venerdì 19 novembre 2010

Prosphore e Palamarke

Di Luciano Zambianchi

Orologio del periodo ellenistico: 1° secolo avanti Cristo
Attenzione: per ingrandire: click su foto. Per Mac ulteriore ingrandimento da tastiera

Foto 1
Foto 2
"Smettila di dire cose strane!” mi ha intimato un amico a cui stavo raccontando di alcuni oggetti che avevo appena acquistato. In questo caso aveva ragione, questi nomi non sono riportati nei dizionari della lingua italiana e sono usati solo da specialisti in Religione Cristiano Ortodossa e in Etnologia. Ho potuto notare però che, anche se non parlo di prosphore, da quando mi sono dedicato più assiduamente allo studio ed alla riparazione degli orologi vecchi i miei interlocutori spesso arricciano il naso e fanno finta di capire quello di cui sto parlando. Quel che è più preoccupante è che quando me ne accorgo e provo a spiegare in modo descrittivo l’uso o la funzione di uno di quegli strani pezzi che compongono gli orologi sembrano diventare assenti, come se stessi parlando un’altra lingua. Ho chiamato vecchi e non antichi i miei orologi per non sentirmi troppo fuori dal mondo ma, anche se la cosa non farà piacere  

Foto 3
Foto 4
ai sessantenni, dovete sapere che molte case d’asta definiscono d’antiquariato oggetti che hanno più di sessanta anni. Per aiutarvi a comunicare con gli amici che amano gli orologi, nella speranza di avere tra i lettori anche qualche mio amico, ho pensato di mettere a disposizione un semplice lessico con i nomi meno usuali, anche se rigorosamente in lingua italiana e presenti nei vari dizionari. Ho già avuto occasione di dire che l’orologio può essere considerato composto da settori, iniziamo dalla CASSA: (foto 1) riporto qui molte figure tratte da un testo fondamentale di orologeria “L’Orologiaio Riparatore” di Ronald De Carle edito da Hoepli nel 1948, fanno parte del settore CASSA la cassa vera e propria, il quadrante, il vetro e le lancette (o sfere). In questo settore le parole più strane sono:
Pendente: è il raccordo in cui è fissato l’anello su cui si attacca la catena, di solito è sovrastato dal bottone di carica e finisce nel castello.
Castello: è la parte centrale della cassa, quella a cui va fissato il movimento.
Cuvetta: è il fondo interno della cassa, di solito è la prima protezione del movimento.
Lunetta: a volte fissata a incastro altre avvitata o fissata da una cerniera, è l’anello che tiene il vetro nella giusta posizione e distanza dal quadrante.
Il movimento (la macchina vera e propria) può essere considerato composto dal MOTORE, dal REGOLATORE, dalla TRASMISSIONE, dalla RIMESSA; tutte queste parti sono fissate sulla parte anteriore o posteriore della platina.

Foto 5
Platina: la piastra metallica che costituisce il corpo principale del movimento degli orologi meccanici su cui sono montati tutti i componenti, dal Grande dizionario Garzanti della lingua italiana (foto 2).
Incominciando ad illustrare la parte posteriore della platina (quella che di solito si vede quando si apre la cassa di un orologio) le prime cose da notare sono i ponti.
Ponti: parti metalliche che servono da sostegno e collegamento tra i vari componenti e settori dell’orologio. Dal punto di vista tecnico più ponti ci sono e più il meccanismo è di pregio, fino ad arrivare a movimenti in cui ogni componente è sorretto da un suo ponte. Nell’immagine riportata che potete confrontare con un orologio della mia collezione di cui mostro la foto (si tratta di un modello più vecchio di qualche anno e prodotto per il mercato americano, foto 3), si possono vedere i settori così come ne ho proposto la divisione, ad ogni settore corrisponde uno o più ponti. I nomi meno usuali sono (nel settore MOTORE):
Foto 6
Bariletto: il recipiente in cui è rinchiusa la molla di carica, collegato alla TRASMISSIONE del movimento tramite una ruota dentata o una corda (negli orologi più antichi) o una catena (negli orologi inglesi).
Nel settore REGOLATORE abbiamo alcuni termini strani:
Pitone: il perno di varie forme e misure su cui è fissata (con una spina) la molla a spirale del bilanciere
Spirale: molla che con la sua forza fa oscillare la ruota del bilanciere e quindi determina il tempo di oscillazione (se troppo lunga l’orologio ritarderà vistosamente, se troppo corta l’orologio andrà troppo velocemente). La molla a spirale è fissata al perno del bilanciere tramite una viròla (foto 4).
Viròla: anellino di ottone (di solito aperto) che si trova al centro della molla a spirale e che si infila a pressione sull’asse del bilanciere.

Foto 7
Racchetta (con le sue spinette): è la linguetta di metallo che permette una regolazione fine della tenuta dell’orario, grazie alle due spinette che agiscono direttamente sulla molla a spirale.
La parte anteriore della platina di solito è coperta dal quadrante (foto 05), l’immagine mostra il settore della RIMESSA dell’ora, oltre alle ruote su cui vengono fissate le lancette. In questa macchina è presente un tiretto.
Tiretto: levetta dell’orologio che si aziona tirando in fuori il pulsante di carica e che mette in funzione il meccanismo di messa all’ora.
Sull’albero di centro c’è quasi sempre un rocchetto calzante su cui viene infilata la ruota delle ore.
Rocchetto calzante: trasmette il lavoro fatto dal movimento alle ruote delle ore e dei minuti, spesso è lui responsabile della “frizione” che, quando non è ben regolata, fa slittare le lancette delle ore e dei minuti, anche se la lancetta dei secondi, che dipende da un’altra ruota, gira in modo corretto.
Per ora permettetemi di interrompere qui questo mini dizionario di termini tecnici legati all’orologeria. Solo altre due cose per non lasciare con la curiosità chi mi segue.

Foto 8, 9, 10

Prosphora: uno stampo di solito in legno, ma anche in metallo, usato dai Cristiani Ortodossi per imprimere la filigrana alle ostie da comunione. Quasi sempre le prosphore ortodosse contengono la scritta NIKE o HIKA e ICXC (a ricordare che l’ostia è il corpo di Cristo vincitore) (foto 6 - 7).
Palamarka: è una specie di guanto di legno (caratteristico della Bulgaria) indossato dalle ragazze in campagna quando raccolgono le spighe in covoni. In pratica sono robuste prolunghe per le dita. (foto 8 - 9 - 10). Se con queste informazioni non riuscirete a stupire gli amici consolatevi pensando alla soddisfazione di rispondere: “SI!” nella rubrica “Lo sapevate?” della Settimana Enigmistica.

Didascalie:
Foto  1: la cassa di un Omega da tasca, con i nomi delle sue parti
Foto  2: disegno della platina posteriore con i nomi dei componenti
Foto  3: un orologio Omega da tasca calibro 18S, anteriore d'una ventina d'anni rispetto ai disegni
Foto  4: la molla a spirale con la virola d'ancoraggio
Foto  5: la parte anteriore della platina che solitamente è coperta dal quadrante
Foto  6: alcune mie prosphore
Foto  7: le incisioni grazie alle quali rimane la filigrana sulle ostie
Foto  8: una Palamarka vista dal lato da cui si indossa
Foto  9: la Palamarka con i buchi dei tarli e la siglia della proprietaria in evidenza
Foto 10: la Palamarka vista da sotto con i segni prodotti dalle spighe


Foto 1, 2, 5 da "L'0rologiaio Riparatore" (Hoepli 1948). Tutte le altre sono dell'autore



Albert Einstein 2a parte

Di Marino Mariani


Il piccolo Einstein, precocemente avviato allo studio della fisica, della matematica e della geometria fu precoce anche nella lettura filosofica di Hume, Kant e Mach. Non appena acquisì la cognizione dell’irrealtà biblica, ripudiò la religione ebraica come fede, ma rafforzò la sua appartenenza al giudaismo come popolo e razza. Contemporaneamente sentì una imperiosa avversione al principio di autorità, ed al militarismo non solo nelle istituzioni puramente militari, ma specialmente nell’insegnamento”forzato” delle nozioni. Trovò immediato sollievo nell’insegnamento svizzero temperato dall’umanitarismo dell’educatore Heinrich Pestalozzi, ed imparò a respirare il senso di libertà nella dolce Italia di quei tempi. (Biografia scritta nell’anno 2008 per la rivista Suono)


Albert Einstein al tempo del liceo di Aarau

La continua, intensa e protratta lettura di testi scientifici di prim’ordine, lo studio approfondito di problemi reali ed immaginari, il contatto con filosofi di non facile comprensione, quali Kant nella Critica della Ragion Pura aprirono tutto ad un tratto gli occhi del ragazzino riccioluto di 12 anni, alle soglie del Bar Mitzvah, una sorta di confermazione giudaica che saluta, a 13 anni, il passaggio dall’infanzia alla giovinezza. Tale confermazione non ci fu, perché Einstein si trovò di fronte ad un’improvvisa, nuova, inaspettata realtà: gli episodi biblici non potevano corrispondere alla realtà, quindi erano falsi, e ciò bastò a spegnere, d’un sol colpo, la fiamma religiosa che l’aveva infervorato, in stridente contrasto col comportamento agnostico ed indifferente della sua famiglia e del parentado. Persa la “fede nella fede”, per tutto il resto della vita Einstein si astenne dal partecipare a qualsiasi cerimonia rituale, ma non abbandonò la visione di un’essenza divina che si manifestava nell’armonia del creato, nella musica di Mozart, un’armonia che egli tentò fino all’ultimo istante di sua vita di racchiudere nelle sue equazioni.
Contemporaneamente Einstein sviluppò una vera e propria allergia nei confronti dell’autorità e dell’autoritarismo. E del militarismo. Quando passava una formazione militare preceduta dalla fanfara, tutti i ragazzini accorrevano, salutavano, marciavano al passo, erano estasiati mentre Einstein era angosciato. Disse ai genitori: “Quando sarò grande, non vorrò far parte di quel popolo sciagurato”, ed anche “Quando vedo gente che marcia al passo accompagnata dalla musica, penso che abbia avuto in dono un cervello per sbaglio”. Anche quella Monaco di Baviera così geograficamente distante dalla Prussia, non era esente da manifestazioni d’autoritarismo, ed Einstein sentiva repulsione per i metodi d’apprendimento basati sull’ossessiva ripetizione degli stessi vocaboli, delle stesse frasi, come le reclute addestrate dai sergenti, ed i maestri di scuola elementare erano anch’essi come sergenti, quelli del ginnasio come tenenti.. Era ossessionato dalla parola “Zwang”, che in tedesco significa obbligo, costrizione, coercizione, cancellazione di ogni vasto orizzonte. Egli si sentiva mobilitato contro lo “Zwang”, e scioperava contro di esso, adottando un atteggiamento che lo inimicava all’occhio degli insegnanti. Uno di loro proclamò che la sua insolenza lo rendeva inviso e sgradito in quella classe. Einstein si difendeva, sostenendo di non aver mai offeso nessuno. Al che il professore rispondeva: “Sì. è vero, ma il solo fatto che lei sieda in ultima fila e rida, la sua semplice presenza, insomma, distrugge tutto il rispetto che la classe deve al suo insegnante”. Lo sconforto spingeva Einstein alla depressione, persino al collasso nervoso, proprio nel momento in cui gli affari di famiglia subivano un rovescio.

Con la sorella Maja a Milano




Un asilo in Italia
Durante la maggior parte del periodo scolastico del giovane Albert, la società dei fratelli Einstein procedeva con successo. Nel 1885 la ditta contava duecento dipendenti ed installò la prima illuminazione elettrica per la Oktoberfest di Monaco. Negli anni immediatamente successivi essi vinsero l’appalto per l’elettrificazione del comune di Schwabingen, che contava dieci mila abitanti nel suburbio di Monaco, utilizzando motori a gas per muovere le dinamo gemelle progettate dagli Einstein stessi. Jakob Einstein ebbe sei brevetti per miglioramenti nelle lampade ad arco voltaico, interruttori automatici e contatori elettrici. La società rivaleggiava con la Siemens ed altre fiorenti compagnie. Per raccogliere il capitale i due fratelli ipotecarono le loro case e presero a prestito 60.000 marchi al tasso del 10%, indebitandosi pesantemente. Ma nel 1894, quando Albert compiva 15 anni, la società andò in bancarotta dopo aver perso la gara per l’illuminazione del centro città e di altri siti. I genitori, la sorella e zio Jakob l’ingegnere si spostarono nel Nord Italia, prima a Milano e poi a Pavia, ove i soci italiani della compagnia stimavano vi fossero maggiori opportunità per una ditta di piccole dimensioni. Nei “Gesammelte Schriften”, mi sembra proprio nel volume 1, si cita che i fratelli Einstein fondarono a Pavia la società “Einstein-Garrone” per la costruzione di apparecchiature elettriche, e si vede un piccolo schizzo della fabbrica stessa. Scrivendo in varie riviste, ho lanciato un appello ai lettori di quella zona affinché, se potevano, mi inviassero qualche reminiscenza di quelle vestigia italiane della famiglia Einstein, ma non ebbi nessuna risposta. Ma nel 1981, quando acquistai quel volume, non esisteva internet, per lo meno io non ne sapevo niente. Ma scrivendo questo articolo ho cercato su Google il binomio “einstein-garrone” e….apriti cielo. Credevo di essere l’unico a sapere di questa attività italiana degli Einstein, ed invece internet ha partorito un copiosissimo materiale a riguardo. Non solo è saltata fuori una vera fotografia della fabbrica, ma anche il frontespizio del loro catalogo (producevano essenzialmente dinamo). Ma c’è di più: nel 2005, per onorare il centenario della formulazione dei principi della Relatività Speciale (1905), l’Unesco ha proclamato il 2005 Anno Mondiale della Fisica, e tra le tante iniziative l’Istituto di Storia della Scienza Max Plank di Berlino, con il patrocinio del Governo Federale Tedesco e con la collaborazione dell’Università di Pavia, dell’Università Ebraica di Gerusalemme e del Deutsches Museum di Monaco, ha organizzato una grande mostra intitolata “Einstein, Ingegnere dell’Universo”. L’esposizione si è tenuta prima a Berlino dal 16/5 al 30/9 2005, e poi in Italia attraverso una mostra “a stella” svoltasi a Pavia, a Firenze, Bologna e Bari. La mostra di Pavia, aperta dall’1/11/2005 al 31/1/2006 negli spazi del Museo della Tecnica Elettrica, tra gran copia di testimonianze e cimeli vari, ha potuto esibire documenti forniti dalla Camera di Commercio su richiesta dell’Università, riguardanti proprio l’attività delle “Officine Tecniche Nazionali in Pavia, ing. Einstein, Garrone e C.”. Lo stabilimento della società tra Hermann Einstein, Jakob Einstein e il referente italiano Lorenzo Garrone, sorgeva nelle vicinanze della confluenza tra il Naviglio col Ticino.

Lo stabilimento Einstein-Garrone a Pavia


Ma torniamo ad Albert:, lasciato a Monaco presso parenti alla lontana: non è chiaro se in quel triste autunno del 1894 fosse stato espulso dal Luitpold Gymnasium, o fosse stato cortesemente inviato ad allontanarsi. Nel diario di un altro parente si può leggere: “Albert era sempre più deciso a non rimanere a Monaco, ed elaborò un piano”. Il quale piano consisteva nell’ottenere dal medico di famiglia, che altri non era che il fratello maggiore di Max Talmud (che abbiamo visto nella puntata precedente) un certificato attestante il suo esaurimento nervoso. Albert utilizzò questo certificato per giustificare l’abbandono della scuola in concomitanza con le vacanze di Natale. Prese un treno che attraverso le Alpi giungeva in Italia, ed informò gli allarmati parenti che non sarebbe più tornato in Germania. In cambio promise che avrebbe studiato per conto suo, allo scopo di potersi iscrivere, l’anno successivo, ad un istituto tecnico di Zurigo. Inoltre Albert non voleva compiere i 17 anni in Germania, per non essere arruolato nel servizio militare. E pregò suo padre di aiutarlo a rinunciare alla cittadinanza tedesca.
Albert passò la primavera e l’estate a casa dei genitori a Pavia, aiutando nell’azienda di famiglia. Potè così acquisire dimestichezza con la lavorazione dei magneti, delle bobine e dei generatori di elettricità, favorevolmente impressionando la famiglia. In una certa occasione, zio Jakob ebbe problemi con un nuovo macchinario, ed Albert venne in suo soccorso. Lo zio raccontò che, dopo essersi rotto la testa per giorni e giorni assieme all’ingegnere suo assistente tecnico, arrivò suo nipote che risolse il problema in meno di un quarto d’ora: “Sentirete parlare di lui!”. Sempre in cerca di sublime, montana solitudine, Albert Einstein girovagò per le Alpi e gli Appennini, e compì a piedi una lunga escursione da Pavia a Genova per visitare lo zio materno Julius Koch. Ovunque viaggiasse nel Nord Italia, rimaneva incantato dalla tutt’altro che germanica grazia e “delicatezza”della popolazione. La “naturalezza” di quella gente era l’esatto contrario degli “automi spiritualmente inetti e dalla meccanica obbedienza dei tedeschi”, così ricordava la sorella Maja.

Heinrich Pestalozzi e la moglie Anna Schultess




Il paradiso di Aarau
Ma il destino di Einstein non si sarebbe compiuto in Italia, altrimenti la storia sarebbe stata diversa. Egli aveva promesso di concentrarsi nello studio per tentare l’ammissione al Politecnico di Zurigo. Perciò si comprò i tre volumi del trattato di fisica avanzata del Violle e…sotto a studiare. La solerte sorellina Maja racconta che Albert aveva un enorme potere di concentrazione, ed anche in un ambiente affollato e rumoroso era capace di appartarsi su un divano e sprofondarsi nella soluzione d’un problema, senza lasciarsi distrarre dal resto della compagnia. In questo periodo, a 16 anni, scrisse il suo primo saggio scientifico: “Interrogativi sullo stato dell’etere in un campo magnetico”. Egli si domandava quali fossero le proprietà elastiche di quel supporto immateriale che pervade anche il vuoto e che consentiva la propagazione nello spazio delle onde elettromagnetiche come la luce e le cosiddette onde Hertziane. Contemporaneamente, in Italia, un altro giovanetto, di soli quattr’anni maggiore di Albert, sperimentando con altro pragmatismo sulle onde Hertziane, realizzava la Radio. Trattasi di Guglielmo Marconi, che vinse il premio Nobel nel 1909 con dodici anni di vantaggio sullo stesso Einstein. Einstein, dunque, tentò l’ammissione al Politecnico di Zurigo, ma la sua domanda fu inizialmente respinta perché egli era di due anni troppo giovane. Poi, sotto la pressione di fervide raccomandazioni da parte di un amico di famiglia che descrisse il giovane come un vero e proprio genio, la commissione, con un certo scetticismo, accettò di ammetterlo all’esame. Einstein passò brillantemente le prove di fisica e matematica, ma cadde nella sessione generale, che comprendeva la letteratura, il francese, zoologia botanica e…politica. Il preside di fisica, professor Heinrich Weber, suggerì ad Einstein di rimanere a Zurigo e seguire le sue lezioni come “auditore”, ma Albert preferì seguire il consiglio del direttore dell’istituto, quella di preparasi alla “maturità” frequentando per un anno il Liceo cantonale di Aarau. Una cittadina del cantone di Argovia, distante una quarantina di kilometri da Zurigo. E fu una scelta felicissima per Albert. Aarau fu la prima cittadina in cui l’educatore zurighese Johan Heinrich Pestalozzi iniziò il suo apostolato in favore dei bambini diseredati, abbandonati, orfani, difficili…, fondando per loro una sorta di fattoria, che ebbe il nome di “Neuhof”, in cui li raccoglieva, ed assieme alla moglie Anna Schultess, donava loro il calore di una nuova amorevole famiglia. Ma oltre che toglierli dalla strada e nutrirli, Pestalozzi li educava ed istruiva secondo metodi umanitari, insegnando loro a ragionare con la propria testolina e ripettando il loro pensiero. Li incitava ad esercitare la fantasia e l’immaginazione. I bambini, anche quelli difficili, sentivano il fascino, l’incanto e la malia di questo modo di prepararsi all vita, e correvano a lui e gli si stringevano attorno come i pulcini cercano calore e protezione sotto le ali della chioccia. Poiché era alle prime armi, e senza alcuna esperienza di finanza e gestione degli affari, dovette interrompere questa sua prima esperienza, ma la città di Aarau ereditò in pieno lo spirito di Pestalozzi, lo adottò per prima tra le città in cui l’educatore zurighese operò, e lo diffuse, talché, quando Einstein si iscrisse a quella scuola cantonale, una gioia immediata lo sommerse: “Gli allievi venivano curati uno per uno; il massimo accento veniva risposto nel pensiero individuale, invece che nella conformità, e vedevano nell’insegnante non un simbolo dell’autorità, bensì una figura di elevata personalità schierata a fianco degli studenti”. Esattamente l’opposto dell’educazione tedesca che Einstein aveva odiato. “Facendo il confronto con i sei anni passati in un autoritario ginnasio tedesco, ho chiaramente realizzato quanto fosse superiore un’educazione basata sulla libertà d’azione e sulla responsabilità personale, rispetto a quella basata su un’autorità esterna”.

Il liceo cantonale di Aarau
 La comprensione visiva del concetto, sostenuta da Pestalozzi e dai suoi seguaci in Aarau, divenne un aspetto assai significativo del genio di Einstein. “La comprensione visiva è il metodo essenziale e più genuino per insegnare a giudicare le cose correttamente” aveva scritto Pestalozzi, mentre “l’insegnamento dei numeri e dei vocaboli è definitivamente subordinato”. Non desta quindi sorpresa che Einstein, proprio in questa scuola, iniziasse ad impegnarsi negli “esperimenti mentali” caratteristici del suo genio: egli tentò di raffigurare che cosa potesse avvenire cavalcando un raggio di luce. “Ad Aarau feci il mio primo infantile esperimento che avesse attinenza con la Teoria Speciale della relatività. Se una persona potesse correre appresso ad un’onda luminosa con la stessa velocità della luce, si potrebbe avere una combinazione ondulatoria completamente indipendente dal tempo. Una tal cosa sarebbe ovviamente impossibile”. Questo tipo di esperimento mentale visualizzato – Gedankenexperiment – costituì il sigillo, il marchio di fabbrica di Einstein, il quale divenne il massimo fisico sperimentale…..immaginario, senza aver mai frequentato un laboratorio, senza aver mai maneggiato uno strumento di misura!

La famiglia Winteler
Durante il suo studentato ad Aarau, Albert Einstein alloggiò presso la famiglia Winteler, gente meravigliosa, che rimase per tutta la vita in stretto legame con Einstein & Co. Il padre, Jost Winteler, insegnava storia e greco al Liceo, mentre la madre, Rosa, Albert la chiamava Mama e Mamerl, tutte varianti di “mammina”. C’erano poi sette figli, di cui Marie divenne la prima fidanzatina di Einstein. Un’altra sorella, Anna, sposò Michele Angelo Besso, che già presentammo come l’amico più stretto di Einstein. Ed inoltre la nostra amica Maja, l’amata sorella di Albert, sposò Paul, uno dei fratelli Winteler. “Papa” Jost era un liberale che condivideva l’allergia di Albert nei confronti del militarismo tedesco, e di ogni tipo di nazionalismo in generale. Il suo senso intemerato dell’onestà ed il suo idealismo politico servirono a forgiare la filosofia sociale di Einstein. Come il suo mentore, Einstein divenne sostenitore del federalismo mondiale, dell’ internazionalismo, del pacificismo e del socialismo democratico, con un forte accento sulla libertà individuale e sulla libertà d’espressione. E cosa ancor più importante, nel caldo abbraccio della famiglia Winteler Albert divenne più sicuro di sé e sviluppò la propria personallità. Anche seguitando a sentirsi un solitario, i Winteler lo aiutarono a fiorire emotivamente e ad aprirsi ai sentimenti intimi. Ridendo e scherzando Albert Einstein stava diventando un giovanotto che faceva girare la testa alle ragazze. D’altr’onde anche lui girava la testa al passaggio delle ragazze.
Alla fine del 1895 si innamorò di Marie Winteler, che aveva appena conseguito il diploma di maestra ed era pronta a prendere servizio in un qualsiasi villaggio nelle vicinanze, ed aveva 18 anni conro i 16 anni di Albert. Entrambe le famiglie furono elettrizzate dal nascere di questo idillio. A capodanno i due giovani inviarono gli auguri alla madre di lui, che rispose con calore: “Cara Marie, la vostra letterina mi ha arrecato una gioia immensa”. Ad aprile Albert era dai suoi a Pavia, per le vacanze primaverili, e le scrisse quella che è conosciuta come la sua prima lettera d’amore:

Amato cuoricino!
Grazie, grazie ancora, cuoricino mio, per la tua incantevole letterina, che mi ha reso infinitamente felice. È stato meraviglioso premere sul cuore questo foglietto che i tuoi occhietti hanno guardato amorevolmente e le tue manine hanno carezzato passandovi sopra avanti e dietro. Mio piccolo angelo, adesso realizzo il significato della nostalgia e le pene della lontanaza. Ma l’amore porta tanta felicità, più di tutte le pene che porta la lontananza...
Anche se non ti conosce, mia madre già ti ha preso nel suo cuore; io le ho fatto leggere solo un paio delle tue incantevoli letterine. E lei mi sorride vedendo che non sono più interessato alle ragazze che, pensava, tanto mi avessero attratto in passato. Per la mia anima tu significhi più di tutto quanto il mondo prima che t’incontrassi.

E, senza aver letto la lettera, anche la madre di Albert aggiunse i suoi auguri. Può darsi che in uno dei primi cinque volumi dei “Gesammelte Schriften” che ho nella mia biblioteca di Zurigo ci sia questa lettera ed altre ancora, e forse anche le incantevoli letterine di Marie Winteler. Ma poiché in questo momento sto a Roma, ho dovuto tradurre dalla traduzione inglese di Walter Isaacson.

I compagni di liceo ad Aarau: Einstein è il primo a sinistra, in prima fila
Benché fosse estremamente contento della scuola di Aarau, Albert si rivelò come uno studente discontinuo. Il suo verbale d’ammissione notava che aveva bisogno di un lavoro supplementare in chimica, e che presentava gravi lacune in francese, ed a metà dell’anno scolastico il rapporto notava come avesse ancora bisogno di lezioni private in chimica e in francese, e sottolineava la permanenza di grave preoccupazione per il francese. Quando Jost Winteler inviò a suo padre questo rapporto, costui si mostrò ottimista, e scrisse “Anche se non tutte le materie soddisfano i miei desideri e le mie aspettative, Albert ci ha abituato a conseguire votazioni mediocri accanto a risultati estremamente brillanti, e perciò non mi dispero per il risultato finale”.
La musica seguitava ad appassionarlo. C’erano nove violinisti nella sua classe, ed il loro maestro notava come soffrissero di una certa durezza nella tecnica dell’archetto. Ma Einstein si ebbe un elogio: “Uno studente di nome Einstein è stato addirittura scintillante nell’esecuzione dell’adagio di una sonata di Beethoven, mettendo in luce una profonda conoscenza”. In un concerto nella chiesa locale, Einstein fu designato a suonare la parte di primo violino in un pezzo di Bach. Il secondo violino espresse la sua reverenziale ammirazione per la sua “perfetta intonazione e il suo eccezionale senso del ritmo” e gli domandò “Ma tu conti il tempo?” ed Einstein rispose “Per carità, no davvero! Ce l’ho nel sangue”. Il suo compagno di classe Byland ricordava Einstein che suonava Mozart in modo così appassionato che gli parve di ascoltare per la prima volta il vero Mozart. Ed ascoltandolo, realizzò che il suo atteggiamento saccente e sarcastico era come una muraglia protettiva della sua dolce interiorità.
Il disprezzo di Einstein per le autoritarie scuole tedesche e la loro atmosfera militaristica gli fece nascere il desiderio di ripudiare la cittadinanza di quel paese. In ciò rafforzato da Jost Winteler, che disdegnava ogni forma di nazionalismo, ed instillò in Einstein il credo che ogni persona dovesse considerarsi cittadino del mondo. Dunque chiese a suo padre di aiutarlo a perdere la cittadinanza tedesca. La risoluzione avvenne a gennaio del 1896, ed in quel momento egli divenne un apolide. Nello stesso anno divenne persona senza alcuna affiliazione religiosa. Nella richiesta di rinuncia alla cittadinanza tedesca, presumibilmente su richiesta del figlio, il padre aveva scritto “nessuna appartenenza religiosa”. Albert Einstein, quando qualche anno dopo fece domanda di residenza nella città di Zurigo, ed in altre occasioni, per vent’anni mantenne la sua dichiarazione di agnosticismo. Più tardi, quando a partire dal 1920 si trovò esposto a violenti attacchi antisemiti, Einstein comiciò a recuperare la sua identità giudaica: “Non c’è niente in me che possa identificarsi come ‘fede ebraica’. Ma sono comunque felice di essere membro del popolo ebreo”. E poi espresse la sua posizione in termini più coloriti: “L’ebreo che abbandona la sua fede è come una lumaca che perde il suo guscio. Rimane sempre una lumaca”. Pertanto la sua rinuncia al giudaismo del 1896 va dunque riguardata non come una rottura netta e definitiva, bensì come una fase del processo evolutivo che durò per tutta la vita, quello del suo sentimento nei confronti della propria identità culturale: “A quel tempo non potevo neppure realizzare che cosa significasse abbandonare il giudaismo” scrisse ad un amico prima di morire, “Ma rimasi sempre pienamente cosciente della mia origne ebraica, anche se il significato dell’appartenenza all’ebraismo mi si chiarì soltanto in seguito”.

Diploma di maturità di Einstein


Ma torniamo alle vicende scolastiche: Albert Einstein terminò l’anno in maniera assolutamente sorprendente, per chiunque non fosse il genio del secolo (o del millennio, o di tutti i tempi), rimontando fino al secondo gradino del podio (peccato che non si sappia chi fu il più bravo della classe). In Svizzera i voti scolastici vanno da 1 a 6, essendo 6 il massimo (come il nostro 10), ed Albert prese 5 o 6 in tutte le materie scientifiche e in matematica, come pure in storia ed in italiano (!). Il voto peggiore fu un 3 in francese. Ho sottolineato la votazione ottenuta da Einstein in italiano, perché essa non fa altro che alimentare ulteriormente una mia curiosità, nata sin dalla mia prima lettura di una biografia di Einstein: costui sapeva o non sapeva l’italiano? Non mi sono mai potuto imbattere in un documento che affermasse sì o no, ma rimane il fatto che la sua famiglia risiedesse stabilmente in Italia e si fosse radicata in un settore d’industria che richiedeva rapporti non solo con clientela e maestranze, ma anche con le autorità statali e comunali, con le camere di commercio e con ogni tipo di autorità che presiedesse ad ogni tipo di attuazione di importanti lavori pubblici. Da parte sua il piccolo Einstein non solo “risiedeva” in Italia, ma compiva viaggi ed escursioni, anche solitarie, e non risulta che fosse accompaniato da interprete alcuno. Come vedremo in seguito, dava appuntamenti a Milano alla sua futura moglie Mileva Maric. Esaminando il materiale reperibile su internet riguardante la mostra del 2005 dedicata ad “Einstein, ingegnere dell’universo”, c’è un accenno alla stima, al rispetto e all’ammirazione che Albert Einstein nutriva nei confronti degli italiani, ognuno dei quali gli pareva colto, saggio ed assennato, ma la redattrice dell’articolo concludeva che questi giudizi erano certamente esagerati “visto che Einstein non capiva una parola d’italiano”, giudizio comunque retrospettivo. Di contro, nell’epistolario tra Einstein e Michele Angelo Besso, il curatore fa notare che delle 219 lettere complessive scambiate tra i due, la totalità era in tedesco (benché la lingua madre di Besso fosse l’italiano), tranne tre lettere scritte da Besso in francese ed una in italiano, la n. 148 del 4 dicembre 1946. A proposito di questa lettera il curatore scrive in una nota: “Non si capisce perché B. abbia scritto questa lettera nella sua lingua materna. È del resto la prima volta che lo fa. Facciamo notare che E. capiva l’italiano”. Quest’ultima affermazione sembra fugare ogni dubbio. Ma i dubbi rimangono, perché Einstein fu storicamente negato alle lingue straniere, e si potrebbe anche congetturare che abbia sposato in seconde nozze sua cugina Elsa per le sue virtù di poliglotta, brillante conversatrice in inglese e francese, senza le quali virtù Einstein non avrebbe neanche potuto stabilire gli intensi legami fraterni con Charlie Chaplin. Gli ottimi risultati conseguiti al Liceo Cantonale di Aarau abilitarono Einstein a sostenere esami scritti ed orali, preliminari alla sua iscrizione al Politecnico di Zurigo. In tedesco se la sbrigò con una superficiale relazione su un dramma di Goethe, conseguendo comunque 5. In matematica fece un errore di distrazione, chiamando “immaginario” un numero che voleva essere semplicemente “irrazionale”, ma prese egualmente il massimo. In fisica, per il cui compito erano concesse 2 ore, arrivò tardi e se ne andò dopo un’ora e un quarto, prendendo un’altro 6. In definitiva totalizzò una media di 5,5, la migliore tra tutti e nove gli studenti partecipanti. Come al solito il risultato peggiore l’ebbe in francese dove, pur scrivendo in maniera penosa, espresse chiaramente “Mes projets d’avenir”, cioè “i miei progetti per l’avvenire”, scritto che tutti i biografi ritengono illuminante e lo riportano integralmente, mentre io penso che oramai i nostri lettori già sappiano abbastanza sulle tendenze giovanili di Einstein.
Nell’estate del 1896 l’impresa elettrotecnica dei fratelli Einstein fallì, non avendo provveduto ad assicurarsi tutta l’acqua necessaria ad alimentare il loro progetto idroelettrico per la città di Pavia. La società fu sciolta in termini amichevoli, ma mentre zio Jakob preferì trovare un impiego in una grossa società, Hermann, per il suo ottimismo ed il suo orgoglio, che superavano i limiti della prudenza, si impuntò a fondare una nuova impresa per la costruzione di dinamo, a Milano invece che a Pavia. Albert era così scettico sulle paterne prospettive al punto di rivolgersi al parentado, sconsigliando l’ulteriore finanziamento del suo impulsivo genitore. Ma quelli seguitarono ad aiutare Hermann Einstein, il quale sperava che prima o poi suo figlio venisse ad unirsi a lui con una bella laurea in ingegneria. Ma Albert era assolutamente renitente all’idea di impegnarsi in una professione che gli avrebbe considerevolmente limitato la libertà di pensiero e di quel sollievo che trovava nella musica. E così, nella prossima puntata, troveremo Albert Einstein iscritto al Politecnico di Zurigo a caccia di un diploma in Fisica.

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