanetta attorno all'impianto, e ai moti indotti di natura rotatoria. Questo allineamento consente inoltre di compensare lo spostamento laterale del subchassis normalmente provocato dalla cinghia (l'Oracle ha una trasmissione a cinghia), semplicemente piazzando la puleggia sullo stesso piano e regolando di conseguenza le molle.
Le molle con cui è realizzato il sistema di sospensione sono del tutto inusitate. Esse hanno una forma a campana, con una sezione superiore fatta di spire di piccolo diamentro che poggiano su un manicotto di polietilene munito di una sistema di assorbimento in gomma. Segue una sezione intermedia, in cui il diametro delle spire di poco aumenta scendendo verso il basso. Ed infine una sezione inferiore, in cui le spire si espandono considerevolmente verso l'esterno, e nella quale ha sede il supporto in polietilene. La forma a campana previene la formazione di risonanze tipiche delle molle cilindriche, e non presenta le illinearità di quelle coniche.
Regolazione delle molle
Altro fatto di fondamenatale importanza è che le molle sono fortissimamente disaccoppiate dal loro stesso sistema di d'alloggiamento. Quest'ultimo è realizzato mediante due diversi materiali: il supporto in polietilene cotituisce l'isolatore primario tra le molle e l'insieme sospeso, tuttavia esso è ulteriormente isolato dalla sezione superiore dell'alloggiamento delle molle e dai supporti del subchassis mediante uno strato di speciale gomma spugnosa. Questa gomma e questo polietilene costituiscono un'efficace barriera che impedisce il trasferimento al subchassis delle vibrazioni delle molle. Un altro vantaggio di questo disegno è che la gomma spugnosa smorza, inoltre, l'alloggiamento stesso delle molle. Ed infine va notato che questo strato spugnoso costituisce effettivamente un'altra molla che agisce in congiunzione con la molla principale, ma in senso opposto: quest'ultima agisce verso il basso in espansione, mentre la gomma agisce verso l'alto in compressione. La combinazione di tutte e due costituisce un sistema a doppio effetto che contribuisce efficacemente alla realizzazione'isolamento del solco.
Nel suo insieme la configurazione di questo sistema di sospensione presenta un altro grosso vantaggio di carattere pratico: la vite di livellamento spunta dalla parte superiore dell'alloggiamento delle molle, e così il sistema di regolazione e livellamento del subchassis è facilmente accessibile dall'alto, e quindi tutte le regolazioni avvengono con la massima facilità, in vero tempo reale, al contrario degli altri giradischi in cui bisogna smontare il fondo del basamento ecc. Ed inoltre, negli altri giradischi, l'operazione di regolazione delle sospensioni (livellamento) consiste in pratica nell'allentare o comprimere le molle stesse, con conseguente variazione del tutto incontrollata delle realtive frequenze d'accordo. Nell'Oracle l'operazione di messa a livello, vale a dire la rotazione delle apposite viti, fa spostare l'intero alloggiamento lungo un asse filettato, senza minimamente variare lo stato di tensione delle mollw. E quindi quest'operazione non influenza la frequenza d'accordo del sistema.

Motore, puleggia e cinghia
L'Oracle è equipaggiato con un motore Papst costruito su specificazione, in corrente continua, a coppia bassa ma più che adeguata alla bisogna, in modo d'avere un basso contenuto di vibrazioni. Molto silenzioso essendo del tipo senza spazzole. Tuttavia tutti i motori vibrano, pertanto esso è stato montato sulla piastra base in maniera da risultare totalmente disaccoppiato dall'apparato di lettura, col quale interagisce solo mediante la cinghia di trasmissione, che d'altronde agisce da filtro naturale.
La puleggia del motore è tornita di precisione in lega d'ottone. La sua sezione ovalleggiante dà maggior stabilità e consente l'autocentramento della cinghia. La cinghia è realizzata in etilene propilene, e viene ottenuta mediante un processo di formazione per iniezione, d'alta precisione, che la rende autoallineata (non si torce). Le variazioni superficiali e le tolleranze sono trascurabili. La cinghia è stata scelta per massimizzare il trasferimento della coppia, la sua tensione è stata scelta in modo da minimizzare la trasmissione delle vibrazioni e ridurre l'usura dell'albero motore.

Uno strano test
Abbiamo speso tutte le nostre energie intellettive per ricostruire nei minimi particolari ogni passo della filosoffia costruttiva dell'Oracle, e crediamo che il costruttore in persona non avrebbe potuto dire di più. Da quanto precede si vede che il costruttore s'è preoccupato di tutto, veramente di tutto, tranne che delle cosiddette "specificazioni" del suo giradischi, vale a dire di quei numeri che, secondo le norme internazionali, e secondo "l'abietto tecnicismo" di tanti recensori, dovrebbero stabilire il "merito" dell'apparecchio. Ebbene, parrebbe altresì che la normativa internazionale, nel caso sppecifico dei giradischi, sia essenzialmente fuorviante, o per lo meno inadeguata, in quanto focalizza l'attenzione su parametri d'importanza relativa e ne trascura altri che, come la microfluttuazione indotta dalla lettura dei transienti forti, sembrano il frutto della pacifica follia di alcuni melomani dalle orecchie di pipistrello.
Questi folli ma utili melomani scoprirono per primi la distorsione degli amplificatori senza distorsione, vale a dire la distorsione d'incrocio degli amplificatori a transistori, che intesero come affaticamento d'ascolto prolungato. La normativa internazionale seguita ad ignorare ufficialmente questo tipo di distorsione, mentre i nosri lettori ben la ravvisano nelle nostre analisi spettrali.
E per i giradischi dovremo seguitare a collezionare le sentenze (medianiche) dei profeti, o escogitare qualche nuova misura di laboratorio per render conto, per esempio, dell'isolamento del solco, che per ora, più che un parametro, è un concetto? Ebbene, una rivista americana, IAR (International Audio Review), ha fatto un grosso passo avanti nel campo di queste misure esoteriche, e ha misurato l'isolamento del solco...come tale! E cioè ha poggiato un pick-up su un solco intermedio, a metà del disco, possibilmente nell'intervallo tra un brano e l'altro. Poi ha impartito un urto normalizzato, inclinato di 45°, sul bordo del disco, e ha registrato su grafico l'impulso elettrico in uscita dal pick.up, provocato dalla vibrazione artatamente impressa. È così che la rivista IAR ha potuto provare scientificamente ciò che era nell'orecchio di tutti, e cioè che il Linn Sondek aveva le sue brave ragioni tecniche per suonare meglio degli alri giradischi, presentando un isolamento del solco infinitamente migliore di quello di tutti gli altri competitori. Si può ben dire che il Linn Sondek aveva facile gioco sugli avversari, in quanto nessuno di essi aveva avvertito l'essenza del problema. Ebbene, adesso noi pubblichiamo tre grafici tratti da un numero di IAR, di cui uno mostra la risposta all'inpulso meccanico di un giradischi tipico della produzione corrente. Il secondo mostra la risposta, infinitamente migliore, del Linn Sondek. Il terzo  grafico ridicolizza il Linn Sondek e lo fa apparire come l'elefante in un negozio di porcellane, ed è il grafico relativo all'Oracle.

Test vibrazionale d'un giradischi "NN"

Test vibrazionale del Linn Sondek

Test vibrazionale dell'Oracle

Il suono dei dischi
Le critiche alle grandi case discografiche sono diventate un argomento del tutto comune, hanno solo il torto di provenire dagli utilizzatori delusi, dalle riviste di alta fedeltà, quindi da una sola parte della barricata, lasciando del tutto indifferente la controparte. È quindi d'estremo interesse seguire l'attività delle nuove piccole case discografiche, vivaddio in rapida crescita, che si sono dedicate alla produzione di veri e propri dischi "high fidelity". Alcune di queste (Sheffield, Telarc, Miller&Kreisel) sono note ai nostri lettori per aver introdotto sistemi nuovi di registrazione (direct to disc o master PCM a 16 bit), con il che, a prescindere dal grado di manifattura, era il contenuto musicale vero e proprio, a larga banda e ad alta dinamica, a creare stupore ed ammirazione. Accanto a questi pionieri si stanno ora evolvendo altre case che non curano direttamente la registrazione, si sono bensì specializzate nella riedizione a tiratura limitata di registrazioni già consacrate dal successo, registrazioni effettuate e lanciate da qualsiasi grossa casa discografica, magari di quelle più vituperate dagli appassionati di high fidelity. Ebbene, tutte queste nuove case si stanno muovendo per conquistare un nuovo mercato selezionato ma ricco, che offre suggestive prospettive in cambio di solide garanzie. Le nuove case sono addirittura ansiose di fornire queste garanzie, e pertante battono con incredibile...vivacità sugli argomenti che le differenziano dalle grandi case commerciali. Per la prima volta l'appassionato di high fidelity può consolarsi di non essere il solo ad inviare anatemi agli indirizi ben noti: adesso i produttori di riedizioni di pregio a tiratura limitata portano in piazza argomenti che finora erano stati pietosamente celati. Cominciamo intanto a presentare un nome nuovo, quello della giapponese YSL Records, che ha un ricchissimo repertorio che va dagli ABBA a Warren Zevon passando per i Beatles e i Rolling Stones.

YSL Records of Japan
A Las Vegas la YSL Records ha distribuito. accanto al proprio catalogo, questa dichiarazione che riportiamo integralmente: Perché acquistare l'edizione giapponese YSL? La ragione sta nell'ascolto. Fa' questo semplice esperimento: prendi un album che ben conosci e confronta l'edizione americana con la sua controparte giapponese. La differenza ti meraviglierà. Udrai un'estensione dinamica molto maggiore, meno distorsione, una risposta in frequenza più piatta ed estesa, alti più nitidi e bassi più precisi, nell'edizione giapponese. E sarai incantato da quello che non udrai, nel disco giapponese. Niente pops, niente clicks, niente di quell'irritante rumore di superficie. La musica emerge da un sottofondo di silenzio virtuale.In breve, la versione giapponese suona più prossima alla cosa reale. Perché? Perché l'edizione tipica americana usa un vinile che è solo parzialmente (diciamo al 60%) vergine, il rimanente vinile è merce riciclata, per lo più infestata di capelli, cenere di sigarette, ditate di grasso ed ogni sorta di materie estranee. Roba che ritrovi nel suono. L'edizione giapponese è garantita al 100% di vinile vergine. Inoltre il nostro vinile è di una qualità che in America non può essere ottenuta. I dischi stampati in America in genere vengono pressati ad alta velocità e ad alto volume, in modo da produrre la maggior quantità nel minor tempo possibile, al diavolo la quallità. Ma gli album giappponesi sono immutabilmente stampati in piccole quantità, dandogli il tempo di raffreddarsi opportunamente (consentendo ai solchi di stabilizzarsi e riducendo la possibilità di ondulamento), e sottoponendoli a controlli di qualità accurati e frequenti. Gli album americani sono fatti per un mercato di massa che non bada al suono. Quelli giapponesi per l'audiofilo raffinato. Chiunque tu sia, se hai investito molto tempo e denaro nel tuo impianto high fidelity, e se vuoi ottenere il meglio dal tuo denaro, non faticherai ad accorgerti dell'incredibile differenza di suono che puoi avere da un'edizione giapponese. Fa' il confronto tu stesso. Un mondo di piacere sonoro ti attende.

Mobile Fidelity
La Mobile Fidelity, che è la prima al mondo nel campo delle riedizioni di altissimo pregio, e che è titolare dell'etichetta Original Master Recording, usa un linguaggio più pacato ed ancor più convincente: come si fa un LP Original Master Recording? Il segreto è tutto riposto nella maniera con cui gli Original Master Recording vengono fatti, con un procedimento del tutto diverso dagli altri...che richiede infinitamente più tempo. Le maggiori case discografiche sono in affari per produrre una gran quantità di musica destinata ad un numero tremendo di persone. È un business di grossissima portata, in cui l'edizione di milioni di copie di un solo album sono tutt'altro che infrequenti. A questo livello, il tempo e i costi di lavorazione devono essere tenuti rigidamente sotto controllo, ed in tal contesto si può incidere una lacca master, che è il primo passo per giungere al disco finale da porre in vendita, in meno d'un'ora Ed invece occorre un minimo di tre mesi per fare un Original Master Recording. E tutto questo tempo in più si traduce in un impressionante miglioramento della chiarezza sonora. Nell' Ouverture 1812 di Ciaikowsky non solo udrete gli otto violoncelli, ma anche lo spazio tra essi e l'aria attorno a loro. Nel "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd sarete finalmente in grado di ascoltare e distinguere il bisbiglio più tenue, i più enigmatici effetti sonori, e fare l'esperienza dei passaggi di silenzio totale ed assoluto...senza snaps, crackles, buzzes e pops (sic). Per far ciò, la Mobile Fidelity Sound Lab utilizza il suo procedimento esclusivo di mastering a mezza velocità. Ciò dà il doppio del tempo al sistema, per catturare ogni dettaglio, ogni sfumatura di suono proveniente dal nastro master originale (mai di seconda o terza generazione), e trasferirli accuratamente nel solco. Nel contempo, il procedimento a mezza velocità esclusivo della Mobile Fidelity utilizza solo un quarto della potenza che viene impiegata nel normale processo di taglio in tempo reale. E così gli amplificatori che alimentano la testa d'incisione non vengono mai spinti in saturazione, il che dà spazio per un intervallo dinamico di gran lunga superiore, per una superiore risposta in frequenza complessiva, ma specialmente nella parte alta dello spettro, e per una migliore separazione stereofonica. In questo processo sono banditi trasformatori e limitatori, e non viene introdotto nulla che possa distorcere e comprimere il vivente sonoro di un Original Master Recording. Dopo che la lacca madre è stata incisa, essa viene immediatamente protetta in frigorifero. Poi vengono prodotte le matrici metalliche e gli stampi per produrre la copia finale. Ci vuole più di un mese prima che le matrici metalliche possano essere ascoltate e valutate.

"The dark side of the Moon" dei Pink Floid
Poi si passa alla stampa. Non su vinile ordinario, ma su un materiale conosciuto come Super Vinile. La Victor Company of Japan (la JVC di Yokohama) è l'unica ditta al mondo che produce questo materiale d'alto grado. Il Super Vinile dà una superficie ultra silenziosa, è più pesantee e più duro del vinile ordinario e non ha "memoria": potete suonare un Original Master Recording per ore ed ore senza doverlo mettere a riposo dopo ogni sonata. Quando un disco di vinile ordinario viene suonato ripetutamente, le facce del solco, al passaggio dello stilo tendono a snervarsi e a distorcersi, con evidente deteriorazione del suono. Il tempo di vita di un Original Master Recording è, come minimo, quattro o cinque volte maggiore di quello di un LP ordinario.
Potremmo seguitare a lungo nella citazione di queste dichiarazioni ufficiali, ma riteniamo che quanto abbiamo riportato già risulti tranquillizzante per l'appassionato di high fidleity. Il quale vede altresì giustificato il prezzo di questi dischi, che è almeno triplo di quello dei dischi di normale produzione. Si tratta infatti non di dischi "selezionati", bensì di dischi prodotti con metodi diversi e particolari. Va fatto incidentalmente notare che i dischi di normale produzione non vengono mai prodotti a partire dal nastro master originale, il quale viene messo subito in cassaforte, e ciò che viene fatto circolare per i vari laboratori d'allestimento delle matrici e degli stampi solo nel caso migliore è una copia di seconda generazione, più frequentemente di terza o quarta, con tutta la degradazione che ciò comporta. E quindi la speciale garanzia della Mobole Fidelity, e delle altre case che seguono la stessa politica, non sta solo nella manifattura del disco, ma anche nel contenuto musicale, che parte dal master originale. Orbene, oltre alla cura d'ordine superiore riposta nell'allestimento delle lacche, il segreto dei nuovi dischi sta nella manifattura stessa del disco. Da quanto abbiamo detto a proposito dei dischi stessi, e dalle nozioni apprese nell'esposizione della filosofia costruttiva dell'Oracle, uno dei maggiori appunti rivolti al vinile ordinario e ai tempi di lavorazione è quello di dar luogo ad un prodotto finito risonante, elasticamente vivo ed affetto da perniciose forme di memoria termica. Il che significa che il disco è affetto da tensioni interne che non consentono di formare il solco a regola d'arte, ed inoltre il solco comunque stampato non è stabile: non solo gli urti meccanici subiti dallo stilo, ma il calore sviluppato per attrito e per la componente anelastica degli urti, portano il solco fuori forma, e buona parte di tali deformazioni non sono recuperabili nel tempo (isteresi termica), e si risolvono in deformazioni permanenti e irreversibili. L'instabilità termica dei dischi (e di tutti gli stampati in plastica) può essere illustrata mediante un'analogia di carattere meccanico: se poniamo una sferetta sul fondo di un recipiente curvo, e la spostamo dalla sua posizione di riposo, essa tende a ritornarvi e dopo qulahce oscillazione si ferma nella posizione originaria (equilibrio stabile). Se invece poniamo la sferetta in equilibrio in cima ad una superficie convessa, basta la minima perturbazione perché questa rotoli via e non si faccia più vedere (equilibrio instabile). Ebbene, lo stesso vale per i dischi ordinari stampati in otto secondi: essi si trovano in equilibrio termico instabile, ed approfittano della minima sollecitazione (termica) per deformarsi, cioè per allontanarsi dalla forma, instabile, frettolosamente conferitagli (e di malavoglia assunta). Il presidente della Mobile Fidelity, Herb Belkin, consiglia di fare il seguene esperimento: prendete un vecchio LP che non vi va più di ascoltare, e versategli addosso una caraffetta di acqua bollente. Lo vedrete accartocciarsi su se stesso, il che è prova di instabilità intrinseca.

Il disco pesante
Questa instabilità è industrialmente accettata, per esempio nella fabbricazione dei bicchierini di plastica da picnic, che si gettano via invece che metterli in lavatrice. Non può essere invece accettata in un prodotto sì delicato, e d'altissima precisione quale il disco genuinamente high fidelity. Ebbene, oltre alla scelta d'un materiale d'alto grado (Super Vinile, vale a dire vinile vergine al 100%), ciò che è necessario per un disco di precisione, elasticamente morto (non risonante) e termicamente stabilizzato, è un ciclo termico prolungato, ed una quantità di materia, al di sotto della quale non è possibile garantire tutte le altre qualità. Un disco qualsiasi, a ciclo termico rapido, pesa sì e no 100 g. I dischi di prossima produzione della Mobile Fdelity, stampati nello speciale impianto della JVC di Yokohama, peseranno 180 g e proverranno da un massello di ben 210 g (invece che da palline di granulato). Ma la stabilità definitiva proverrà da un ciclo termico di ben 300 s (5 minuti). Inoltre lo spessore del disco è maggiore, per consentire l'incisione di solchi profondi tre volte più che il normale. In un supporto di tal calibro le facce del solco vanno viste come pareti assolutamente rigide, scolpite con assoluta precisione in modo da catturare ogni nuance sonora, ed in modo da garantire la perfetta relazione tra le fasi stereofoniche, capaci di reazioni meccaniche assolutamente elastiche, e quindi indeformabili dal punto di vista meccanico oltre che termico. Nel suo complesso il disco va visto come una massa inerte e stabilizzata, priva di colorazioni di risonanza. Si tratterà di un oggetto egualmente suscettibile ai graffi e alla polvere, però molto resistente all'usura. Esso nasce perfetto, viene consegnato perfetto nelle mani dell'acquirente (con tanto di garanzia), e rimarrà perfetto finché viene trattato con la dovuta cura. Al contrario dei dischi che ci sforziamo di acquistare "sigillati", che poi hanno più difetti di natura che quelli comprati alla rinfusa. Secondo una raccomandazione del presidente Belkin, la notizia di questi dischi, che saranno posti in commercio a primavera, avrebbe doovuto rimanere riservata. Ma poi, il vicepresidente Gary Giorgi s'è mostrato più di manica larga, ed ha finito per farci omaggio di una paio d'esemplari fuori commercio. Uno di questi contiene il Bolero di Ravel diretto da von Karajan, ed è di particolare importanza, perché così lo possediamo in tre versioni (della Mobile Fidelity). E cioè nella versione attualmente in commercio (110 g, ciclo termico di 90 secondi), nella nuovissima versione in cassetta (di cui vi parleremo fra breve), ed infine in questa edizione da 180 g. Ebbene, il Bolero di Ravel è uno di quei brani che si ascoltano con attenzione una sola volta nella vita, perché se ne impara subito il motivetto. Discograficamente parlando, poi, è un'opera improba, perché si tratta di un crescendo continuo, che nasce da un pianissimo, che diventa un fortissimo in maniera estremamente graduale, cioé nell'arco di ca. 20 minuti. Normalmente il pianissimo viene alzato, perché si confonde con il rumore superficiale del disco, mentre il fortissimo viene abbassato di livello per evitare escursioni troppo violente della puntina. E così il Bolero discografico non ha più niente a che fare con la partitura di Ravel, che è un continuo sviluppo dinamico, armonico e timbrico. Ad ogni refrain intervengono nuove sezioni strumentali ed il tema, che sembra sempre monotonamente ripetuto, s'arricchisce invece di finissime varianti. Ebbene, in queste tre edizioni della Mobile Fidelity, finalmente il Bolero diventa un pezzo da dimostrazione, da ascoltare e riascoltare con vero interesse musicale, come si trattasse di un'inedita gemma da scoprire e riscoprire. E lo è. La prima volta che l'abbiamo ascoltato, nell'edizione da 180 g, in una stanzetta semisegreta del Jockey Club di Las Vegas, non ci siamo assolutamente accorti dell'inizio del disco: il pianissimo era tanto lieve che sembrava suonato nella stanza accanto, e solo dopo diverse battute ci siamo accorti che il suono proveniva dal disco che girava sotto i nostri occhi.

Le cassette "Original Master Recording"
Non abbiamo ancora terminato il discorso sui nuovi dischi high fidelity, tuttavia a questo punto dobbiamo dire che il colpo grosso a Las Vegas la Mobile Fidelity l'ha fatto nel campo delle cassette, lanciando le cosiddette "Original Master Recording High Fidelity Cassettes". Si tratta di cassette esoteriche, prodotte con la stessa cura dei dischi. Innanzitutto è stato utilizzato un supporto di sicuro affidamento, e cioè la cassetta BASF Professional ii al biossido di cromo ad alta polarizzazione (high bias), che offre una superba risposta in frequenza, una particolare sensibilità nella zona critica degli alti (tra 10 e 20 kHz), con un runore di fondo estremamente basso. La parte meccanica, poi, è del tutto originale ed offre le massime garanzie anti wow e anti flutter.
Ma l'esoterico di queste cassette non si ferma al supporto: esse vengono trascritte una per una dal nastro master originale (quello che le grandi case discografiche tengono in cassaforte), negli speciali impianti della Mobile Fidelity di Chatsworth (California), con un processo di duplicazione in tempo reale (1:1. Per vostra informazione le cosiddette "musicassette" (o, più in generale le cassette "preregistrate") si ottengono inviando una copia di terza o quarta generazione del master originale ad un laboratorio periferico specializzato, che prende in appalto l'intero processo di moltiplicazione ad alta velocità, sul supporto più economico reperibile in commercio. Le cassette Original Master Recording della Mobile Fidelity sono inoltre codificate Dolby, e tirate in edizione ovviamente limitata.
Secondo Gary Giorgi, queste cassette costituiscono un approccio al master originale addirittura superiore ai loro dischi Original Master Recording da 110 g e 90 s di lavorazione, mentre i dischi da 180 g e 300 s di ciclo termico sono destinati a costituire uno standard superiore a quello delle cassette, I prezzi aumentano di conseguenza. Per quanto riguarda il nostro giudizio, al momento di scrivere questo articolo abbiamo fatto a tempo ad ascoltare, nel nostro laboratorio ed in condizioni critiche, solo la cassetta dei Pink Floyd "The Dark Side of the Moon", che rivela una dinamica veramente straordinaria.
Orbene, noi non vogliamo suggestionare nessuno (sembra vero!), ma nei nove anni di vita di Audiovisione abbiamo constatato che il sogno di colui che ha investito una fortuna in un impianto high fidelity, o è disposto a farlo alla prima occasione, è quello di avere accesso ai nastri originali e farsene una copia a regola d'arte. Sia ben chiaro: una copia di prima generazione. Ebbene, direi che questo sogno è ora realizzato, e queste cassette, essendo realizzate in specialissimi laboratori, in teoria potrebbero essere superate solo da copie professionali a 38 cm/s. In pratica, risultati migliori si possono attendere solo dall'avvento del PCM.

Ken Kreisel e "DBX"
La validità cncettuale del disco "pesante" a ciclo termico lungo è implicitamente confermata dal fatto che un po' tutti i fabbricanti di dischi esoterici sono orientati a percorrere la stressa strada. Abbiamo già visto che il discorso della Mobile Fidelity conferma in pieno le temerarie asserzioni della YSL of Japan, in particolare a proposito del cosiddetto Super Vinile e dei mirabolanti impianti di stampaggio della JVC di Yokohama. Ad essi si aggiunge la voce di Ken Kreisel che, come c'era d'aspettarsi, rincara la dose con un'ardita variante: entro la primavera usciranno i dischi pesanti, a strato spesso e a ciclo termico lungo della spettabile Miller&Kreisel, fabbricati in Super Vinile a cura dell'altrettanto spettabile JVC di Yokohama ma, attenzione, a 45 giri e codificati "DBX".

Una Limited Edition 20 Bit digital remaster di Ken Kreisel
I vantaggi dell'incisiione a 45 giri sono noti ed evidenti: a velocità maggiore le lunghezze d'onda s'allungano e le accelerazioni si riducono, diminuisce quindi lo stress dello stilo incisore (nonché del diamante di lettura), a tutto vantaggio della precisione di taglio della lacca, e quindi della dinamica e della separazione stereofonica, a vantaggio altresì dell'abilità di tracciamento della puntina. Direte che tutto ciò è a svantaggio della durata del programma, ma qui Ken Kreisel gioca la sua carta più alta: la codificazione "DBX"introduce una curva d'equalizzazione virtuale supplementare alla curva d'equalizzazione RIAA, che contribuisce alla riduzione delle ampiezze di modulazione analogica a bassa frequenza. Il che consente di infittire i solchi e recuperare la durata. Approfittiamo dell'occasione per ricordare che, al contrario della YSL e della Mobile Fidelity, la Miller&Kreisel produce in proprio registrazioni originali, utilizzando un sistema PCM Sony codificato a 16 bit. Queste registrazioni possiedono in partenza una dinamica ed una risposta a bassa frequenza nettamente superiori a quanto di meglio possa essere prodotto con l'analogico (vedi l'articolo "Sanyo PCM Processor" in AV/56-81). Per trasporre queste caratteristiche intrinsecamente trascendenti del PCM in un solco analogico, bisogna fare i conti con le maggiori ampiezze dovute all'effetto congiunto della dinamica e dell'estensione a bassa frequenza. La scelta dei 45 giri e della codificazione "DBX" è quindi estremamente ragionevole, ed infatti egli afferma che solo così si può ottenere su disco il miglior approccio all'originale in PCM. È pertanto da prevedere che l'uso del "DBX" si generalizzi, e segnaliamo ai nostri lettori l'opportunità di procurarsi sin d'adesso l'apposito decodificatore. Ed infatti, in attesa dei dischi pesanti a 45 giri, esiste già un catalogo di dischi codificati "DBX" (vedi per esempio l'elenco pubblicato in "Audio Time" di gennaio, da richiedere gratuitamente all'Audio Consultants). Che poi infine il problema dei dischi sia d'interesse generale, destinato ad essere affrontato a breve scadenza da tutte le case, è dimostrato dalla CBS che, in maniera estremamente discreta, ha trovato modo di presentare a Las Vegas un suo sistema di codificazione originale, che ha intenzione di applicare a tutti i dischi di sua fabbricazione, avendo dato licenza di fabbricazione del relativo decodificatore ad una grossa ditta giapponese, per quanto riguarda il mercato di massa, e all'Audionics per quanto riguarda il "top end" dell'high fidelity.

(Grafici originali di Audiovisione. Foto Google di pubblico dominio. Click per ingrandire)