giovedì 30 giugno 2011

Charlot: Luci della Città

Charlie chaplin

Oramai è diventato un mio marchio di fabbrica: quando devo parlare di Einstein, comincio da Charlie Chaplin, e viceversa. Questa volta, dovendo parlare di Charllie Chaplin, comincio dunque da Einstein il quale, durante il periodo in cui frequentò il Politecnico di Zurigo, si mostrò talmente innsolente nei riguardi della classe insegnante, talché riuscì a malapena a diplomarsi con la votazione più bassa possibile, ed una volta ottenuto il diploma, i titolari di cattedra si passarono parola e gli sbatterono la porta in faccia quando veniva a chiedere loro un posto d’assistente. Fu la fortuna di Einstein che, trovato un posto d’oro all’Ufficio Federale dei Brevetti a Berna, stretto nella cerchia dei suoi cari ed intelligentissimi amici Michele Angelo Besso, Marcel Grossmann, Conrad Habicht e Maurice Solovine, ridotto a ragionare con essi, solo con essi, completamente isolato dal mondo accademico, tirò fuori dal suo ingegno visioni cosmiche che nessuno mai aveva immaginate. E così Einstein non fu assorbito dal mondo accademico, ma lo sgretolò d’un sol colpo, finendo direttamente sulle nove colonne della prima pagina dei maggiori quotidiani. Il pubblico di tutto il mondo lo conobbe, non dalle pubblicazioni scientifiche e dalle dissertazioni accademiche, ma dalle relazioni mozzafiato dei giornalisti. E d’un tratto la fama di Einstein esplose in tutto il mondo, superando quella dei più popolari divi di Hollywood, ma non quella di Charlie Chaplin. I due divennero profondamente amici, ed il pianeta li amava in egual misura, per motivi assolutamente identici …ed opposti: tutti capivano la struggente umanità di Chaplin, e nessuno capiva il pensiero di Einstein! Quando il loro destino non fu identico, fu specularmente opposto al punto da sembrare identico: Einstein dové fuggire dal regno della tirannide, mentre Chaplin dové fuggire dalla terra della libertà. A Chaplin, primatista mondiale di risate, lacrime ed incassi, non fu mai dato un premio Oscar. All’età di 83 anni ci si ricordò di lui, ci si domandò perché non fosse già morto, si pensò di organizzare una bella festa e, per l’occasione, gli si conferì l’Oskar che si dà a chi non si vuol dare l’Oskar: l’Oskar alla carriera…Mentre il mondo accademico non trovò modo di far pervenire al soglio del Premio Nobel né la Relatività Speciale, né la Relatività Generale, e quindi conferì il Premio Nobel ad un suo vecchio lavoro, neppure completamente originale, sull’Effetto Fotoelettrico. Il 30 gennaio 1931 Charlie Chaplin invitò Albert ed Elsa Einstein alla proiezione in anteprima di City Lights al tt di Los Angeles. Scrissi a suo tempo: Einstein e la moglie sedevano accanto a lui. Vi ricordate questo film? È quello della fioraia cieca, di cui Charlot s’innamora e che, sfruttando certe inaspettate, favorevoli circostanze, riesce ad aiutare con cospicue somme di danaro. Così la ragazza, che crede Charlot un milionario, può affrontare un’operazione e riacquista la vista. Mette su un lussuoso negozio di fiori, e tra i ricconi eleganti che lo frequentano cerca sempre di scoprire chi fosse stato il suo ignoto benefattore. Finché un giorno Charlot, stracciato come al solito, e beffeggiato dai ragazzacci, passa avanti al negozio, la vede, la riconosce, e fa per allontanarsi. Ma lei, vedendo quel pover’uomo stracciato e beffeggiato, ne ha compassione, esce dal negozio, gli offre un fiore e gli mette in mano una monetina. Stringendo quella mano, la ragazza riconosce il suo benefattore e….Einstein scoppiò a piangere.

Virginia Cherrill

Nascita di “City Lights”
Quando Chaarlie Chaplin intraprese la lavorazione di City Lights, erano già passati tre anni da che il film sonoro era stato inventato e lanciato sugli schermi di tutto il mondo. Intendiamoci, il termine film sonoro merita qualche precisazione: anche ai tempi del muto il film muto non era silenzioso: prima era accompagnato dalle risate e dalle esclamazioni di stupore del pubblico, il quale si precipitava verso le uscite quando i gangsters sparavano pistolettate…silenziose. Era tale il potere suggestivo dello schermo d’argento che sono celebri le scene di panico destate dall’Arrivo di un treno alla stazione de la Ciotat. Poi divenne di prammatica l’accompagnamento musicale di un pianoforte in sala, o di un organo, o di un complessino di musicanti. Ma persino dopo l’avvento della colonna musicale bisogna distinguere tra il film sonoro, ed il film parlato, in cui il dialogo viene sincronizzato col cosiddetto labiale dell’attore. Ebbene, nel 1927 era uscito nelle sale, destando un indicibile scalpore, The Jazz Singer, (Il cantante di Jazz), il primo film sonoro parlato, ed in quello stesso istante il film muto morì. Ma non per Charlie Chaplin, il quale concepiva la recitazione dei suoi film come una pantomima, cioè una recitazione totale, alla quale tutto il corpo veniva chiamato a partecipare con tutta la sua capacità espressiva. Egli riteneva che questo tipo di recitazione era più adatto del parlato a svolgere la storia del suo nuovo film City Lights, imperniato su un sub-plot (una trama secondaria che si sviluppa parallelamente alla vicenda principale) di un’intensità sentimentale tale da intimorire lo stesso Chaplin: la storia della fioraia cieca che riacquista la vista. Per questa sua determinazione a voler girare un film muto invece che seguire l’onda del parlato, Chaplin gettò nella costernazione l’intera cerchia delle sue amicizie, che fecero ogni tentativo per dissuaderlo. Ma City Light era intrinsecamente un film muto per eccellenza, Chaplin ne era convinto, e la sua preoccupazione era che tre anni di parlato avessero in un certo senso ridotto le capacità pantomimiche degli attori: “Adesso, invece di recitare, parlano e basta. Il loro senso del tempo va in parole invece che in azione”. Un’altra fonte di preoccupazione era quella di trovare una ragazza che sembrasse cieca senza alcuno scapito alla bellezza e al fascino. La maggior parte delle ragazze che si presentavano guardavano verso alto mostrando il bianco dell’occhio, spettacolo piuttosto controproducente. “Ma il destino mi venne incontro: un giorno sulla spiaggia di Santa Monica c’era un gruppo cinematografico che girava un film. E c’erano molte belle ragazze in costume da bagno. Ed una mi salutò. Era Virginia Cherrill che avevo già incontrato precedentemente”, racconta Chaplin. Questa si avvicinò e disse: “Quando vengo a lavorare per voi”? Lì per lì le sue forme così attraenti nel suo costume blu non suggerivano l’idea che ella potesse interpretare un ruolo altamente spirituale.

La fioraia cieca

Nascita della fioraia
“Ma dopo aver provato con altre attrici, nel pieno dello sconforto, la chiamai. Con mia sorpresa, ella aveva la facoltà di sembrare cieca. La istruii su come volgersi verso di me, ma guardando all’interno, senza vedermi e…sapeva farlo!” “La Cherrill era brava e fotogenica, ma aveva poca esperienza di recitazione, e ciò si rivelò come un vantaggio, specie in un film muto in cui la tecnica del movimento riveste un’importanza fondamentale. Le attrici esperte spesso sono troppo fissate nelle loro abitudini, mentre nella pantomima la tecnica del movimento è così meccanica da essere sentita come un elemento di disturbo. Quelle con minor esperienza recitativa si adattano più facilmente alla meccanica”. Il battesimo del fuoco della fioraia si ha in una scena in cui Chaplin (“The Tramp”), per evitare il blocco del traffico, attraversa la strada entrando in un macchinone di lusso ed uscendo sul marciappiede sbattendo lo sportello. Viene udito dalla fioraia che gli si avvicina e gli porge il suo mazzetto, pensando che sia il proprietario dell’automobile. Con la sua ultima monetina il Tramp acquista un fiore per l’occhiello, ma urta la mano della fioraia ed il fiore cade per terra. Lei si piega su un ginocchio e lo cerca. Lui glielo indica e lei non lo vede, finché il Tramp capisce che la fanciulla è cieca. La durata della scena è di settanta secondi, ma ci vollero cinque giorni di continue riprese finché Chaplin fu soddisfatto. “Non per colpa della ragazza, ma, almeno in parte, per colpa mia, perché mi ero portato in uno stato neurotico di inattuabile perfezionismo”. Per finire le riprese di City Light ci volle ancora un anno.

Il crollo in borsa
Durante la lavorazione di City Light avvenne il crollo della Borsa di Wall street. Fortunatamente Charlie Chaplin non vi fu coinvolto, come racconta nella ”My Autobiography”: “Avevo letto Social Credit, il llibro del maggiore H. Douglas, che analizzava e metteva in diagramma il nostro sistema economico, stabilendo che, basilarmente, tutto il profitto proviene dai salari. La disoccupazione, perciò, costituiva una perdita di profitto ed una diminuzione di capitale. Rimasi così impressionato da questa teoria che, nel 1928, quando la disoccupazione negli Stati Uniti raggiunse i 14 milioni vendetti tutte le mie azioni e tenni il mio capitale liquido. Il giorno prima del crash pranzai con Irving Berlin, che era pieno di speranze sull’andamento della borsa. Disse che una cameriera dove pranzava aveva guadagnato $ 40.000 in meno di un anno raddoppiando i suoi investimenti. Lui stesso possedeva un capitale azionario quotato qualche milione di dollari, che gli assicurava una rendita maggiore di un milione di dollari. Mi domandò se anch’io giocavo in borsa e risposi che non credevo ai valori della borsa quando c’erano 14 milioni di disoccupati. Quando gli consigliai di vendere tutte le azioni finché poteva ricavarne un profitto, lui si indignò. Scoppiò un litigio: ‘Perché disprezzi così l’America?’ e mi accusò di essere un disfattista. Il giorno dopo il mercato crollò di cinquanta punti e la fortuna di Irving Berlin fu spazzata via. Due giorni dopo venne nel mio studio: era sbalordito e si scusò, e volle conooscere la fonte delle mie informazioni”.

Prime prove in pubblico
Alla fine le riprese di City Lights furono completate, e rimaneva solo da comporre la colonna sonora, lavoro che Charlie Chaplin intraprese con entusiasmo, perché moriva dalla voglia di comporre lui stesso la musica. “Cercavo di comporre musica elegante e romantica per dare alle mie commedie una cornice in contrasto col Tramp, lo straccione vagabondo che ne era il protagonista. La musica elegante dava alle mie commedie una nuova dimensione emotiva. Questo, gli arrangiatori musicali non lo capivano. Loro volevano che la musica fosse divertente, ed io spiegavo loro che non volevo competizione, volevo solo che la musica fosse un contrappunto di grazia e di incanto, che esprimesse un sentimento senza il quale un opera d’arte rimane incompleta.


Il primo talkie del 1927



Qualche musicista voleva fare il saputo con me e mi parlava della restrizione degli intervalli presenti in una scala cromatica ed in una diatonica, al che rispondevo, col tono dell’ingenuo: ‘Basta che ci sia la melodia, il resto è accompagnamento’. Niente c’è di più avventuroso ed eccitante che ascoltare per la prima volta la propria musica suonata da un’orchestra di cinquanta elementi”. Quando finalmente City Lights fu sincronizzata Charlie Chaplin volle sapere che effetto faceva, ed organizzò una proiezione non annunciata in un teatro del centro. Fu una macabra esperienza, perché il film fu proiettato in una sala semivuota, avanti ad un pubblico che era entrato per assistere ad un drama ed invece si trovava di fronte ad una commedia, ed era quantomeno stupefatto, e ci mise un bel po’ prima di potersi capacitare. Ci furono anche deboli risate. Ma prima che il film fosse finito “vidi gente che si alzava e veniva su per il corridoio. Domandai se tutti stavano andandosene, ma il mio assistente mi disse che quelli andavano alla toilette. Dopo un po’ bisbigliai che nessuno tornava indietro, e mi fu fatto notare che qualcuno avrà dovuto prendere un treno. Alla fine avevo la sensazione che fossero svaniti nel nulla il lavoro di due anni e l’investimento di un milione di dollari. All’uscita il direttore del teatro mi aspettava nell’atrio e si congratulò con me. ‘È molto buono’, disse sorridendo, e come ulteriore complimento aggiunse: ‘Adesso, Charlie, voglio vedervi fare un talkie (film parlato) – è il mondo intero che lo sta aspettando”. Abbozzai un sorriso. La nostra squadra era uscita dal teatro e tutti stavano aspettando sul marciapiede. Li raggiunsi. Reeves, il nostro amministratore, di soliito sempre serio, questa volta con una sorta di gorgoglio nella voce, si congratulò: ‘Risultato splendido, mi sembra, considerando che..’ A questo punto mi resi conto che non avevo ancora fatto nulla per vendere il film. Ma in definitiva ciò non mi parve un problema insormontabile, con tutta la fama e la popolarità che mi circondava. Joe Schenck, il presidente della nostra United Artists, mi avvertì che i proprietari delle sale non mi avrebbero più offerto le stesse condizioni di qualche anno prima, al tempo di The Gold Rush (La Corsa all’Oro)”. Prima tutti attendevano col fiato sospeso ogni minima novità da parte di Charlie Chaplin, adesso preferivano temporeggiare e vedere come si sviluppavano le cose. La distribuzione si presentava particolarmente difficile a New York, ove tutte le sale erano prenotate e bisognava aspettare il proprio turno. L’unica soluzione disponibile a New York era il teatro George M. Cohan con una capienza di 1.150 posti e che non era situato nelle zone più frequentate della metropoli. E non era neanche un cinema vero e proprio: si dovevano affitare le quattro mura a 7.000 dollari la settimana, per un minimo garantito di otto settimane, e provvedere a tutto il resto: direttore, cassa, usceri, operatori, manodopera, insegne luminose e pubblicità. Poiché Chaplin era esposto di tasca sua per una somma di due milioni di dollari, decise di prendere il toro per le corna e stipulò il contratto d’affitto. Nel frattempo Reeves aveva combinato di esordire a Los Angeles in un locale appena finito di costruire.


Albert Einstein e Charlie Chaplin alla prima di City Lights



I signori Einstein
Come avevo avvertito, parlare di Einstein e di Chaplin contemporaneamente è un fatto ineluttabile, ed ora riascoltiamo la storia della prima, anzi dell’anteprima di City Lights a Los Angeles, questa volta per bocca stessa del titolare della vicenda, cioè di Charlie Chaplin, che così scrive nella sua autobiografia: ”Poiché gli Einstein erano già sul posto (Los Angeles), espressero il desiderio di intervenire alla presentazione, ma penso che non si rendessero minimamente conto in che ginepraio si stessero cacciando. Alla vigilia della première essi vennero a mangiare a casa mia, e poi ci avviammo tutti verso il centro. Per diversi isolati il corso era bloccato dalla folla. Auto della pollizia ed ambulanze tentavano di scavarsi un passaggio tra la folla che aveva infranto le vetrine dei negozi adiacenti all’ingresso del cinema. Con l’aiuto di uno squadrone di agenti, fummo spinti verso il foyer. Come odio quelle serate inaugurali, la tensione, l’odore disgustoso misto tra il muschio, il sudore ed il fumo! E l’effetto nauseante sul sistema nervoso! Il proprietario aveva costruito uno splendido teatro, ma, come gran parte degli esercenti di allora, aveva poca dimestichezza con la proiezione dei film. Lo spettacolo ebbe inizio con la presentazione dei titoli e riscosse il primo applauso della serata. E finalmente apparve la prima scena, Il mio cuore prese a battere furiosamente: era la scena dell’inaugurazione di un monumento. La gente cominciò a ridere. Le risate divennero ruggenti: era andata! Tutti i miei dubbi e timori cominciarono a svanire. Volevo piangere, Per tre bobine il pubblico non fece che ridere, e per i nervi e l’eccitazione io ridevo insieme a loro. Poi accadde una cosa incredibile: improvvisamente, nel bel mezzo delle risate il film s’interruppe! Si accesero le luci ed una voce attraverso gli altoparlanti annunciò: ‘Prima di riprendere la proiezione di questa meravigliosa commedia, vogliamo prenderci cinque minuti del vostro tempo per esporre i meriti di questo bellissimo nuovo teatro’. Non potevo credere alle mie orecchie. Diventavo matto! Saltai su dalla mia poltrona e corsi per il corridoio gridando ‘Dov’è quello stupido figlio d’un cane del direttore? Io l’ammazzo!’. Il pubblico era tutto con me, cominciò a battere i piedi e ad applaudire mentre quell’idiota inneggiava alla bellezza di quell’appuntamento in teatro. Ma quello smise all’improvviso non appena il pubblico cominciò ad inveire. Ci volle un’intera bobina prima che le risate riprendessero il loro volume. In fin dei conti le cose erano andate bene. Durante la scena finale mi accorsi che Einstein si asciugava gli occhi, prova definitiva che gli scienziati erano incurabili sentimentaloni!” Bene, anche Charlie Chaplin se n’era accorto.


Autobiografia di Charlie Chaplin



Il bollettino della vittoria
“Il giorno dopo partii per NewYork senza attendere le recensioni, perché avevo solo quattro giorni a disposizione prima della prima. Arrivato, mi accorsi con orrore che non era stata fatta nessuna pubblicità, tranne che lo stantìo annuncio che ‘Un vecchio amico torna fra noi’. Presi una mezza pagina pubblicitaria nei maggiori giornali di New York con la scritta: CHARLES CHAPLIN AT THE COHAN THEATER IN CITY LIGHT. CONTINUOUS ALL DAY AT 50 CENTS AND ONE DOLLAR. Spesi così altri $30.000 per i giornali, poi presi in affitto un impianto elettrico per l’illuminazione della facciata del teatro per altri $30.000. Non c’era tempo da perdere. Stavo in piedi tutta la notte per mettere a punto ogni dettaglio. Il giorno dopo conferenza stampa in cui spiegavo perché avessi deciso di girare un film muto. La United Artists era dubbiosa sui miei prezzi d’ingresso. I maggiori teatri caricavano al massimo 80 e 35 cents, per di più con film parlati ed avanspettacolo. La mia psicologia era basata proprio sul fatto che ssi trattava di un film muto (ma sonoro), e chi lo voleva vedere non si sarebbe spaventato per il prezzo. E tenni duro. Alla première il film venne fuori benissimo, ma a volte le première non sono del tutto indicative. Era il pubblico normale quello che contava. Chi era ancora interessato ad un film muto? Stetti sveglio tutta la notte, ma la mattina fui svegliato dal mio pubblicitario, che bussò alla mia porta alle undici in punto e strillava tutto eccitato: ‘ Ragazzi, ce l’abbiamo fatta. Che successo! Ce la fila tutta intorno all’isolato già dalle dieci del mattino ed il traffico è bloccato. Ci sono dieci agenti a tenere ordine, fanno a botte per entrare, e dovete sentire che baccano!’ Mi rilassai, ordinai da mangiare e mi feci dire dove c’erano state più risate, ed alla fine mi recai sul posto di persona…..In una sala da 1.150 posti facemmo $80.000 la settimana per tre settimane. La Paramount che ci stava di fronte, con 3.000 posti a sedere, e con Maurice Chevallier presente in persona nella stessa settimana raccolse solo $38.000. City Lights proseguì per dodici settimane e, tolte tutte le spese, guadagnò $400.000. La ragione perché fu tolto, fu a causa della richiesta dei circuiti cittadini, che volevano far anche loro la loro parte di guadagno prima che noi spremessimo la fonte fino all'ultima goccia".



(Foto Google di dominio pubblico. Video YouTube. Click per ingrandire)

martedì 21 giugno 2011

Harrison e la Longitudine

Di Luciano Zambianchi
Orologio dell'epoca ellenistica: 1° secolo avanti Cristo

Foto 1
Sono convinto che raccontare una storia sia il miglior modo di coinvolgere un pubblico su un particolare argomento. Non sempre è facile farlo, perché può capitare che sullo stesso argomento le storie siano molte e molto complicate. Tra le storie da raccontare, quella di John Harrison (Foulby, 24 marzo 1693 – Londra, 24 marzo 1776) è tra le più strane, e nonostante i miei sforzi non sono riuscito a trovare fonti attendibili in grado di confermare in modo definitivo quello che sto per raccontarvi. La contraddittorietà delle fonti è proprio strana, considerando l’importanza del personaggio, il fatto che sono passati due secoli e mezzo e, soprattutto, l’importanza di quello che ci ha lasciato Mr Harrison. Su alcune cose i biografi concordano, e potrete trovare la sua biografia essenziale anche su Wikipedia.
John Harrison (Foto 1) nacque il 24 marzo del 1693 nello Yorkshire da una famiglia di falegnami, ed era il primo di cinque fratelli. Il padre, per arrotondare, lavorava anche come custode di una tenuta di campagna. John imparò la musica in chiesa e, nonostante la sua naturale predisposizione per la meccanica, per ragioni economiche frequentò solo le scuole del suo paese e non ebbe accesso a gradi più elevati d’istruzione. 

Foto 2

Da adulto, per campare, fece il garzone nella bottega del padre e nell’officina del maniscalco del paese. A vent’anni costruì un orologio senza mai aver fatto pratica da un orologiaio: era un magnifico orologio a pendolo completamente realizzato in legno. Non fu solo la sua abilità di falegname a condizionarlo nella scelta del legno come materiale per i suoi meccanismi: conoscendo bene questo materiale, sapeva che c’erano legni che nel tempo rilasciavano sostanze lubrificanti, rendendo tutto il meccanismo autolubrificante. In seguito, nel 1712 e nel 1717, John Harrison costruì altri due orologi, sempre di legno. Nel 1722 costruì per Sir Charles Pelham un orologio con alcuni ingranaggi di legno, sistemato nella torre della sua dimora di Brocklesby Park. 

Foto 3




Questo orologio ancora oggi funziona ed è diventato un’attrazione turistica. Nel 1714 in Inghilterra era stata costituita (con il “longitude act”) una commissione per la longitudine, con l’incarico di risolvere il problema principale della flotta di sua Maestà: riuscire a definire in modo soddisfacente la posizione di una nave. La commissione era stata istituita dopo un tragico naufragio di quattro bastimenti inglesi con circa 2000 morti: le navi erano finite sugli scogli per non essere riuscite a fare il punto. Ad incentivo degli studiosi invitati a partecipare alla gara venne offerto un premio di 20.000 sterline (equivalenti a circa 7,5 milioni di euro) a chi fosse riuscito a far determinare la longitudine con un errore contenuto entro mezzo grado; 15.000 sterline a chi proponeva soluzioni entro i 2/3 di grado, e solo 10.000 a chi proponeva una soluzione con l’approssimazione di un grado. Harrison, nonostante la sua limitata preparazione accademica, decise di partecipare: aveva in mente di costruire un orologio di altissima precisione (con un errore massimo di 3 o 4 secondi al mese). Preparò i disegni del suo progetto e per evitare l’ostracismo dichiarato da Isaac Newton per gli orologi (preferendo le misurazioni astronomiche), andò a parlare con il Dr Edmond Halley (lo scopritore della omonima cometa e membro della commissione) e da questi venne indirizzato, per avere un sostegno, a Graham, che lavorava a Londra come apprezzato orologiaio. La collaborazione con Graham fu molto utile ad Harrison, che ricevette appoggio e finanziamenti. Il problema della longitudine non era di poco conto: gli scienziati ufficiali si erano dedicati al cosmo ed allo studio dei pianeti, ma poco sapevano della Terra e di come calcolare le distanze. Occorreva riuscire ad avere uno strumento in grado di stabilire la distanza (magari misurata in tempo: minuti e secondi) tra il punto solare rilevabile dall’interno della nave, ed un “punto zero” (che all’inizio, per l’Ammiragliato, fu Londra). In realtà c’erano stati già diversi tentativi, alcuni particolarmente bizzarri: venne proposto di ancorare su una immaginaria linea retta di circa 600 miglia 30 navi da guerra che alla mezzanotte di Londra avrebbero dovuto sparare enormi fuochi artificiali, visibili anche a centinaia di miglia di distanza. Altre soluzioni erano raccapriccianti: ad esempio la tortura degli animali (specialmente cani) che venivano seviziati per mesi sempre alla stessa ora e con trattamenti sempre più dolorosi: si arrivava a versare acidi e polveri urticanti sulle ferite aperte. Una volta imbarcati su una nave, questi animali per mesi, alla stessa ora, guaivano e si straziavano in attesa del supplizio. Il metodo però non aveva una sufficiente precisione e, a seconda dei casi, gli errori potevano essere di svariati minuti. 

Foto 4




La commissione stabilì che a vincere il premio sarebbe stato l’ideatore di un metodo che avesse tollerato un errore massimo di due minuti (ossia di mezzo grado) equivalente ad un errore che poteva variare dalle trenta alle trentacinque miglia (all’equatore), includendo nella verifica la circumnavigazione delle Indie. È questa la parte della storia più oscura, per il nostro Harrison. Ricorderete che la tecnica degli orologi a pendolo era già ben sviluppata all’inizio del 1700, ma un orologio a pendolo non si poteva certo utilizzare a bordo. In quel periodo c’era poi un grande problema per gli orologiai, quello della lubrificazione, gli errori nella lubrificazione erano quelli che producevano il maggior numero di guasti. Altro problema era la posizione di “ultimo arrivato” di Harrison. All’interno della commissione erano caldeggiati ed appoggiati i sistemi che facevano riferimento all’astronomia, in particolare ai satelliti di Giove, ma il vero nemico di Harrison fu il reverendo Nevil Maskelyne (1732-1811), arrogante discendente di una famiglia importante, che personalmente caldeggiava un metodo che utilizzava le effemeridi lunari. Maskelyne, che diventò astronomo reale, fece veramente di tutto per impedire la vittoria di Harrison. Sulle sue marachelle non tutti concordano, ma bastano quelle “ufficiali” per comprendere che tipo di uomo fosse. Intanto nel 1736 il nostro Harrison aveva costruito anche grazie a Graham (e con cinque anni di lavoro) un super orologio chiamato H1 (Foto 2) che sulla terra ferma conteneva l’errore entro i tre secondi al mese. L’orologio era molto ingombrante e pesante e sperimentato in mare sulla rotta Londra-Lisbona permise di ricalcolare la longitudine del porto d’arrivo. In realtà il viaggio di ritorno da Lisbona durò oltre un mese per le avverse condizioni atmosferiche e per gli forzi del comandante (che sembra fosse stato corrotto dal reverendo Maskelyne), ed all’arrivo il reverendo fece anche cadere l’orologio che si ruppe. Venne riconosciuto ad Harrison un rimborso per il danno (ben 180 ghinee, ossia 200 sterline ovvero 75.000 euro per cinque anni di lavoro). Il reverendo, come era facile prevedere, contestò le misurazioni di Harrison e si oppose all’assegnazione del premio. Nonostante questo, il Nostro iniziò subito la costruzione dell’ H2 (più piccolo ed ugualmente preciso, Foto 3) realizzato in due anni grazie ad un finanziamento anticipato dalla commissione. Anche questo orologio era però ingombrante e poco pratico, così, senza indugi iniziò subito la costruzione dell’ H3 (Foto 4), questa volta interamente in metallo e simile ad un orologio da tasca, anche se grande il doppio e con oltre un chilo di peso: Harrison si era fatta l’idea che un piccolo meccanismo non avrebbe subito le influenze del trasporto in mare.

Foto 5

John Harrison introdusse in questo meccanismo una serie di innovazioni, tra cui lamine e molle bimetalliche per compensare la dilatazione termica. La costruzione dell’ H3 durò ben 19 anni, tra il 1740 e il 1759 con l’aiuto del figlio William, e nel 1755 si rese conto che poteva essere introdotta una modifica che in parte rivoluzionava il meccanismo. Chiese pertanto alla commissione un altro finanziamento per iniziare un ulteriore modello (H4) ed un contributo per finire H3. Maskelyne si oppose e così la commissione decise di acquistare l’H3 per 112 sterline: una miseria, considerando gli anni di lavoro. L’orologio H4 (Foto 5) fu realizzato tra il 1755 e il 1759, e finalmente Harrison, soddisfatto del risultato, comunicò alla commissione di essere pronto alle verifiche ed agli esami imposti per ottenere il premio. Nel 1761 l’orologio fu imbarcato per la Giamaica, scortato dal figlio William e dal reverendo Maskelyne. William aveva l’incarico di evitare che il reverendo sabotasse l’orologio. Durante il viaggio,, che durò dal 18 novembre al 19 gennaio, ne accaddero di tutti i colori e pare che William riuscì a salvare l’orologio solo nascondendoselo addosso, ma nonostante questo venne aggredito più volte e rischiò la vita. Dal punto di vista della misurazione del tempo il viaggio fu un vero successo: l’errore rispetto al tempo universale (calcolato con metodi astronomici) fu di soli 5 secondi. Il reverendo, che svolgeva anche la funzione di astronomo reale, sentenziò che si trattava di pura fortuna e raccomandò alla commissione di non pagare il premio. Alcuni raccontano che, incaricato dalla commissione di esaminare l’orologio, lo smontò per carpirne i segreti, ma non riuscì a rimontarlo e così restituì al povero Harrison l’apparecchio mezzo smontato; invece di vergognarsi di quanto aveva fatto, se ne vantò davanti alla commissione, spiegando che il meccanismo era comunque irripetibile e frutto di anni di aggiustamenti estremamente critici. La commissione per la longitudine, influenzata da questa relazione negativa, stabilì di pagare solo la metà del premio (10.000 sterline) e sentenziò che per avere il premio completo Harrison avrebbe dovuto consegnare due copie dell’orologio e i disegni per costruirne altri. Harrison era già molto anziano e così, su consiglio di alcuni membri della commissione stessa, si affidò a Larkum Kendall, un orologiaio affidabile e capace, (ricordo che il meccanismo da riprodurre era già costato alla corona una piccola fortuna e si temeva che potesse essere trafugato o copiato da una spia di un paese nemico e usato contro la Marina inglese). 

Foto 6

Kendall realizzò il K1 (Foto 6), una riproduzione fedele dell’ H4. Questo orologio provò che il risultato ottenuto con l’H4 non era dovuto alla fortuna, e così, ancora una volta, nel 1772 a 79 anni, Harrison si presentò di nuovo alla commissione con le copie e i disegni per batter cassa. Maskelyne, che aveva nella commissione un gran potere, questa volta trovò come scusa per non pagarlo il fatto che la seconda copia non era stata realizzata da lui. Harrison, grazie ad alcuni suoi protettori si rivolse al Re che gli riconobbe i giusti meriti. A questo punto Harrison sicuro di ricevere il premio si rivolse al Parlamento per essere pagato, ma il Parlamento pur sollecitato dal Re versò solo altre 8.750 sterline come un dono speciale, e non l’intero importo dovuto. John Harrison morì nel 1776 senza aver avuto il giusto riconoscimento per il suo lavoro. Ma la storia non finisce qui: anche Kendall ne ebbe la sua parte assieme ad altri orologiai inglesi famosi, come ad esempio J. Dent, e questo lo vedremo in una prossima puntata.

Foto 1: Ritratto di John Harrison (1693 – 1776).
Foto 2: I’orologio H1 del 1736.
Foto 3: l’orologio H2 una riduzione dell’H1 del 1739.
Foto 4: l’orologio H3 terminato nel 1759 assieme al modello H4.
Foto 5: l’orologio H4 realizzato tra il 1755 e il 1759.
Foto 6: l’orologio K1 La copia dell’H4 realizzata da Larkum Kendall nel 1771.

(Foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)




lunedì 20 giugno 2011

Un Fazioli alla Juilliard School: suona Tiffany Poon

Di Marino Mariani

La Juilliard Music School all'angolo tra Broadway e la 66ma strada
Da diverso tempo stavo preparando un articolo sull’ennesima bambina prodigio scoperta su YouTube, l’esotica fanciulla di Hong Kong Tiffany Poon, ma dovevo prima sistemare Umi Garrett e poi, giunti al dunque, sono rimasto folgorato da una notizia che, pur risalendo al 28 marzo scorso, non ha perso un grammo della sua forza d’urto. Il titolo con cui l’annunciava il giornale di Vancouver (città dove s’è svolta un’importante mostra internazionale di pianoforti) “THE GLOBE AND MAIL”, era il seguente: “Juilliard breaks with all-Steinway tradition, purchases a Fazioli”, ovvero: “(La scuola di musica) Juilliard rompe la tradizione di solo-Steinway e compra un Fazioli”. Ed ecco la traduzione del testo secca e senza abbellimenti:

La Scuola Juilliard, da lungo tempo un’istituzione esclusivamente Steinway, sta infrangendo la tradizione acquistando un piano non Steinway. Paolo Fazioli, il fabbricante italiano di pianoforti, sarà a New York alla fine di questa settimana per completare la trattativa con Juilliard, dopo che la scuola d’arti interpretative ha deciso di acquistare uno dei suoi costosi, fatti a mano – ed agognati – pianoforti. “Sono molto felice”, ha fatto sapere Fazioli da casa sua a Sacile a nord di Venezia, lunedì sera – annunciando di voler rimanere cauto fino alla conclusione dell’accordo. “Sono commosso, ovviamente. È una situazione veramente speciale”. Il pianoforte Fazioli, che costa una somma a sei cifre, si trovava in prestito presso la prestigiosa istituzione nuovayorkese, sin dallo scorso ottobre, a titolo di prova. I pianoforti Fazioli sono i più costosi presenti sul mercato, e vanno da ca. $ 80.000 (dollari canadesi) per un modello a mezza coda, fino a $ 225.000 per un gran coda da concerto standard. Modelli speciali con fiati e campane arrivano fino a $ 500.000. I commenti sono stati favorevoli, ma la politica di vendita dei pianoforti è feroce e, secondo certe fonti, c’è stata una forte pressione sulla Juilliard perché rimanesse una scuola solo-Steinway, come avviene dal 1924. “C’è di mezzo la politica”, aveva detto Fazioli al Globe un paio di mesi fa, durante il periodo di prova. “In una situazione come questa…non si può prevedere nulla”. La scuola si era rivolta al rappresentante di Fazioli sin dall’anno scorso, con la proposta della prova. Sulle prime Fazioli disse di sentirsi a disagio all’idea, ma alla fine fu d’accordo “Perché Juilliard è Juilliard”.
Ing. Paolo Fazioli

A febbraio Juilliard ha utilizzato il Fazioli per l’audizione degli studenti, dopodiché un funzionario della scuola dichiarò che volevano procedere all’acquisto. Anche diversi studenti della Juilliard l’hanno provato. “È un grande strumento dal suono bellissimo”, ha dichiarato il 21enne Devon Joiner, un pianista di Vancouver al primo anno di perfezionamento in esecuzione pianistica alla Juilliard. “Il meccanismo è agile e facile da controllare, mentre il suono è molto dolce e si espande bene. Con questo strumento è difficile produrre un suono duro e sgradevole. Decisamente, è un piacere suonarlo”. Da gennaio Juilliard aveva anche uno Yamaha CFX in prova – fatto senza precedenti. Juilliard non ha voluto commentare questa storia, e lunedì ancora affermava che il Fazioli della scuola era “in affitto”. Per Fazioli l’affare in corso con la Juilliard rapresenta un fiore all’occhiello. Comunque, Steinway & Sons di New York rimane saldamente padrone del mercato, vantando a suo credito 125 scuole solo-Steinway. Steinway produce in tutto il mondo ca. 2.500 pianoforti l’anno (di cui ca. 2.000 da concerto), mentre la produzione annua di Fazioli è di ca. 110 pianoforti, tutti da concerto. Con l’acquisto del Fazioli – ed anche se acquistasse per giunta lo Yamaha – Juilliard rimarrebbe una scuola solo-Steinway, perché, per definizione, il 90% degli strumenti posseduti dall’istituto devono essere di designazione Steinway. Juilliard possiede ca. 260 Steinway. Sally Coveleskie, della Steinway, raggiunta lunedì al congresso della Music Teachers National Association a Milwaukee, ha dichiarato di ignorare la decisione di Juilliard di acquistare un Fazioli. “Sarebbe sorprendente”, ha detto.

Facili frasi ad effetto: “David contro Golia”, oppure: “Crollano le mura di Gerico!”…Ma senza significato: David Fazioli non abbatterà Golia Steinway e le mura della Steinway non crolleranno al suono melodioso dei pianoforti Fazioli, perché i due contendenti non corrono sullo stesso binario. Steinway ha dalla sua secoli di altissima tradizione ed una rete commerciale finemente intessuta a ricoprire ogni cmdel nostro pianeta. Steinway tiene sotto contratto d’esclusiva l’80% di quasi 2 migliaia di pianisti professionisti, mentre l’ingegner Paolo Fazioli, che ha cominciato a fabbricare pianoforti nel 1981, è contrario a porre vincoli alla piena libertà di scelta dell’artista, e rifiuta il sistema dei contratti in esclusiva. Ma la sua vittoria indiscussa è quella che gli conferisce l’opinione pubblica: sì, Steinway è più forte, ma Fazioli suona meglio. E quindi sin d’adesso Fazioli si pone nell’immaginario collettivo come l’ambita inarrivabile chimera. Ah, se Aimi Kobayashi avesse suonato su un Fazioli! Ah, se Umi Garrett avesse suonato su un Fazioli! Ah, se Tiffany Poon avesse suonato su un Fazioli! Ma fermi tutti: Tiffany Poon ha suonato su un Fazioli e noi siamo lieti di presentarla ai nostri lettori, sparsi in tutto il mondo (in data odierna: 1.405 in USA, 1.158 in Svizzera, segue il Giappone e poi la Germania…) in tutto lo splendore del Fazioli da concerto di stanza alla scuola Juilliard di New York.



Tiffany Poon

Tiffany Poon
I nostri lettori sono ormai abituati alla nostra frenesia nei confronti delle bambine prodigio come la Kobayashi e la Garrett che, prima di essere pianiste di prima astronomica magnitudo, sono esserini morbidi e dolci, da abbracciare e sollevare e coprire di baci, che si fondono nel tripudio generale. Tiffany Poon, che pur anagraficamente appartiene a questa schiera, no. Di lei Dante avrebbe detto:

                             Dolce colore d'oriental zaffìro
                             che s'accoglieva nel sereno aspetto
                            .................

Sandro Botticelli le avrebbe disegnato la “front bombé”, l’orecchio ed il nasino. Il capitano Emilio Salgari l’avrebbe chiamata “La Perla di Labuan”, mentre il suo ieratico riserbo evoca la figura di Cecilia, la Santa della Musica. Di lei, come al solito, i siti che la promuovono riportano puntigliosamente tutti i concerti tenuti e le date precise di quelli che avverranno. Le competizioni cui ha partecipato o cui parrteciperà, e tanti altri avvenimenti, escludendo sistematicamente la data di nascita, qualche notizia riguardante i genitori, i primi insegnanti…Poiché per quest’anno è data per essere quattordicenne, applicando i più complessi strumenti matematici, si può dedurre che sia nata nel 1997, ma ce n’è voluta per stabilire il dato di partenza! Un’altra traccia che si presentava come molto promettente è quella di una conferenza tenuta nel 2004 ad Hong Kong dal professor Gary McPherson, uno specialista americano nello studio dello sviluppo musicale nei bambini. Al termine, recandosi in un ristorante, il professore si accorse di essere seguito da un signore, che era poi il padre di Tiffany Poon, che gli espose il caso di sua figlia, dotatissima nel pianoforte, che suonava a memoria, ma con una strana idiosincrasia per i suoi insegnanti, al punto di averli rifiutati, uno dopo l’altro, tutti e dieci! Qui il racconto si fa assolutamente inconcludente e la successiva notizia ci porta in una località della California ove Tiffany Poon, all’età di 7 anni (quindi ancora nel 2004) prende lezioni dall’insegnante Mikhail Korzhev di origine russa, e c’è un bel video in cui maestro e allieva suonano insieme, che infatti pubblichiamo. Ma in corrispondenza di questo evento succede qualche cosa di strano: ci sono su YouTube numerosi video di questa signorina Tiffany, che viene prima chiamata “Tiffany Koo”. Poi, nel video col maestro Korzhev viene chiamata “Tiffany”, e nei successivi assume la denominazione di “Tiffany Poon” e viene presentata come allieva dei corsi preparatori della scuola Juilliard di New York, ma segnata alla scuola Calhoun, presso la quale dovrebbe conseguire il diploma.


Tiffany "Koo" (?)

Da questo momento in poi YouTube viene letteralmente invaso dai video di Tiffany Poon che, tra le bambine prodigio di nostra competenza, è di gran lunga la più prolifica e quindi la sentiremo molto spesso, anche nelle antiche e deposte sembianze di Tiffany Koo. Ma in questa puntata l’evento centrale è l’opportunità di sentirla a bordo del pianoforte da concerto Fazioli “in prova” presso la scuola Juilliard di New York, sul quale sono state effettuate audizioni e saggi degli allievi. Setacciando e sgrullando per bene YouTube abbiamo trovato cinque brani suonati da Tiffany Poon sul Fazioli, ma c’è la speranza, se la scuola perfezionerà l’acquisto o prolungherà l’affitto, di ascoltarne altri ancora nel prossimo futuro. Ebbene, la nostra prima play-list, e cioè l’elenco di titoli cuciti l’un l’altro, da eseguire nell’ordine stabilito, è quella in cui la piccola sfinge orientale suona diligentemente col maestro dottor Mikhail Korhev, e ad un sentimentale (come me) evoca l’immagine di Domenico Scarlatti che insegna alla sua allieva principessina Maria Magdalena Barbara di Portogallo la prima delle sue 555 sonate per clavicembalo. Quando costei divenne Regina di Spagna, Domenico Scarlatti si legò a lei per il resto della vita e trascorse al suo fianco i suoi ultimi venticinque anni. Ma, dati i precedenti, è più probabile che Tiffany Poon si sia sbarazzata del suo maestro moscovita dopo poche lezioni. La lista è completata prima dal “Clair de Lune” di Debussy, eseguito all’età di 10 anni, nel suo saggio d’esordio alla Juilliard School: è incredibile la tranquillità con cui la fanciulla affronta quella che poteva essere una prova del fuoco. Ella dipana la sua interpretazione ricercando la bellezza del suono e dell’espressione, completamente aliena alla necessità di mostrare la sua bravura. Segue, nella lista, e la chiude, la fantasie-impromptu di Chopin eseguita a 11 anni al Krannert Center di Urbana-Champaign (Illinois) in un concerto promosso dal professor McPherson. Si tratta di un brano di cinematografica bravura, tant’è vero che Josè Iturbi lo eseguì in un film in bianco e nero del 1941, lasciando il pubblico stupefatto e convinto che lui fosse il più grande pianista di tutti i tempi.



(ATTENZIONE: dopo la pubblicazione di questo articolo, il professor Gary McPherson dell'Università di Melbourne precisa che la bambina che suona con l'insegnante Dr. Korzhev NON è Tiffany Poon. A titolo di curiosità manteniamo in onda questo video incriminato, in attesa di scoprire chi è quest'altra bravissima Tiffany).

Questo episodio l’ho ricordato nell’articolo su Umi Garrett, che ha eseguito questo brano all’età di 9 anni, e se l'andiamo a risentire, possiamo renderci conto delle differenze tra le due piccole pianiste: l’americana, che ho paragonato a Shirley Temple, ha suonato con oltracotante bravura, e muore dalla felicità perché sa che meglio suona, più la gente è felice. Tiffany Poon, invece, non si fa carico (apparentemente) della felicità altrui, ma seguita a scavare in se stessa, per portare al sommo dell’espressività ogni fremito, ogni palpito, ogni moto della sua interiorità. E così si espone sul ciglio del burrone della meditazione, dell’indugio, del sussurrato, dell’accelerato improvviso, del fortissimo, della volata passionale in cui esprime il suo empito volitivo: bella fuori, ineffabile e misteriosa dentro. E siamo così arrivati alla seconda e terza play-list, in cui cinque esecuzioni di Tiffany Poon sullo Steinway si confrontano con altrettante esecuzioni sul Fazioli.

Il confronto tra Fazioli e Steinway
Avendo a disposizione cinque brani suonati da Tiffany Poon sul Fazioli della scuola Juillard, li ho confrontati con altrettanti brani suonati in quattro casi su cinque su Steinway nella stessa sala d’ascolto della scuola, mentre in un caso su cinque ho preso un brano suonato da Tiffany Poon su uno Steinway posto nella sala da concerto del Krannert Center di Urbana-Champaign (Illinois). Ecco la composizione di queste due play-list di spareggio, indicando con “S” l’iniziale di Steinway, con “F” l’iniziale di Fazioli.

Play-list n.2
1. (S) Tiffany Poon (11): Liszt-Rigoletto Paraphrase
2. (F) Tiffany Poon (13): Ravel-Jeux d’Eau (HD)
3. (S) Tiffany Poon (13): Chopin-Nocturne in Si bemolle minore op.9, n.1 (HD)
4. (F) Tiffany Poon (13): Chopin-Nocturne in Fa diesis maggiore op.15, n.2 (HD)
5. (S) Tiffany Poon (12): Chopin- Andante Spianato e Grande Polacca Brillante

Play-list n.3
1. (F) Tiffany Poon (13): Chopin-Barcarola in Fa diesis maggiore op. 60 (HD)
2. (S) Tiffany Poon (12): Bach- Partita n. 1 in Si bemolle maggiore, parte 2
3. (F) Tiffany Poon (13): Bach-Suite Francese n. 5 in Sol maggiore (HD)
4. (S) Tiffany Poon (11): Chopin-Scherzo n.2, op.31
5. (F) Tiffany Poon (13): Beethoven Moonlight Sonata (HD)

Il numero tra parentesi che segue il nome di Tiffany Poon indica la sua età al momento dell’evento. Ebbene, da questo momento in poi io darò il mio giudizio, ma i lettori hanno esattissimamente a disposizione gli stessi elementi di giudizio che ho io, per esprimere il loro giudizio. Paradossalmente, anche l’ingegner Paolo Fazioli ha l’opportunità di giudicare i suoi pianoforti, non come li giudicherebbe il loro papà, ma un qualsiasi astante che potesse ascoltare, spassionatamente, l’uno e l’altro dei due strumenti. Ebbene, il verdetto non ha nulla di sorprendente, semplicemente sancisce la larga, netta, risaputa vittoria del pianoforte Fazioli. Nessuno che dovesse amministrare centinaia di scuole di musica in tutto il mondo, con migliaia di allievi, potrebbe fare una scelta migliore di un pianoforte Steinway per qualità, prezzo e servizio, ma chi vuole il suono di uno Stradivario dei pianoforti lo trova in un Fazioli. Ma, secondo me, c’è molto più differenza tra un Fazioli ed un altro pianoforte, che non tra uno Stradivario ed un altro violino. Ed infatti tale differenza è fatta non solo dalla qualità del suono, dalla sua timbrica, dalla sua composizione spettrale, ma dall’intera costruzione del suono Fazioli. Nella sua autobiografia Franco Zeffirelli descrive la tragedia della Callas declinante, che sentiva la sua voce sortire non più fiorente e spontanea, bensì ruvida e incontrollata, mentre la stella nascente austrialiana Joan Sutherland emetteva intrepidi suoni lunghi, fil di voce che non si spegnevano mai. E questi suoni lunghi che non finivano mai erano coltellate nel cuore della Callas. Il pianoforte Fazioli ha il suono lungo che costruisce spontaneamente il legato dei pianissimi, dei fremiti e dei sussurri, l’inestinguibile fil di voce della Sutherland. E la disponibilità del suono lungo cambia radicalmente la scenografia, la sceneggiatura e quindi l’interpretazione del brano. L’adagio sostenuto del Chiaro di Luna che Tiffany Poon dipinge sul Fazioli non è soltanto la romantica contemplazione del passeggero cullato dalle onde del Lago dei Quattro Cantoni con vista sulle luci della città di Lucerna (Ludwig Rellstab), ma è l’epica dolente e fidente trasmigrazione di un popolo intero guidato dal suo profeta tra le dune del deserto in un mediorientale plenilunio notturno: il suono lungo e l’ottava grave del Fazioli aggiungono drammaticità allo spartito, mentre l’ottava alta risuona lontana come un miraggio. Il successivo allegro diventa l’incontro galante e dolente degli amanti sul Ponte dei Sospiri, mentre il presto agitato è la beethoveniana tumultuosa perorazione dell’amore romantico e, contemporaneamente, l’appassionata adesione dei palpitanti cuori femminili: il suono lungo ed il legato intrinseco del pianoforte Fazioli rendono irresistibili dichiarazioni d’amore i cantabili di Beethoven.




Ma un altro impagabile pregio del pianoforte Fazioli si nota particolarmente nella Suite Francese di Bach, ed è quello dell’assoluta omogeneità ed isotropismo acustico di tutte le note, una per una, della tastiera, nei forti e nei piani, mantenendo praticamente immutata la qualità spettrale in tutte le condizioni d’impiego. In tutti i pianoforti, come nelle casse acustiche di un impianto hi-fi, l’ingresso di forme d’onde ad alta dinamica (i fortissimi orchestrali) determinano l’insorgere di distorsioni armoniche e d’intermodullazione: il suono si deteriora, diventa sforzato, scomposto, indurito, legnoso o metallico, rauco e comunque non cristallino, non argentino. Il pianoforte Fazioli, invece, deve avere un tasso di distorsione bassissimo, perché anche negli accordi a dieci dita suonati con tutto il peso possibile si mantiene argentino, cristallino e, complessivamente armonioso. C’è qualche cosa di desmodromico nella meccanica del suono Fazioli: come nelle moto Ducati le valvole non vengono rilasciate mediante una molla elastica o per la pressione dell’aria compressa, bensi per un iter cinematico determinato da un algoritmo meccanico, così il movimento di un pianoforte Fazioli appare rigidamente controllato in ogni sua fase, quella dell’eccitazione, dell’emissione e dello smorzamento del suono. Tutto ciò è quanto il lettore comune può rilevare all’ascolto nudo e crudo dei brani proposti, ed è per pura curiosità scientifica che chiederò all’ingegner Paolo di fornire ai nostri lettori qualche dettaglio sul disegno dei suoi pianoforti.

Il Fazioli Brunei
Da anni, anzi da decenni, conosco Roberto ed Ennio, due dei sei fratelli Fazioli, che abitano a Roma. In un periodo in cui neanche lontanamente pensavo di tornare all’editoria, tantomeno via web, Roberto prima mi fece leggere un libro in cui si parlava dei pianoforti Fazioli, e poi mi diede un catalogo illustrato della ditta del fratello Paolo, in cui si illustravano le virtù dell’abete rosso della Val di Fiemme. Ma sfondava una porta aperta, perché dei pianoforti Fazioli mi avevano già parlato due miei cari amici, che ora mancano all’appello, entrambi Direttori di Conservatorio, a Terni e a Frosinone e forse anche in qualche altra sede, i quali ne avevano caldamente consigliato l’acquisto da parte dei relativi istituti. I quali miei cari amici sfondavano anch’essi una porta aperta, perché io i pianoforti Fazioli li avevo visti a Zurigo, esposti nella vetrina di un negozio Hug della Orell-Füssli Strasse (ora spostato in una sede maggiore). Hug è la maggiore Casa Musicale di tutta la Svizzera, ed è una delle maggiori del mondo, comunque una delle poche superstiti, ed ha negozi in molte città. L’esposizione in una vetrina di Hug è sempre un avvenimento che desta risonanza. Anni fa ho scritto per la rivista Suono una serie di sei articoli sul Requiem di Verdi, il quale fu dato il 22 maggio 1874 nella chiesa di San Marco a Milano. In tale occasione il maestro Hans von Bülow, primo marito di una donna della statura di Cosima Wagner, nata Liszt, si rese protagonista di alcune miserevoli bravate, come gli annunci sui giornali “Di non essere venuto a Milano per l’esecuzionie del Requiem di Verdi, bensì…”. Von Bülow scrisse anche a Johannes Brahms, in vacanza sul lago di Zurigo, credo a Wädenswil, denigrando l’opera di Verdi. Al che Brahms fece montare la carrozza e si diresse al gran galoppo verso Zurigo. Ivi irruppe nel negozio Hug, acquistò la partitura del Requiem, gli diede un’occhiata e disse: “Questa è l’opera di un genio!”. In seguito von Bülow si pentì e chiese scusa. Bene, in quella stessa vetrina ho visto esposti per la prima volta i pianoforti Fazioli, parlai col direttore, feci un paio d’arpeggi e mi dileguai. In definitiva, solo adesso sono riuscito a sentire il suono Fazioli in veri e propri brani da concerto. Fortunatamente, dagli albori ad oggi, si è fermamente stabilito e confermato il suono digitale, in cui ogni copia è integra esattamente come l’originale, senza degrado da passaggio a passaggio, e così i nostri lettori hanno avuto la stessa grande occasione. Una riflessione: anch’io, per diversi anni, ho giocato col computer al risparmio, mentre da diversi anni ho cambiato politica: compro il modello Mac più costoso e lo cambio non appena esce il modello nuovo. Vedere i filmati in alta definizione su uno schermo da 27” (il mio televisore è di 32”, solo 5" maggiore del Mac) è uno spettacolo da non perdere. Il mio impianto hi-fi di famiglia è a Zurigo, e qui a Roma, nelle grandi occasioni, ascolto con una cuffia Sony assai costosa comprata una decina d’anni fa. È ciò che consiglio ai lettori, perché ormai il patrimonio videomusicale generato da internet è assolutamente preponderante rispetto a quanto possa offrire la TV e ingigantisce giorno per giorno, ora per ora.

Il Fazioli Brunei

Roberto Fazioli, con cui sono in maggior confidenza, mi parlò anche di un modello F 308, un pianoforte unico al mondo lungo, come dice la sigla, oltre tre metri, destinato al Sultano di Brunei, e quindi confezionato in un’edizione speciale di grandissimo lusso, adornato di pietre dure, madreperla, inserti intersiati e radica di sequoia. Pensavo che si trattasse di un modello veramente unico, e pensavo che in tutto il mondo l’unico cliente possibile fosse quel Sultano, e poi basta. Ma la realtà supera l’immaginazione, perché i modelli Brunei e Brunei II sono entrati nel catalogo generale della Casa,e sono a disposizione di chiunque voglia acquistarli a 400.000 $ (USA). In genere chi spende queste cifre vuole l’assicurazione di acquistare il meglio assoluto. Clienti potenziali sono coloro che acquistano una Maybach invece che una Mercedes, una Lamborghini invece che una Ferrari, o una Bugatti invece che una Lamborghini. Un gran numero di Hotel di super lusso si vantano di possedere un F308 e qualche versione Brunei. A dire la verità il pianoforte più costoso che esista in commercio è il Kuhn-Bösendorfer, che consiste in una creazione dell’artista John Kuhn, specializzato nella scultura del vetro a freddo, che fornisce un gran coda Bösendorfer guarnito di 100.000 (centomila) gioielli di vetro tagliati a freddo e lucidati, in cambio di 1,2 milioni di dollari, un anno e mezzo di lavoro. Il pianoforte suona benissimo e Valentina Lisitsa ha inciso un brano disponibile su internet, esattamente il Preludio op. 32 n.!2 di Rachmaninoff. Lo stesso brano, suonato sempre da Valentina Lisitsa, è disponibile su Bösendorfer Imperial non guarnito dei 100.000 gioielli in vetro, e suona anche meglio. Come dimostra anche una esecuzione di Olga Zdorenko dello stesso brano. Comunque, il più costoso dei pianoforti Bösendorfer non dovrebbe eccedere i 180.000 €, e quindi il milione in più per i vetrini….Ma lasciatemi concludere il mio pensiero: il pianoforte Steinway, miglior acquisto possibile in molti casi pratici, non regge il confronto col Fazioli come qualità del suono. Un sogno sarebbe la pubblicazione di un'edizione nazionale delle 555 sonate di Scarlatti, eseguita da un nugolo di banbine prodigio, su pianoforte Fazioli. Le case discografiche, grandi e piccine, ma specie quelle minori che vogliono far parlare di sé, farebbero bene ad adottare  il Fazioli come ammiraglia delle loro registrazioni  ad alta fedeltà digitale.

(Foto Google di pubblico dominio. Video YouTube. Click per ingrandire)

mercoledì 15 giugno 2011

Il Barbiere di Siviglia

Di Marino Mariani

Gioachino Rossini

Il 20 febbraio 1816 il teatro Argentina in Roma fu…teatro di un episodio unico in tutta la storia della musica operistica: il pubblico inferocito fischiò ed interruppe più volte la prima rappresentazione di un'opera  buffa, Il Barbiere di Siviglia (ossia L’Inutile Precauzione), diretto dal suo 24enne compositore Gioachino Rossini. Si dirà che il fiasco di una prima teatrale è un evento tutt’altro che raro, ma in questo caso vediamone i particolari: una notevole parte del pubblico era venuta in teatro per dare battaglia al giovane autore che aveva osato riprendere il titolo e l’argomento di un altro Barbiere di Siviglia, composto dall’autorevole maestro napoletano Giovanni Paisiello. I seguaci di Paisiello non attendevano altro che la minima occasione per scatenarsi. E le occasioni non mancarono. Sin dalle prime note alcuni spettatori avevano riconosciuto nella sinfonia dell’opera la sfacciata copiatura di brani delle sue precedenti opere Aureliano in Palmira ed Elisabetta Regina d’Inghilterra, ed avevano cominciato a rumoreggiare, dando fuoco alle polveri.


Il teatro Argentina




Poi ci si mise il tenore Garcia che, passato in seguito alla fama imperitura non solo come autore di un celebre trattato sull’insegnamento del canto, quanto padre di due storiche cantanti: Maria Malibran e Pauline Viardot, quella sera non ne azzeccò una. Rossini gli aveva dato licenza di cantare come serenata qualche sua canzone spagnola, ed evidentemente le sue scelte non raccolsero i favori del pubblico. Che poi scoppiò in una vera bolgia quando al povero Garcia saltarono, una dopo l’altra, le corde della chitarra. Ma il pubblicò forse si sentì in colpa per aver coinvolto nella disfatta una sua diva prediletta, il contralto di coloratura Geltrude Giorgi Righetti, che fu dunque la prima Rosina della storia. E la serata successiva in sala non ci fu il vuoto, bensì il pieno. Anzi il pienone, il pienissimo che ormai da un paio di secoli accompagna quest’irresistibile opera di Rossini, la più antica a mantenersi viva e pronta nel repertorio di tutti i teatri del mondo, sicuramente la più applaudita sopra ogni altra. L’iniziale disfatta del Barbiere di Roma fu dunque un episodio assolutamente unico, perché non s’è mai sentito che l’opera non fosse accompagnata e interrotta dallo scroscio degli applausi e dalla richiesta di bis. L’opera è assolutamente magnetica, ed i cantanti più famosi del mondo hanno voluto parteciparvi anche fuori ruolo, e così abbiamo avuto Rosine interpretate da soprani (invece che contralti o mezzosoprani) come Roberta Peters, Kathleen Battle e…Maria Meneghini Callas, mentre neanche il tenore Placido Domingo ha resistito alla tentazione di interpretare la parte di Figaro, destinata al baritono. 


Il tenore Manuel Garcia


Chi legge i miei articoli, sa che avevo una nonna, la madre di mia madre, che a noi bambini non regalò mai un giocattolo o un dolcetto, ma ci regalava, in cambio, libri, ci faceva leggere e scrivere, ci insegnava il francese ed il solfeggio, e ci portava al Teatro Reale dell’Opera a vedere il Barbiere di Siviglia. E così, dall’infanzia, a casa nostra si canticchiava “Buonanotte, mio signore”, “Una voce poco fa”, “La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile…”, "Figaro qua, Figaro là... e bravo Figaro, bravo bravissimo, fortunatissimo, fortunatissimo...." nonché l’aria di Berta “Il vecchiotto cerca moglie…” che però solo in un periodo relativamente recente ho sentito in questa accezione, perché noi dicevamo ”Il vecchietto cerca moglie…”, senza contare che il fischio di famiglia era sull’aria di “Largo al factotum della città”. Il libretto di Cesare Sterbini è quanto di meglio ci possa essere: è spiritoso ed assai elegante. Rossini compose il Barbiere in tre settimane, e Donizetti commentò: “Lo sappiamo tutti, Rossini è bravo, ma non ha voglia di lavorare…”. Nel 1988 il mezzosoprano Cecilia Bartoli fece due cose assolutamente straordinarie, la prima delle quali la vissi in diretta: a solo 22 anni incise per la Decca il Barbiere con l’orchestra del Comunale di Bologna sotto la direzione del maestro Giuseppe Patané, ottenendo un successo…non immediato! Infatti i maggiori mensili di Alta Fedeltà e Musica europei, ed in prima linea le riviste in lingua tedesca, recensirono Il CD della Decca con sufficienza, mettendo in evidenza il grigiore generale della compagnia di canto (Povero Patané, non gli hanno dato gli artisti che meritava…). Ma, incredibile ma vero, ci ripensarono, e nei numeri successivi esaltarono la prova di Cecilia Bartoli dicendo che, per l’età, già doveva considerarsi superiore alla Callas. Rapidamente questo Barbiere, ma soprattutto la Bartoli, scalarono tutte le classifiche, e la prima edizione raggiungibile della The Penguin Guide to Recorded Classical Music la mise al primo posto, ove ancora sta (e sono passati più di vent’anni). Vissi (quasi) in diretta questo avvenimento perché mia moglie ed io avevamo un carissimo amico, l’attore cinematografico Edmund Purdom (protagonista del primo film in Cinemascope, “Sinué l’Egiziano”), che aveva sposato un’altra nostra amica Vivienne. Costei cominciò ad interessarsi di fotografia vedendo com’era attrezzato il mio laboratorio casalingo, in cui passavo le notti a sviluppare e stampare le mie fotografie. Ed era diventata una fotografa talmente brava nell’eseguire i suoi “Ritratti in Azione”, da guadagnarsi il ruolo di beniamina tra molti direttori d’orchestra, artisti e cantanti lirici. E così seppi che era lei la fotografa ufficiale di Cecilia Bartoli, e mi fornì prezioso materiale per certi miei articoli. 


Cecilia Bartoli

Ma la maggior impresa di Cecilia Bartoli, compiuta sempre nel 1988, in contemporanea o addirittura prima della sua registrazione col maestro Patané, fu la sua registrazione televisiva in occasione del Festival di Schwetzingen, una città tedesca vicina ad Heidelberg, con l’orchestra sinfonica della radio di Stoccarda sotto la direzione di Gabriele Ferro, ed è proprio il Barbiere di Schwetzingen, fortunatamente reperibile su YouTube, quello che ho deciso di pubblicare. Un vero colpo di fortuna.  E con un nugolo di artisti internazionali di cui solo alcuni mi erano noti. Tra cui il baritono italo-canadese Gino Quilico, un ottimo e comprovato interprete rossiniano (ma l’ho sentito anche in Carmen). Un altro che mi era noto era il basso inglese Robert Lloyd, un don Basilio dalla voce sepolcrale come tradizionalmente vuole il ruolo. Mi era completamente ignoto il conte di Almaviva, e cioè il tenore David Kuebler che, col suo nome così svizzero, è invece americano (canta benissimo). Ma la sorpresa maggiore è stata il basso argentino Carlos Feller, interprete di un don Bartolo invero eccezionale. Ebbene, questa compagnia, pur raccolta dalle sedi più disparate, mi sembra una fedele rappresentazione delle compagnie di canto italiane, quando in Italia presidiavano i 400 teatri provinciali che c’erano in tutta la Penisola all’inizio del secolo scorso. E presidiavano altrettanto validamente i maggiori teatri dell’America del Sud, dell’America del Nord, della Russia….Per quanto riguarda la compagnia di canto del Festival di Schwetzingen, il personaggio meno fornito di credenziali era proprio Cecilia Bartoli, che cominciava la sua carriera proprio in quell’occasione. Il resto dei cantanti erano esperti e perfetti, come canto, come pronuncia italiana, come voce proiettata nelle migliaia di metricubi d’aria della sala, come costumi, come azione scenica. Ci si lamenta della graduale sparizione del “basso buffo all’italiana”, gradualmente sostituito da baritoni sempre più leggeri. In questo Barbiere di bassi profondi, cavernosi, ampollosi, magniloquenti, buffi alla vera italiana ce ne sono addirittura due, perché oltre a don Basilio anche don Bartolo lo è in piena regola. Nel Barbiere il compito dei comprimari è quello di essere anche migliori dei principali: guai a quella favola per bambini in cui l’Orco non avesse la voce tonante e cavernosa di…un comprimario (per esempio se parlasse in falsetto). Ma torniamo a Cecilia Bartoli, che tra i tanti meriti ha avuto il merito dei meriti di essere…fortunata. La Decca ha creduto subito in lei e l’ha protetta con un eccezionale fuoco di sbarramento, bombardando di pubblicità i negozi di dischi, gli organi di stampa d’ogni ordine e grado, la TV...Anzi, in TV ho visto una cosa che non avevo mai visto, e cioè un documentario su come studiava sotto la guida della madre, la signora Silvana, le sue abitudini ed i suoi passatempi, qualche esibizione di canto e ballo (voleva diventare una ballerina di flamenco). E come sfrecciava per le vie di Roma sulla sua (vecchia) 500 rossa. Mi ricordo benissimo di un suo passaggio a volo radente su via dei Fori Imperiali. Devo dire che ella è romana come me. E poi è diventata zurighese come me. Una volta, dopo un concerto, le ho domandato che fine avesse fatto la sua (vecchia) 500 rossa, e lei mi rispose che ce l’aveva ancora. 


Maria Malibran


A Zurigo Cecilia Bartoli è un’ospite amata e festeggiata, e chi l’incontra in un negozio o a passeggio, la saluta e viene festosamente ricambiato. A Zurigo Cecilia Bartoli ha grandi rapporti con l’orchestra “La Scintilla”, fondata e diretta da Ada Pesch “Konzertmeisterin” (Primo Violino) dell’Opera di Zurigo, con cui ha fatto numerose ed appaludite tournée all’estero. Ada Pesch è figlia di un astronomo di Cleveland che è stato collega del prof. Caprioli, uno dei maggiori collaboratori di Audiovisione (la mia antica rivista di high fidelity) ed attualmente collaboratore anche di Famiglia Moderna. Per darvi un’idea dell’evoluzione di Cecilia Bartoli da quando esordì a 22 anni al Festival di Schwetzingen ad oggi, allego un paio di filmati ripresi durante un acclamato concerto a Barcellona, in cui si esibisce con l’orchestra “La Scintilla” diretta da Ada Pesch, dedicandolo alla memoria di Maria Malibran. Quasi dimenticavo di dire che questo Barbiere di Siviglia è particolarmente dedicato ai bambini che finora si sono divertiti con i Cartoni Animati di Walt Disney, e poi con Biancaneve e i Sette Nani, e poi con Mary Poppins. Il Barbiere fa parte della serie.





(Foto Google di dominio pubbllico. Click per ingrandire)

sabato 4 giugno 2011

restaurare

Un restauro ed una storia di famiglia

Di Luciano Zambianchi
Orologio dell'epoca ellenistica: 1° secolo avanti Cristo

Foto 1


Foto 2





Restaurare, come ricorderanno i nostri lettori è l’arte del correggere, senza cancellare del tutto, le ingiurie del tempo. Far tornare come nuovo un orologio cambiando tutto quello che si può spesso lascia deluso il committente che vede cancellate le tracce della storia sua e della sua famiglia. Trovare un equilibrio tra le varie esigenze è facile a dirsi ma è lasciato alla sensibilità del restauratore. Penso di far cosa gradita portando l' esempio di un mio recente restauro e del relativo modus operandi.

Esame dell’oggetto (scheda tecnica)
Orologio da tasca in argento con cassa a doppia chiusura (Foto 1), fregi standard sulle parti esterne dei coperchi, il bordo del castello è lavorato a moneta. Sul coperchio superiore, nello scudetto riservato al monogramma è incisa, in modo artigianale, una “G” e subito sotto “Gino De Maglie”. All’interno il coperchio superiore riporta il numero 50, il punzone del leone e una scritta in corsivo graffiata sul metallo e leggibile solo a luce radente: “Gino De Maglie studente a Carpignano Lecce 80” . “Carpignano Lecce” sembra scritto con una grafia diversa .


Foto 3

La cuvetta, con due buchi per permettere l’accesso al meccanismo di carica e di rimessa, nella parte interna ha inciso il numero del movimento (33850) e tre sigle di uno stesso orologiaio che in tempi diversi ha effettuato gli interventi riportati in codice. La parte esterna della cuvetta è arricchita da una fascia di 5 mm (a partire da 4 mm dal bordo) con lavorazione a godronatura, il buco per la chiave di carica è messo in evidenza da una cornice di 4 mm con lavorazione a semicerchi affiancati. Nella parte interna del coperchio posteriore sono riportati di nuovo il punzone con il leone e il numero del movimento, compare anche il numero della cassa 14912 (foto 5). La cassa, ad un primo esame chimico-fisico (e al marchio del leone), sembrerebbe in argento inglese ma l’assenza di punzoni che riportano il titolo del metallo rende complicata la determinazione della qualità dell’argento, probabilmente 950. Le dimensioni sono:

                                             Cassa senza pendente : 47,00 mm
                                             Quadrante: 41,00 mm
                                             Movimento: 40,00 mm
                                             Spessore: 15,50 mm
                                             Lunetta sottocassa: 43,50 mm
                                            Vetro minerale: 41,00 mm

Quadrante bianco in smalto vetrificato con numeri romani in nero, piccoli difetti e crepe, sul quadrante è riportato il numero del movimento, il nome del costruttore e la località ( DENT LONDON n° 33850).
Quadrante dei secondi al 6 (foto 3). Anche sul retro del quadrante è riportato il n° 33850 e il n° 70 (forse l’anno di fabbricazione, 1870), questo orologio è comunque databile prima del 1876, quando la ditta “Dent” introdusse nel suo marchio un triangolo. Il numero basso depone a favore di una data ancora più antica. Ad un esame sommario l’orologio risulta abbandonato da tempo, il quadrante è ingiallito e una patina di ossido ricopre la cassa. Non scatta il coperchio alla pressione del pulsante (pulsante in lega di rame, consumato, e molla di scatto rotta). Il bilanciere oscilla nella sede (rotto il perno inferiore), la molla di carica ed il relativo bariletto sono stati riparati con un intervento di fortuna, probabilmente adattando un albero non originale (il bariletto e il sistema di carica si muovono ondeggiando nel foro di alloggiamento sulla platina, di dimensioni diverse rispetto all’asse). La chiave coeva affidata con l’orologio è aperta ed inservibile.

Foto 4

La storia dell’oggetto
Dent, Londra, 1870 circa (anno in cui in Inghilterra vengono legalizzati i sindacati, anno di recessione negli USA). Grazie ad un biglietto conservato nella cassa e alla collaborazione degli attuali proprietari (Egle e Massimo) ho potuto ricostruire quasi per intero la storia dell’orologio, manca solo il luogo e l’anno preciso dell’acquisto. Sul bigliettino è scritta una dedica: A Tonio ricordo di mio padre, mamma. La mamma in questione (Giuseppina Greco) è la nonna degli attuali proprietari, quindi l’orologio era del bisnonno (Angelo Greco). Le scritte graffiate sulla cassa indicano che per diverso tempo l’orologio era tenuto da uno zio di Egle e Massimo, che probabilmente lo considerava come suo al punto da incidere il suo nome e le parole già riportate, salvo poi dover restituire l’oggetto a Giuseppina Greco che lo regala a Tonio. Questa parte della storia non è proprio certa, infatti lo zio potrebbe anche aver ricevuto in prestito l’orologio da Tonio e averlo restituito con i suoi graffiti, o addirittura potrebbe esser morto e quindi l’orologio è tornato alla madre.

La storia del marchio DENT di Londra
Fondata nel 1814 da Edward J. Dent (foto 4) l’azienda è tuttora attiva con il nome di Dent & Co. È il fiore all’occhiello dell’orologeria inglese, depositaria di molti brevetti ed innovazioni poi diventate di uso comune. Riporto una breve sintesi della storia, partendo dalla presentazione del sito dell’attuale Dent & Co, che ho integrato e verificato con le notizie riportate nel volume “Clock and Watchmakers Manual” New York 1863: 1790 Nasce Edward John Dent, fondatore della ditta.1800 All'età di 10 anni, Dent acquista il suo primo orologio, un cronometro Earnshaw, movimento che utilizzerà come punto di partenza per le sue creazioni. 1814 Dent costruisce l’Orologio Astronomico per l'Ammiragliato Inglese, e realizza apparati per la determinazione delle coordinate per la spedizione coloniale in Africa. 1815-29 Dent impara l'arte dell’orologiaio da Richard Rippon, lavora per Vulliamy & Son, e da Barraud & Son, con cui probabilmente collabora per realizzare un cronometro con ripetitore. 1829 Al cronometro Dent No.114 viene assegnato il primo premio da parte della Astronomer Royal per non aver superato una variazione effettiva di 0,54 centesimi di secondo in 24 ore. 1830 Dent entra in società con Roger John Arnold, un importante creatore di cronometri (lo stesso per cui lavorava Larkum Kendall, già collaboratore di J. Harrison), a Londra nasce la Arnold & Co Dent. 1831 Il cronometro Dent no. 633 è utilizzato come riferimento a bordo della H.M.S. Beagle, durante il viaggio di Charles Darwin, viaggio che ha portato alla pubblicazione rivoluzionaria: "L'origine della specie". 1833 Sperimenta alcune leghe per migliorare le molle dei bilancieri e studia l’effetto del magnetismo sui cronometri. 1834-36 Inventa e costruisce molle in vetro per i bilancieri dei cronometri speciali, ottenendo diversi brevetti sui sistemi di aggiustamento e sulle molle. 1837-39 La Arnold e Dent determina la differenza di longitudine fra Greenwich e Parigi, la differenza di longitudine fra Greenwich e Armagh, fra Greenwich ed Edimburgo, fra Greenwich e New York. 1840 Dent torna a produrre orologi con il proprio nome, ottiene una serie di brevetti sullo scappamento per il pendolo e sulle molle per bilancieri. 1842 Dent realizza l’Orologio Astronomico per l'Osservatorio Reale di Torino, ottiene ulteriori brevetti e anche risarcimenti per l’uso che altri fanno delle sue invenzioni (cronometri Conti). Determina la differenza di longitudine fra Greenwich e Liverpool . 1843 Dent ottiene brevetti sulle assi dei bilancieri e delle bussole. Viene nominato Fabbricante Ufficiale di Cronometri dallo Zar di Russia, e riceve un brevetto speciale della casa Imperiale. Fornisce 81 cronometri alla spedizione russa incaricata di determinare molte importanti longitudini. Costruisce l’Orologio Astronomico per l’Osservatorio Astronomico Nazionale di Ginevra. Inventa un nuovo strumento per la rilevazione dei Meridiani, il Dipliedoscopio, e ne registra il brevetto. 1845 Dent costruisce il grande orologio del Royal Exchange, a Londra, che verrà definito dalla Astronomer Royal come il migliore al mondo, per quanto riguarda la precisione. 1846 Inventa, brevetta e costruisce i primi orologi che potevano essere caricati attraverso la corona, conosciuti come " Keyless"(senza chiave) , precursori di tutti gli orologi moderni. 1847 Costruisce l’Orologio Astronomico dell'Osservatorio imperiale di Russia a Pulkova. Inizia la produzione di barometri aneroidi. 1848, Dent inventa diversi sistemi di orologi elettrici ed elettro-magnetici. 1849 Dent costruisce l’Orologio Astronomico per l’Osservatorio Reale a Venezia:

Foto 5


1850 David Livingstone (foto 5) acquista il cronometro No.1800 per utilizzarlo durante le sue esplorazioni in Africa. 1851 L'orologio torretta Dent esposto nella Grande Esposizione Internazionale, che ha vinto l'unica medaglia del Consiglio per l'orologeria, dopo l'esposizione viene collocato alla Kings Cross Station. Questo movimento è stato premiato per la sua originalità. Dent inventa e brevetta un nuovo tipo di bilanciere e di scappamento. 1852 Riceve l’incarico di realizzare il grande orologio per le Houses of Parliament, progettato da Edmund Beckett Denison (in seguito Lord Grimthorpe), il Big Ben. 1853 Muore E.J. Dent, la sua azienda costruisce il primo Gravity Escapement. La Dent inventa e registra il Compass fluido, che è stato utilizzato dalla Royal Navy e dalla Royal Institution National Life Boat.1854 La Dent costruisce e mette in funzione la Grande Apparecchiatura Elettrica Cronografica del Royal Observatory, Greenwich. Questo apparecchio determina il tempo dei transiti e di tutti i fenomeni astronomici registrati presso l'Osservatorio. 1855 La Dent costruisce il nuovo Orologio Astronomico presso l'Osservatorio Radcliffe, Oxford University. 1856 La Dent costruisce l'Orologio Astronomico presso l'Osservatorio Reale di Scozia, a Edimburgo. Un orologio Dent è premiato con la Grande Medaglia d'argento, da HM il re d'Olanda. 1857 La Dent partecipa alla realizzazione del Palazzo dell'Orologio, Balmoral, per Sua Maestà la Regina Vittoria. 1859 Viene terminato, installato e messo in movimento il grande orologio del Palazzo del Parlamento, noto come "Big Ben"  realizzato dalla Dent in soli 7 anni (Foto 6). 1862 La Dent ottiene i brevetti per la Watchman's Tell Tale, orologi installati al Castello di Windsor, la Torre di Londra, Westminster Abbey, St. Paul's Cathedral. Costruisce il grande orologio all’Esposizione Internazionale, e riceve le medaglie d’oro per i cronometri, per gli orologi di bordo e le Bussole navali. 1863 La Dent realizza il primo collegamento telegrafico per l’aggiornamento automatico dell’ora tra il Royal Observatory di Greenwich e il Grande Orologio di Westminster. La Dent riceve la nomina di Orologiaio di Corte per Sua Altezza Reale il Principe di Galles. 1865 La Dent inventa e realizza Nebbia Bell. 1870 La Dent mette in cantiere un cronometro: "Prima Classe Standard Astronomical Clocks” che sarà usato dalle spedizioni inviate durante il transito di Venere sul disco solare, per permettere di misurare l’esatta distanza tra la Terra ed il Sole. 1871 La Dent realizza gli apparati per l’ora di riferimento del Royal Observatory, Greenwich, un regolatore sidereeo. 1872 Vengono costruiti gli orologi astronomici per le spedizioni previste durante il transito di Venere. La Dent costruisce l’apparato per l’ora di riferimento per Port Elisabeth, Sud Africa.

Foto 6

1875 Costruzione dell’Orologio Astronomico dell'Osservatorio Reale di Irlanda, Dunsink. Costruzione dell’Orologio Astronomico di Vanderbilt University, USA. 1876 Costruzione dell’Orologio Astronomico dell'Osservatorio Reale di Coimbra, Portogallo. Per distinguersi dai marchi legati ai parenti del fondatore l’azienda inserisce un triangolo nel proprio logo. 1877 La Dent crea un nuovo orologio artico per la spedizione polare olandese. Costruzione dell’Orologio Astronomico dell'Osservatorio Reale di Bruxelles, che diventa anche il cronometro di riferimento del Regno.1878 Costruzione dell’ Orologio Astronomico dell'Osservatorio Reale di San Fernando, Spagna, che diventa a sua volta il tempo di riferimento del Regno. Costruzione del Grande Apparato Cronografico dell'Osservatorio Reale del Belgio. Questa stazione è la più completa e potente mai costruita. 1879 La Dent fornisce al governo italiano i cronometri per determinare la longitudine durante la spedizione italiana in Africa. Costruzione dell’Orologio Astronomico dell'Osservatorio Imperiale del Giappone, che sarebbe dovuta diventare l’ora di riferimento per l’Impero del Giappone. 1880 Sua Maestà l'Imperatore Mejii stabilisce sovvenzioni per terminare la grande opera intrapresa e invia a Dent  & Co un diploma di Orologiai di Corte. 1890 HM Stanley scrive alla società geografica: "I cronometri forniti da Dent, che sono stati adottati in tutta l'Africa nella mia ultima spedizione, si sono rivelati ottimi. A mio parere sono stati completamente soddisfacenti ed affidabili." 1901 Sugli orologi da tasca Dent viene incisa la scritta, "orologiaio di Sua Maestà in ritardo". 1904, lo Scià di Persia premia la Dent & Co. con il titolo di Orologiaio di Corte. 1901-30 La Dent continua a produrre cronometri e bussole per l'Ammiragliato. Il Re d'Inghilterra concede alla Dent il Royal Warrant, che non verrà rinnovato nel 1964. 1949-63 La Dent produce e ripara orologi per la Royal Air Force. 1950-2006 La Dent produce esemplari come Il Piano Inclinato, Epicicloidali Skeletron, Congreve, Falling Ball e altri orologi su commissione per collezionisti esigenti, e continua a riparare i suoi orologi. 2006 La Dent vince la gara d’appalto per l'orologio da marciapiede della Stazione di St. Pancras, a Londra. 2010 Attraverso il sito www.dentlondon.com si può interloquire con i tecnici della Dent & Co; naturalmente non forniscono più assistenza per gli orologi da tasca “normali”.
Foto 7

È proprio grazie ad uno di questi tecnici che ho saputo che stanno raccogliendo esemplari della produzione Dent per un loro museo. Sempre sul sito: www.dentlondon.com c’è un settore dedicato alla valutazione e al restauro, in cui la Dent & Co mostra un distacco “Inglese” dai suoi prodotti: in particolare, dopo aver spiegato che sono moltissimi i pezzi “falsi” anche coevi prodotti con il nome “Dent”, per le riparazioni e il restauro rimanda ad un laboratorio privato; per le valutazioni invece indica come riferimento l’ufficio cronometri e orologi di Christie’s (la nota casa d’aste). Più “simpatiche” anche dal punto di vista commerciale alcune notizie che qui riporto: Il primo orologio di Winston Churchill era un Dent. Lo Zar Nicola II, l'ultimo imperatore di Russia, indossava un Dent quando finì la Prima Guerra Mondiale. Sua Maestà la Regina Elizabeth II possiede un Dent. La BBC per anni ha sincronizzato la sua ora con un Dent


Gli interventi sul movimento in esame (La storia del restauro)
Sostituzione dell’asse del bilanciere e della pietra del piatto del bilanciere (foto7). Ho cercato di mantenere i pezzi originali, o almeno quelli che ho trovato dalle precedenti riparazioni, per questo motivo ho sezionato il bilanciere, che aveva il perno inferiore rotto (Foto 8), e ho sostituito l’asse centrale con un’asse due centesimi di millimetro più larga (proveniente da un altro Dent).

Foto 8


Dopo aver pesato i bilancieri ho deciso di usare la molla a spirale originale, oltre al volantino e al piatto porta pietra. La ragione principale è che il volantino originale era più sottile (e quindi più leggero) di circa due decimi, il piatto porta pietra del nuovo bilanciere era più largo e ruotando rischiava di urtare i bordi della sede. Anche la pietra del piatto del bilanciere era mancante. La letteratura e l’esperienza consigliano di usare una mollichina di gommalacca scaldata su una fiamma per fissare la pietra al piatto. Non ho seguito la tradizione perché la pietra era appena più sottile e quindi ballava nel suo alloggiamento, ho usato una goccia di colla a base di cianoacrilato (messa sul retro del piatto) per fissare la pietra. Nell’inserire l’asse nel volantino e successivamente la virola della molla a spirale sull’asse ho avuto qualche problema: dovendo forzare il bilanciere ogni volta si allentava il volantino.

Foto 9


Ho risolto portando ad inserire il perno e la molla in una unica volta con un piccolo torchio. Successivamente con un apposito strumento ho centrato l’asse sul volantino ed inserito il piatto a cui avevo incollato la nuova pietra. La taratura del bilanciere, prima è stata di tipo approssimativo, proprio grazie all’inserimento a pressione del piatto (messo in modo che la pietra risultasse al centro del percorso dell’ancorina), poi ho perfezionato la taratura agendo direttamente sul fermo della molla a spirale. Per il barile e la parte relativa ho deciso di intervenire solo marginalmente; ho cambiato e serrato meglio le viti di fissaggio riducendo il gioco (Foto 9), in questo modo ho evitato di inserire una boccola sulla platina nel buco del perno della molla di carica. Ho preferito evitare un intervento così drastico per non compromettere le frizioni abbastanza critiche in questo orologio.

Foto 10


Ho pulito e revisionato ogni singolo pezzo, togliendo lo sporco e le tracce di antico lubrificante, poi ho oliato i punti di massimo attrito, una volta rimontato il movimento è ripartito subito e quindi mi sono dedicato alla cassa. La molla in acciaio, responsabile dell’apertura a scatto della cassa, aveva la vite di fissaggio spezzata e rimasta nella filettatura, si notavano le tracce dei tentativi falliti per estrarla. Con pazienza sono riuscito a rimuovere la vite conservando buona parte della filettatura. Ho potuto rimontare il tutto, dopo aver pulito e lucidato sia la cassa che il quadrante. Al quadrante ho fermato con l’apposita lacca il distacco di pezzi di smalto da due punti periferici del disco (Foto 10 e 11)).


Il collaudo
Ho fatto funzionare per giorni, in varie posizioni, l’orologio, tarandone gli scostamenti da un riferimento campione. Lo scostamento massimo si è gradualmente ridotto a un minuto al giorno. Il collaudo finale l’ho fatto portando l’orologio in tasca per tre giorni.

Foto 11

Naturalmente, al momento della riconsegna, ho fornito anche un elenco di accorgimenti da rispettare, per mantenere in ordine questo orologio, assieme ad una nuova chiave di ricarica (per non distruggere immediatamente la vecchia). Invito gli amici a non sottovalutare le raccomandaazioni rituali: un orologio di oltre cent'anni non può essere trattato come un comune orologio moderno. Probabilmente, col tempo, ha assimilato anche gli acciacchi dai precedenti proprietari.

Foto 1: Il coperchio anteriore con il fregio dell'orologio da riparare
Foto 2: Il marchio del leone e il numero della cassa.
Foto 3: Il quadrante con il logo e il numero del movimento.
Foto 4: Immagine di Edward J. Dent (1790 – 1853).
Foto 5: David Livingston ha usato i cronometri Dent per le sue esplorazioni.
Foto 6: L’orologio più famoso costruito da Dent è il “Big Ben”.
Foto 7: Il bilanciere smontato, manca la pietra del piatto ed è rotto il perno dell’asse.
Foto 8: L’asse smontato, è ben visibile il perno rotto.
Foto 9: La parte danneggiata del meccanismo di carica, ma ancora in grado di funzionare.
Foto 10: Una delle riparazioni sul quadrante, con lacca termoplastica colata e poi lisciata.
Foto 11: La seconda riparazione (sempre con lacca fusa) per mettere in sicurezza il quadrante.

(Tutte le foto sono dell'autore, trenne Foto 4, 5, 6 di pubblico dominio. Click per ingrandire)