domenica 13 febbraio 2011

Albert Einstein: 4a parte

Di Marino Mariani


Questa volta, cari lettori, sia pur di malavoglia cedo la parola, anzi la scena, a Liliana Cavani, regista della finzione “Einstein”, andata in onda in due puntate su RAI 1, il 26 e il 27 ottobre. Così facendo, questa puntata della mia biografia di Einstein diventa anomala, perché non rispetta la continuità temporale. Ma non si tratterà di tempo, o meglio: di spazio tipografico perso, perché approfitterò della mia constestazione dell’opera della Cavani per narrare episodi della massima importanza della vita di Einstein, che avrei comunque dovuto toccare nelle future puntate. (Biografia scritta originariamente per la rivista Suono)

Albert Einstein

Se non mi sbaglio, questa è la seconda volta, da quando ho iniziato la mia collaborazione con Suono, che uso la parola “finzione” laddove chiunque altro, in Italia, avrebbe usato la parola “fiction”. Non è un mio vezzo esclusivo: questa parola (finzione), con questo significato (fiction), l’ho sentita pronunciare alla TV della Svizzera Italiana, e siccome sono cittadino svizzero, mi sono sentito pienamente autorizzato ad utilizzare liberamente vocaboli dell’Italiano Federale che si scrive e parla nel Canton Ticino. Ovviamente, dovendo scendere apertamente in lizza sul significato di questa parola non in un contesto Federale, bensì di lingua Nazionale Italiana, mi sono premurato innanzitutto di stabilire il significato esatto di questa parola nella sua lingua originale, cioè l’inglese scritto e parlato sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Nel “dock” del mio computer MacIntosh c’è una figurina (icona) intitolata Dictionary, che incorpora il New Oxford American Dictionary (che è anche il mio dizionario inglese di riferimento), l’Oxford American Writer’s Thesaurus, l’Apple Dictionary, e la Wikipedia. Alla voce “fiction” il dizionario mi dà tre significati: 1. Brano letterario in forma di prosa, prevalentemente storie brevi o novelle, che descrive eventi e personaggi immaginari. 2. Invenzione o montatura opposta alla realtà (he dismissed the alligation as absolute fiction: respinse l’accusa come un’assoluta falsità).  3. Falsa supposizione o dichiarazione, che spesso si assume come vera per la convenienza di farlo (the notion of that country being a democracy is a polite fiction: dire che quel paese è una democrazia è una pietosa bugia).

Liliana Cavani giovane



Dunque, nel suo significato primigenio, la fiction è una finzione, una falsità. Se andiamo ad esplorare le altre sezioni del mio dizionario su schermo, cioè la Wikipedia, leggiamo: “per fiction (letteralmente in italiano “finzione”, dal latino fingere) si intende la narrazione di eventi immaginari, in netto contrasto con la narrazione di eventi reali”. Questo testo è in italiano, quindi non soggetto ad errori di traduzione. Viene trattata anche la voce “Fiction Televisiva”, sempre in italiano: “…Per quanto riguarda la fiction televisiva l’aspetto prevalente di finzione non risiede nella storia narrata, che può invece essere basata anche su fatti realmente accaduti (è il caso della fiction televisiva di genere biografico e storico) ma nella rappresentazione scenica. La fiction televisiva si contrappone quindi al documentario nel quale può esservi certamente finzione scenica, ma questa non ne costituisce un aspetto prevalente, bensì funzionale a quello che è il suo scopo: l’informazione, la divulgazione scientifica, la documentazione. Questo differenzia la fiction televisiva dall’opera cinematografica, il film, per il quale il documentario costituisce invece un genere”. Ed infine: “Uso del termine fiction televisiva: soprattutto nelle guide ai programmi televisivi, per film TV, miniserie televisive, serie televisive (escluse sitcom) e serial televisivi (escluse le soap opera e le telenovela) prodotti in Italia, viene usato più frequentemente il termine più generico “fiction”, mentre per le produzioni straniere vengono usati i più specifici termini “film TV”, “miniserie televisiva”, “serie televisiva”, “serial televisivo” e “telefilm”. Dal momento che in lingua inglese non viene usato, per denominare la “serie TV”, il termine fiction può indurre a pensare che solo la fiction televisiva italiana sia fiction, cosa non vera in quanto trattasi esclusivamante di consuetudine linguistica”. Come volevasi dimostrare.

Ma era una fiction?
Dunque io seguiterò ad utilizzare il termine finzione, con cui ci capiremo al volo, salvo tornare al temine fiction se devo parlare con qualche funzionario della RAI. Ebbene, Liliana Cavani ha presentato in anteprima la sua miniserie televisiva in due puntate da un’ora e mezza ciascuna alla quarta giornata del “RomaFictionFest”, quindi l’opera di cui parliamo avrebbe il dovere di essere classificata come una “finzione” ed io avrei il dovere di astenermi da ogni critica riguardo alla sua veridicità e credibilità. Senonché Liliana Cavani ha rilasciato un’intervista di 7’:30’’ reperibile su YouTube in cui ha dichiarato di non aver avuta nessuna intenzione di fare una fiction (“…non esiste….è assurdo, a meno che uno non voglia fare un serial, che però richiede tecniche specifiche..”). Ha affermato che la sua miniserie di complessive tre ore, è come un film di tre ore. Se avesse dovuto girare un film destinato alle sale, l’avrebbe fatto esattamente così. E su questo intento erano d’accordo lei stessa, i suoi sceneggiatori Massimo De Rita e Massimo Falcone, i finanziatori Claudia Mori, la RAI &c., gli attori, ed anche tutto il personale tecnico dai caporeparto all’edizione…. al montaggio. La Cavani fa cenno, in termini dichiaratamente spregiativi, ad un “docudramma” prodotto tempo fa tra Parigi e la BBC “ …che però è la solita cosa: c’è lo studio, poi un’immagine completamente inventata…” mentre il suo è “un film in assoluto, che vuol andare a fondo, ma nel contempo vuol far capire quello che stiamo raccontando…”. 

Il professor Gino Isidori


E qui la signora Cavani invoca il suo consulente, il fisico Prof. Gino Isidori a testimoniare i loro sforzi “per approfondire la figura di Einstein, personaggio semplice ed autoironico, anticipatore dei tempi moderni perché le cose non sono più come cinque o dieci anni fa “(ma Einstein è nato 121 anni fa!). Chi vuole infine sentire parola per parola tutto quello che la regista ha detto per sostenere la veridicità e le buone intenzioni della sua “miniserie”, vada su Google e chieda “einstein liliana cavani”, e sarà servito di barba, capelli e shampo.
Ebbene, contro la pretesa di Liliana Cavani di aver fatto di Einstein una narrazione tesa all’approfondimento della verità, ed un film vero e proprio invece che una finzione, io affermo che tutta la sua narrazione, più che una finzione immaginata sulle ali della fantasia, è una sequela di falsità gratuite, ingenue, sistematiche e fuorvianti. In tutto il filmato che ho potuto vedere, c’è solo un piccolo episodio assolutamente vero che la Cavani ha rispettato in tutta la sua minimalistica integrità, e di ciò ringrazio la signora sin da questo momento. Lo rivelerò alla fine di questa puntata
Ebbene, dico subito che né la prima, né la seconda puntata dell’opera ho potuto vederle sin dall’inizio: ero intento a scrivere la quarta puntata di questa biografia, quando mi ha telefonato il professor Caprioli avvertendomi che su RAI era iniziata la trasmissione di un film su Einstein. Lì per lì neanche vi badai, ma più tardi mi sintonizzai, ed il giorno dopo, per caso, scoprii che andava in onda la seconda puntata, ed anch’essa la vidi, ma non dall’ìinizio

Einstein e Niels Bohr

“Einstein, piantala di……..”
Lo scopo principale di questa puntata, comunque, non è tanto quello di istruire un castello di accuse contro la Cavani, quanto quello di individuare gli episodi maggiormente travisati e sostituirli con la loro realtà storica. Suppongo che diversi lettori di Suono abbiano visto l’Einstein televisivo, e principalmente ad essi devo il ripristino della realtà
Comincerò dalla fine, quando Einstein muore, e la Cavani gli fa dire alcune parole di commiato iniziate dalla frase “Dio non gioca a dadi….” Quando Einstein morì, essendo un ateo irremovibile come Bohr e Fermi, il suo pensiero non era rivolto a Dio. Ma Einstein quella frase, rimasta famosa, la disse una quarantina d’anni prima quando battibbeccava con Bohr sulle conseguenze del principio di indeterminazione di Heisenberg che trasformava il determinismo della fisica classica nel probabilismo della meccanica quantistica. Pensando di poter chiudere la questione con una “frase scenica” alla maniera degli operisti italiani dell’ottocento (tipo “Ridi, pagliaccio!”, “Cortigiani, vil razza dannata”, “Eri tu che macchiavi quell’alma”…..), Einstein gli lanciò questo lungolinea: “Dio non gioca a dadi!”. Ma Bohr gli rispose con uno smash imprendibile: “Einstein, piantala di dire a Dio quello che deve fare!”. Qualsiasi uomo di teatro, o di cinema, o di piccolo schermo non si sarebbe lasciato sfuggire questo scambio al fulmicotone, sempre che qualcuno del gruppo avesse letto una biografia di Einstein.
Ma questa, in fondo, è un’omissione, un’occasione perduta, e dal punto di vista della rilevanza dibattimentale c’è di peggio. Passiamo adesso ad un punto cruciale della vita di Einstein e del mondo intero. Ve lo racconto integralmente, perché tanto l’avrei pubblicato in una puntata successiva, e dopo che ve l’avrò raccontato a modo mio, vedremo come invece è stato interpretato dalla Cavani.

La lettera
Vi devo presentare Leò Szilàrd, un fisico ungherese brillante ed alquanto eccentrico, vecchio amico di Einstein, con cui aveva collaborato a Berlino negli anni 20 nel progetto e nello sviluppo di un nuovo tipo di frigorifero “senza alcuna parte in movimento”, una vera trovata da geni, che i due brevettarono, senza riuscire ad immetterlo con successo sul mercatto, data la loro inesperienza nel campo degli affari. Sfuggito ai nazisti, Szilàrd si recò in Inghilterra, e poi a New York, dove lavorò nella Columbia University alla realizzazione di una reazione nucleare a catena, idea che gli era venuta in mente qualche anno prima, attendendo che un semaforo diventasse verde. Quando ebbe notizia della scissione avvenuta con l’impiego dell’uranio, egli realizzò l’idea che questo stesso elemento poteva essere utilizzato per una reazione a catena potenzialmente esplosiva, e ne discusse con Wigner, altro fisico rifugiato da Budapest, e i due cominciarono a preoccuparsi dell’acquisto, da parte della Germania, delle riserve di uranio del Congo, che a quel tempo era una colonia del Belgio (a scuola si chiamava Congo Belga). Come potevano due rifugiati ungheresi in America mettere in guardia il Belgio? Szilàrd si ricordò che Einstein era grande amico della Regina Madre del Belgio. Ed Einstein stava passando l’estate del 1939 in barca a vela a Great Pecony Bay, in Long Island, nel paesino di Hamptons. Altri particolari Szilàrd li ebbe, telefonicamente, dall’Università di Princeton. Domenica 16 luglio 1939 i due ungheresi si misero in viaggio, con Wigner al volante, perché Szilàrd, al pari di Einstein, non sapeva guidare. Arrivati ad Hamptons, nessuno seppe indicare loro il villino del dott. Moore, dove Einstein alloggiava, ma sul punto di arrendersi ebbero l’idea di domandare ad un ragazzo: “Per caso, non sapete dove vive il Professor Einstein?”. La risposta affermativa fu immediata.

Einstein e Szilàrd preparano a lettera a Roosevelt

Seduti ad un rustico tavolo di legno, Szilàrd spiegò come dall’uranio cui erano sovrapposti strati di grafite poteva svilupparsi una reazione a catena esplosiva a causa dei neutroni prodotti da scissione nucleare. “Ed io non ci avevo mai pensato!”, esclamò Einstein. Fece ancora qualche domanda e ci pensò sopra per un quarto d’ora, e poi cominciò a capire tutte le implicazioni: invece di scrivere alla Regina Madre, forse era meglio scrivere ad un ministro belga che egli conosceva. Wigner, più saggiamente, ritenne che tre stranieri, prima di confidare ad uno stato estero tanto delicati argomenti di sicurezza, avrebbero dovuto interpellare il Dipartimento di Stato, ed in tale caso la lettera avrebbe dovuto essere firmata da Einstein, per poi essere smistata all’ambasciatore belga in una busta del Dipartimento di Stato. D’accordo su ciò. Einstein dettò una bozza in lingua tedesca. Wigner la tradusse in inglese, la diede alla segretaria per dattiloscriverla, e la inviò a Szilàrd. Alcuni giorni dopo un amico combinò per Szilàrd un colloquio con Alexander Sachs, un economista della Lehman Brothers ed amico del presidente Roosevelt. Più pratico dei tre fisici teorici, Sachs consigliò di inviare la lettera direttamente alla Casa Bianca, e si offrì di recapitarla personalmente, a mano. Pur avendo incontrato Sachs solo per la prima volta, a Szilàrd quel piano piacque. “Non farà male a nessuno seguire questa via”, scrisse ad Einstein. Potevano farlo per telefono o dovevano incontrarsi personalmente per eseguire la revisione della lettera? Einstein rispose che doveva ritornare a Peconic, mentre Wigner doveva recarsi in California per una visita. E così Szilàrd ingaggiò un altro esponente dell’incredibile gruppo di fisici teorici ungheresi che si erano ritrovati in America. Costui era Edward Teller (che in seguito costruì la bomba all’idrogeno, dopo che Fermi aveva costruito la prima bomba atomica). Oltre che essere un simpaticissimo genio, Teller possedeva una spaziosa Plymouth del 1935, e su tale mezzo Szilàrd riprese la strada per Peconic, portando con sé la bozza originale della lettera, vecchia ormai di due settimane. Ma Einstein realizzò che adesso si trattava di scrivere una lettera ben più esplosiva che non un semplice invito alla prudenza indirizzato al governo belga, a proposito della vendita dell’uranio congolese: lo scienziato più celebre al mondo si rivolgeva al Presidente degli Stati Uniti mettendolo in guardia su una probabile arma di incommensurabile potenza. Szilàrd ricorda che “Einstein dettò una lettera in tedesco, che Teller buttò giù, e che io presi a modello per preparare due bozze di lettera destinata al Presidente”. Secondo gli appunti di Teller, Einstein dettò una bozza in cui non solo sollevava la questione dell’uranio del Congo, ma che spiegava anche la possibilità di una reazione a catena, suggeriva che ne poteva nascere un nuovo tipo di bomba, e sollecitava il Presidente di prendere un contatto formale con i fisici che si interessavano a questa materia. Poi Szilàrd preparò ed inviò ad Einstein due versioni, una di 45 righe e l’altra di 25, entrambe datate 2 agosto 1939, lasciando ad Einstein il compito di decidere quale fosse la migliore. Einstein le firmò entrambe con una semplice sigla, abbandonando la pomposa firma fiorita che spesso utilizzava. La versione maggiore giunse infine al Presidente.

Il monito
Eccone il contenuto:
Signore 
Alcuni recenti lavori di E. Fermi e di L. Szilàrd, che mi sono stati comunicati in forma di manoscritto, mi inducono a prevedere che l’elemento uranio possa diventare, nell’immediato futuro, una nuova ed importante fonte di energia. Certi aspetti della situazione che si è venuta a creare sembrano richiedere vigilanza e, se necessario, una pronta azione da parte dell’Amministrazione. Credo pertanto essere mio dovere quello di porgere alla vostra attenzione i seguenti fatti e raccomandazioni:……Può sorgere la possibilità di provocare una reazione nucleare a catena in una notevole massa di uranio, dalla quale potrà essere generata una grande quantità di potenza e grosse quantità di nuovi elementi simili al radio. Ora sembra quasi certo che ciò potrà essere realizzato nell’immediato futuro.Questi nuovi fenomeni potranno dunque sfociare nella costruzione di bombe ed è probabile – ma molto meno certo – che potranno essere costruite bombe di nuovo tipo estremamente potenti. Una singola bomba di questo tipo, portata per nave e fatta esplodere in un porto, può benissimo distruggere tutto il porto e parte del territorio circostante……Alla luce di questa situazione voi potrete ritenere auspicabile stabilire un contatto permanente tra l’Amministrazione ed il gruppo di fisici che lavorano alle reazioni a catena in America.

Avrei potuto presentare questa lettera in una miglior forma italiana, ma mi sono strettamente attenuto all’originale elaborato da quattro fisici di cui nessuno era di madrelingua inglese. La lettera iniziava con la parola “Sir”, e terminava con il monito che gli scienziati tedeschi forse stavano già lavorando alla realizzazione della bomba, ma una volta scritta la lettera, rimaneva il problema di come farla pervenire nelle mani del Presidente Roosevelt. Einstein dubitava di Sachs. I quattro presero in considerazione il finanziere Bernard Baruch ed il presidente del MIT Karl Compton. Stupefacente fu il fatto che quando Szilàrd rispedì la copia dattiloscritta della lettera, avanzò il consiglio di utilizzare come intermediario Charles Lindbergh, reso celebre, dodici anni prima, dal suo volo solitario attraverso l’Atlantico.

Chaels Lindbergh. il primo trasvolatore solitario dell'oceano Atlantico

Questi illustri rifugiati ebrei sembravano non rendersi conto che Lindbergh era un ammiratore di Mussolini, ed era stato entusiasticamente accolto in Germania ove Hermann Göring in persona lo aveva decorato con la Medaglia d’Onore della Nazione Tedesca, ed era diventato isolazionista, in netto contrasto con Roosevelt. Einstein l’aveva conosciuto pochi anni prima a New York, e gli scrisse una missiva in cui gli chiedeva di ricevere il dott. Szilàrd che gli avrebbe fatto importanti rivelazioni…..Lindbergh neanche rispose. Allora Szilàrd si rifece vivo con una lettera del 13 settembre, ma il gruppo si rese conto della vanità di questi tentativi quando, due giorni dopo, Lindbergh tenne un discorso radio a tutta la nazione, incitandola vieppiù all’isolazionismo. Rassegnato, Szilard scrisse ad Einstein: “Lindbergh non è il nostro uomo”.
L’ultima loro speranza rimaneva Alexander Sachs, cui era stata affidata le missiva firmata da Einstein, ma che, nonostante la sua importanza, per almeno due mesi non fu in grado di inoltare la lettera. Nel frattempo la lettera da importante divenne impellente, perché alla fine di agosto Germania e URSS firmarono un patto di non aggressione che consentiva loro di spartirsi la Polonia. Immediatamente l’Inghilterra e la Francia (quest’ultima con un ritardo di 24 ore) dichiararono guerra alla Germania, dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale. Per il momento l’America rimaneva neutrale, però iniziava il riarmo
Il Presidente F:D:Roosevelt


Alla fine di settembre Szilàrd venne a trovare Sachs e rimase inorridito scoprendo che costui ancora non era stato in grado di fissare un appuntamento con Roosevelt, quindi scrisse ad Einstein. “C’è una seria possibilità che Sachs non ci possa servire a nulla. Wigner ed io abbiamo deciso di imporgli un termine di dieci giorni”. Sachs ce la fece per un pelo, e mercoledì 11 ottobre fu ricevuto, con in mano la lettera di Einstein, nell’Ufficio Ovale. Nella versione della Cavani Szilàrd e Wigner andarono a trovare Einstein, gli dissero come stavano le cose, gli proposero di scrivere una lettera a Roosevelt. Egli domandò: “Che cosa devo scrivere?”, “Comincia con: Caro Presidente”. Fine della trasmissione.


Rain Man
Quella che segue non è una divagazione fuori tema, ve ne accorgerete più tardi. Vi ricordate quel bel film americano del 1988 intitolato “Rain Man”? Credo che in italiano si chiamasse “L’uomo della pioggia”, che è l’esatta traduzione di Rain Man, ma in realtà quel “Rain Man” è una deformazione di “Raymond”, il nome che nel film assume Dustin Hoffman, mentre Tom Cruise si chiama Charlie, ed è il fratello minore di Raymond. Charlie è dipinto come uno yuppie egoista, che subisce un rovescio nel commercio di automobili Lamborghini, e che ignora persino di avere un fratello maggiore, d’altronde ricoverato in clinica perché egotista (non confondete con egoista). Lo viene a sapere quando muore il padre, ed il grosso dell’ingentissima eredità va proprio al fratello maggiore.

Tom Cruise e Dustin Hoffman


Sia come sia, egli va a prelevare Raymond nell’istituto ove è ricoverato ed assieme a lui inizia un viaggio da Cincinnati a Los Angeles, reso interminabile dal fatto che Raymond, per il suo stato psichico, non può viaggiare né in aereo, né in autostrada. Durante questo viaggio Charlie comincia ad affezionarsi al fratello che, accanto a comportamenti maniacali, come la ripetizione infinita di “Who’s on first” (una gag presa da un film di Gianni e Pinotto, relativa ad una partita di baseball: “Chi è in prima base?”, in cui “Who” è l’interrogativo “Chi?”, ma è anche un nome proprio), ebbene, oltre a queste pause psicotiche, Raymond mostra di avere una memoria prodigiosa. Così capitano a Las Vegas, e si siedono ad un tavolo di Blackjack, il più popolare “casino game” descritto per la prima volta, nel 1602, da Miguel Cervantes autore del Don Quijote. nella sua opera “Novelas Ejemplares”. Il gioco si svolge tra un certo numero di giocatori ed il banco. Vince chi ottiene il punteggio più alto, ma inferiore a 21 (chi supera questo valore “sballa”), attribuendo alle carte i seguenti valori: da due a dieci le carte valgono tanti punti quanto il loro valore nominale. Le figure valgono, indistintamente, dieci punti, mentre gli assi possono valere “uno” o “undici” a seconda delle circostanze e per scelta del giocatore. Il fascino di questo gioco consiste nel fatto che il giocatore, oltre alla fortuna che presiede alla distribuzione delle carte, può contare su una certa strategia: quella di tenere il conteggio mentale delle carte già uscite per calcolare la probabilità di uscita delle successive carte del mazzo, determinando così la convenienza di chieder carta o restare. Ebbene, sfruttando la prodigiosa memoria di Raymond, i due fratelli effettuano grosse vincite prima di essere allontanati dal casino.

Dustin Hoffman memorizza le carte uscite a Blackjack
Diverso è il caso di altri giochi di fortuna. Per esempio, giocando con una coppia di dadi, noi conosciamo perfettamente le probabilità a priori di ciascun numero. Il calcolo è facile: poiché ciascuna delle 6 facce di un dado si può liberamente combinare con ciascuna delle 6 facce dell’altro dado, le “figure” totali sono 6x6=36. Di queste i numeri 2 e 12 si possono verificare in uno ed un solo modo, cioè 1+1 e 6+6, quindi ognuno di questi numeri ha una sola probabilità a priori su un totale di 36. L’11 ed il 3 hanno invece una probabilità doppia, perché si possono ottenere in due modi: 2+1 e1+2, oppure 5+6 e 6+5. Ripetendo il ragionamento, ecco le probabilità a priori degli altri numeri: il 4 e il 10 ne hanno 3 ciascuno; il 5 e il 9 ne hanno 4; il 6 e l’8 ne hanno 5, ed infine il 7 ne ha ben 6, potendosi verificare nei modi: 6+1, 1+6, 5+2, 2+5, 4+3 e 3+4. Se fate la somma di tutte le probabilità a priori, troverete quel valore, 36, che avevamo detto sin dal principio. Ma questo aiuta poco un giocatore di dadi, che terrà conto di questi calcoli, ma se i suoi dadi non sono truccati non potrà impedir loro di far uscire un numero sempre casuale, sempre indipendente del numero che è uscito immediatamente prima. La frequenza di uscita di un ceerto numero è però soggetta ad una legge ferrea, che è detta la “Legge dei Grandi Numeri”, la quale afferma che, all’infinito, la frequenza tende ad eguagliare la probabilità a priori. Questo significa che se tirate i dadi 10, 20 o 50 volte otterrete una serie di risultatii che non sembra seguire nessuna legge. Per esempio il 2 (o il 12), che sono numeri rari, potrebbero uscire anche 5 o 6 volte di seguito, mentre il 7, favorito nel calcolo delle probabilità a priori, potrebbe tardare in modo anomalo. Ma se tirate i dadi moltissime volte, per esempio migliaia di volte, troverete che la frequenza del 7 si avvicinerà al suo valore asintotico calcolato a priori. A seconda delle giocate eseguite, la frequenza d’uscita del 7 si avvicinerà, per esempio, al valore 60mila, la frequenza del 6 e dell’8 al valore 50.000 e così via. Come si vede, uscito un numero, non c’è nessun procedimento matematico per predire il numero successivo. A maggior ragione questa indeterminazione vale per un gioco come quello delle macchinette a gettone, in cui le probabilità a priori possono essere calcolate solo sapendo quante volte ciascuno dei vari simboli (ciliegine, arancio, campana……) è stampigliato su ciascuna delle ruote (in genere tre). Questi dati non sono assolutamente a disposizione dei visitatori casuali, e comunque non possono dare alcuna indicazione sulle figurine che usciranno la prossima volta, e solamente con l’esperienza il giocatore imparerà, a proprie spese, a conoscere quali sono le combinazioni più frequenti (e meno remunerate), e quelle più ricche (che non escono mai). Ma che c’entra tutto questo con la biografia di Einstein? Assolutamente nulla. Ma Liliana Cavani non la pensa così.


Eduard, Mileva e Hans Albert Einstein

Il viaggio di Eduard
Liliana Cavani prende molto a cuore la situazione familiare di Einstein, ed in particolare i suoi rapporti con il figlio minore Eduard, che sin da ragazzino mostrava tanta buona tendenza allo studio della musica, quanto saltuari comportamenti neurotici nichilisti nei confronti del padre. Eduard voleva intraprendere studi di psichiatria, ma fu lui stesso travolto da turbe psichiche che gli impedivano di studiare con rendimento costante. Eduard fu una continua preoccupazione per Einstein, che vedeva nel figlio avanzare ineluttabilmente una tara ereditaria forse generata nell’ambito della discendenza materna (Mileva Maric, prima moglie di Einstein, era la madre di Eduard). Durante i suoi viaggi e le sue lunghe permanenze all’estero, Einstein era continuamente informato sullo stato di salute di Eduard dal suo amico Michele Angelo Besso, col quale, sino all fine della vita di entrambi, intratteneva una fitta corrispondenza scientifica e familiare. Ecco uno stralcio della Lettera 112 del carteggio Besso- Einstein, datata Berna, 18 settembre 1932. La lettera è diretta da Besso ad Einstein, ed inizia con dolenti considerazioni suoi legami tra i due, che si ripercuotono parallelamente nel figlio di Besso, Vero, e nel figlio minore di Einstein, Eduard (detto Tete o Tetel):
……. È per questo che sono affezionato al tuo Eduard. Quali ponti ci collegano? La mia vita e la tua giovinezza, il tempo in cui il tuo genio ti suggeriva centomila idee e i tuoi sforzi tenaci riuscivano a trarne l’unica valida, e il modo puro con cui io ne gioivo, e le mie infinite obiezioni. Le pene simili a quelle altrui, la difficile posizione accanto al padre celebre, il dissidio proprio sotto i nostri occhi che ci colpisce proprio diritto al cuore. Il destino peer cui i miei sforzi sinceri per riappacificare te e Mileva hanno finito per mutarsi nella mano che ha sancito la separazione: le mie parole di allora, quando pensavo che la tua separazione dal nostro popolo e dalle sue aspirazioni non fosse così profonda come appariva al tuo sentire profondamente umano – e che in qualche modo possono aver contribuito a separazioni e unioni. Ora, il ponte esiste. Certo qualcuno potrebbe dire: ha un padre straordinario, un’ottima madre, è dotato e simpatico, anche se un po’ chiuso come molti giovani.........Lo stesso Eduard mi ha detto: “Fatico a condurre a termine il dovere impostomi. Papà deve provare un sentimento analogo quando fa lezione malvolentieri”. Fare lezione non ha per te un’importanza veramente profonda, ha pensato tra sé il vecchio amico. “Che cosa ci posso fare? Ognuno deve cavarsela da solo. Io ho dovuto farlo e devo continuare a farlo. Che ne sai tu bambino dai capelli bianchi, di quanto pesante sia il fardello di colui che cerca e di quanti ancora, da tutte le parti, vorrebbero addossamene! Aiuta, se puoi, e altrimenti rassegnati, come anche altre persone devono rassegnarsi!”.E tuttavia: prendi con te per una volta il ragazzo in uno dei tuoi grandi viaggi. Quando gli avrai dedicato il tempo libero di sei mesi della tua vita – avrai allora imparato a sopportare in lui anche cose che non ammettiamo con gli altri – perché dall’esterno le cose appaiono diversamente che dall’interno; ma allora saprete anche, una volta per tutte che cosa vi unisce e, a meno che non mi sia clamorosamente sbagliato, in quest’occasione gli si aprirebbe la via verso una propria, gioiosa attività. Un proverbio italiano dice: offelé, fa’l to mesté: “Pasticcere, fa’ pasticcini”; in tedesco, indirizzato a me, impicciati degli affari di casa tua. E ancora in italiano: va’ a farti benedire!
Caro, vecchio amico, perdona il tuo vecchio amico Besso.

Besso e Anna Winteler. foto unica esistente


Questa lettera di Besso, tanto diversa da tutte le altre, di contenuto provalentemente scientifico, se la poniamo nella giusta prospettiva, è veramente straziante. Il vecchio amico fa i salti mortali per manifestare con estrema delicatezza e discrezione la sua preoccupazione per lo stato di Eduard, e suggerisce ad Einstein quella che ritiene l’unica cura possibile che dia ancora un filo di speranza: portatelo con te e mostragli tutto il tuo amore di padre! E, nel timore di aver in qualche modo passato i limiti della buona creanza, affibbia a a se stesso l’accusa di essere un impiccione. Einstein gli risponde il 21 ottobre 1932:
Caro Michele, come potrei essere arrabbiato con te? Non ti ho ancora mai visto dire o fare qualche cosa se non con l’intenzione di fare del bene. Così è stato nel caso di Tetel. L’ho quindi invitato per l’anno prossimo in America (a Princeton). Quest’anno non sarebbe stato opportuno, perché in California la situazione e i miei doveri in particolare sono piuttosto delicati. Per Tetel sarebbe più un peso nocivo vhe un riposo. Tutto porta purtroppo a credere che la pesante eredità di famiglia si manifesti in modo decisivo in lui. L’ho già vista arrivare, lenta ma inarrestabile, fin dalla giovinezza di Tetel. Gli eventi e le influenze esteriori, in simili casi, non rivestono che un piccolo ruolo in confronto alle secrezioni interne, sulle quali nessuno può niente.
Convinto (non a torto) che si trattasse di una tara genetica, Einstein aveva già declinato un invito di Besso a far psicoanalizzare Tetel. Per convincere Einstein, Besso aveva anche affermato di aver lui stesso ricavato notevoli benefici da un trattamento psicoanalitico cui si era sottoposto per superare difficoltà con la moglie Anna Winteler, sorella di Marie Winteler di Aarau, che Einstein stesso gli aveva fatto conoscere. Nonché le difficoltà che aveva incontrato con il figlio Vero. Benché fosse amico di Sigmund Freud, Einstein ritenne che la psicoanalisi non c’entrasse per nulla con il caso di Tetel.
A questo punto facciamo rientrare nello scenario Liliana Cavani. La quale descrive la visita di Tetel a Princeton e i rapporti ripresi col padre. Il quale, in perfetto parallelismo col film “Rain Man”, si carica il figlio su un macchinone scoperto e, lui al volante, se lo porta in un lungo viaggio per la campagna del New Jersey. Sostano in vari hotel e ristoranti. In uno di questi si sta esibendo una banda di jazz, e Tetel (Eduard) si lancia sul pianoforte, lasciato provvidenzialmente libero, e si mette a capo del complesso suonando meglio di Paderewski. Ma l’analogia col film di Dustin Hoffman si fa anche più stretta quando, in un locale con annessa sala da gioco, Tetel osserva un giocatore che, spazientito per le continue perdite, sta abbandonando una macchina a gettone, e lo ferma esclamando: “Giocate ancora, alla prossima vincerete”. Ma costui perde ancora e si allontana spazientito. “Ma no, dovete assolutamente giocare ancora, la vincita è sicura!”. Einstein viene in soccorso del figlio: “Giocate ancora, se non vincerete vi rimborseremo la spesa”. Naturalmente il giocatore non vince ed Einstein lo risarcisce.
Ma a questo punto i nodi vengono al pettine: Einstein non ha mai guidato un’automobile, non possiede nessuna automobile, né può prenderla in noleggio, non avendo la patente. Al contrario di Dustin Hoffman, Eduard Einstein non è un soggetto autistico, bensì schizofrenico. Inoltre si difende sostenendo “Avevo calcolato tutte le probabilità!”. Orbene, Liliana Cavani, nell’intervista riportata da YouTube, afferma di aver usufruito della consulenza del fisico Isidori, che avrebbe dovuto spiegargli la differenza tra un calcolo delle probabilità in un gioco soggetto alla legge dei grandi numeri ed il conteggio delle carte ancora presenti in un mazzo da Blackjack, avendo memorizzato tutte le carte sinora uscite. Infine poteva fare del tutto a meno di ficcarsi in questo ginepraio, che non fa onore alla sua squadra di collaboratori, se avesse tenuto conto che Eduard Einstein era sepolto in una clinica svizzera, cui, in qualità di malato di mente, le autorià USA non concessero mai il visto d’ingresso.


Il frigorifero di Einstein e Szilàrd

Girandola finale
Dunque, tutto il viaggio in America di Eduard Einstein e le sue avventure in campagna col papà sono ”non avvenute”. Eduard, detto Tete o Tetel, è morto a 55 anni a Burghölzli, che altri non è che il nome popolare dato all’Ospedale Psichiatrico dell’Università di Zurigo. Dalla data della sua risposta alla lettera di Michele Angelo Besso, Einstein non ha più rivisto quel figlio..
Nell’opera della Cavani si vede una Berlino del dopoguerra della Prima Guerra Mondiale tirata completamente a lucido, con i cubetti di porfido (sampietrini, in romanesco) del selciato lavati e stirati uno per uno, con i professori dell’Università severamente e dignitosamente intabarrati nei loro vestimenti accademici. Ma a quel tempo, il governo tedesco, per non pagare i debiti di guerra, aveva fatto svalutare la propria moneta oltre ogni limite concepibile. Ricordo, nella collezione di francobolli di mio padre, valori di diversi milioni di RM (Reichsmark), ma sul catalogo Yvert et Tellier erano registrati anche valori postali di miliardi di RM. A quel tempo anche un paio di guanti scompagnati o di scarpe sfondate aveva un valore superiore a qualsiasi somma in danaro. I costumi erano completamente degenerati: Berlino era un lazzaretto, un bordello, un carnaio a cielo aperto. È strano che la Cavani, autrice del film “Il portiere di notte”, ritenuta quindi un’esperta di degenerazioni tedesche, abbia preferito ambientarsi in una Berlino di fantasia. In America Einstein viene alloggiato in un appartemento arredato in maniera strana. “Che cosa essere questo?”. Semplicemente un frigorifero, del tutto sconosciuto ad un Einstein che insieme a Slilàrd ne aveva progettato uno avveniristico senza parti in movimento. Sconosciuto ad un Einstein il cui padre Hermann e lo zio Jakob guidavano un’industria elettromeccanica operante nel Nord Italia.

Einstein e la segretaria Helen Dukas



Appena passata la trentina Einstein ebbe i capelli bianchi caratteristici della sua storia iconografica, ma la Cavani l’ha fatto morire con i capelli neri. Einstein si presenta ad un ricevimento senza pantaloni. Einstein si lamenta che nessuno rammenda i suoi calzini, capo d’abbigliamento che non usava. Ma lo spazio a mia disposizioni è completamente esaurito, e quindi voglio chiudere con l’episodio più improbabile evocato dalla Cavani: in America, una bambina del vicinato bussa alla porta del suo villino, e gli offre una tortina fatta in casa. In cambio l’aiuterebbe a fare i compiti di scuola? Ma certamente! Come resistere ad una bambina vera, verissima, magicamente infiltratasi nella favola della Cavani? Un altro motivo di gratitudine va alla Cavani per aver lasciato completamente in ombra la figura di Helen Dukas, segretaria di Einstein dal 1928 al 1955 (anno della morte dello scienziato). Helen Dukas è infatti vissuta nell’ombra di Einstein, ma è venuta splendidamente alla luce più radiosa dopo la morte del genio, rendendo possibile la pubblicazione della sua opera omnia in 36 volumi, in corso di stampa a cura della Princeton University Press.
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