giovedì 17 marzo 2011

Banzai Nippon


Il monte Fuji, simbolo del Giappone

Questo pianeta è fiero del suo popolo migliore: il Giappone. Se il Giappone cede, cederà l’intero pianeta, praticamente senza nessuna ulteriore capacità di difesa contro l’instabilità introdotta dalle attività umane. Il Giappone vincerà questa sua battaglia e tutte le battaglie successive, ma vincerà a nome proprio e non a nome del resto del pianeta. Il Giappone ha virtù che gli altri paesi non hanno, tra cui quella di un razionalismo che trascende ogni altra qualità. Adesso tutto il mondo ha visto come i giapponesi, di fronte alle calamità che mai, prima d’ora, s’erano abbattute in tal misura sul mondo, (talché aggettivi come “biblico” e “apocalittico” vengono a perdere tutto il loro significato), si sia comportato in maniera estremamente composta ed ordinata, quasi con indifferenza e sprezzo del pericolo. In realtà ognuno di essi ha eseguito al millimetro le istruzioni ricevute sin dalla nascita. Ognuno di loro conosceva il regolamento, e l’ha applicato, ma un conto è eseguire il regolamento in una cerimonia dimostrativa di fronte alle autorità, al pubblico festante ed al suono della banda cittadina. Ed un altro conto è quello di eseguirlo nel momento della fine del mondo. Io spero che se il nostro pianeta sarà ulteriormente provato da queste terribili prove, almeno i giapponesi sopravvivano per riaccendere la vita nelle generazioni future. Alla fine di questa vicenda si conteranno le perdite, e qualsiasi sia il loro ammontare, se i giapponesi non avessero applicato il loro regolamento le perdite sarebbero state il quadrato, il cubo, l’ennesima potenza di queste.

L’accoglienza
Non ricordo quando per la prima volta sono stato in Giappone, se nel ’78 o ’79 o prima. Ricordo il mese: aprile. E tra quei giorni di aprile ivi trascorsi c’era anche il 28, che è la mia festa. E qualche giorno prima o dopo c’era anche la festa del loro imperatore Hiro Hito. Per cui trovai un Giappone in festa, ed in piena fioritura delle azalee e dei rododendri. La stranezza della belleza giapponese m’aveva colpito prima ancora di atterrare: dal cielo si vedevano le culture a terrazze del riso, ed il terreno era conformato in maniera diversa da come lo conoscevo. Il terreno delle risaie che conoscevo io, nel nord Italia, era in in pianura, con le mondine che avanzavano a schiere e cantavano.

Risaie di montagna
Il campo di riso era come un lago, mentre qui il campo di riso era come una cascata che si frange e rimbalza sui fianchi di una montagna. La fugace visione dei campi di riso verticali mi aveva comunque comunicato una fulminea impressione: quella del terreno, del territorio, delle culture agricole trasformate ed elevate al livello di una creazione artistica. Quella di un panorama che non fa da sfondo ad un’opera d’arte (come, per esempio, nella Gioconda di Leonardo), ma che è opera d’arte di per sé. Dopo quella prima impressione, tal concetto si è in me rafforzato quando in Europa, in Italia, in Svizzera, vedo la bellezza delle cime innevate, dei fiumi che fluiscono maestosamente, dei laghi che ribrillano i bagliori di un tramonto, accanto ai filari delle vigne che ammantano i fianchi di una collina e digradano in elaborate terrazze. Ma lì. In Giappone, ogni elemento della natura che ci circonda è preso come elemento essenziale di un’opera d’arte. Le oleografie (chiamiamole così) giapponesi sono canoniche nel mostrare il giardino ideale con la sorgente zampillante, il corso d’acqua e lo stagno, con il loro ponticello, e sulla proda la piccola foresta di bambù. E l’albero abbarbicato e contorto dal vento….Tutti questi elementi dello stereotipo si traducono in una realtà che  si attua nell’ambito dello spazio disponibile: dal paio di metriquadri di un atrio ricavato in una minuscola locanda alle distese fiabesche dei giardini imperiali di Katsura (Kyoto). Ma che si sintetizzano in un singolo vaso di fiori, in un singolo mazzo di fiori, in un singolo fiore, come mostrano l’arte del Bonsai, e l’arte dell’Ikebama.

Pittura tradizionale giapponese

Eravamo uno stuolo di giornalisti europei invitati in Giappone dalla Matsushita (o Panasonic). Io, direttore e propretario della rivista Audiovisione, ero stato da loro selezionato a rappresentare l’Italia (negli anni successivi l’invito fu esteso, a turno, a tutte le altre riviste tecniche), ed all’atterraggio il loro comitato d’onore mi circondò e mi sobbarcò di un pomposo omaggio floreale. Rimasi imbarazzato e commosso, ma non volli sbarazzarmi di quel mazzo di fiori, e me lo portai appresso finché non fummo alloggiati in albergo. Ero esilarato da quell’omaggio, probabilmente offertomi come il più anziano della compagnia. Ero già stato numerose volte invitato in Europa e in America dalle più rinomate ditte di “Alta Fedeltà” e di elettronica d’intrattenimento, ero già stato principescamente accolto e lussuosamente alloggiato, ma mai mi era stato offerto un mazzo di fiori. Ed arrivati all’albergo, nella mia stanza trovai un regalo per il mio compleanno: una bottiglia di brandy Suntory (da pronunciare “Suntory”) ed una scatola di legno contenente un bellissimo vaso di porcellana. È inderogabile caposaldo dell’etichetta giapponese offrire regali di modesto valore venale ma pomposamente impacchettati. Come per il semantico McLuhan “il mezzo è il messaggio”, così per i giapponesi l’oggetto è l’involucro, non il contenuto. Anni dopo venni a trascorrere due e o tre settimane di vacanze a Tokyo, e ad un certo punto mi trovai a corto di quattrini. Telefonai a mia moglie chiedendo di inviarmi una certa cifra, e qualche giorno dopo la banca mi avvertì che c’era un messaggio per me. Recatomi in banca, mi fu offerto un cestino di vimini intrecciato, contenente un pacchetto confezionato in carta di seta con tanto di sbuffi e nastrini. Ci scambiammo ampi sorrisi, e solo dopo aver soprassato diversi isolati osai aprire il pacchetto, che conteneva il rotolino di yen tanto sospirato.

Traghetto Blue Star degli anni '70
Concezione del lavoro
Comunque, la prima vera, grande, inaspettata sorpresa col mondo giapponese la ebbi quando una mattina il “Mainichi Daily News”, il giornale che quotidianamente ci veniva recapitato nella nostra stanza d’albergo, recava articoli allarmistici ed ampia documentazione fotografica sull’imminente sciopero dei traghetti che minacciava di paralizzare il traffico dei pendolari, e quindi di paralizzare l’attività degli uffici, dei negozi, delle agenzie della capitale. Come contromisura impiegati, operai e funzionari si stavano attrezzando per il pernottamento negli uffici e nei posti di lavoro in modo da non interrompere l’attività. Le foto ritraevano l’allestimento di giacigli provvisori negli uffici, cucine di fortuna ed altro. Come è costume in Giappone (ed in Svizzera), lo sciopero, minacciato come inevitabile, all’ultimo momento fu scongiurato, ma se si fosse tenuto, la città l’avrebbe vanificato con le sue contromisure.
Come ho detto, questo viaggio riservato ai giornalisti specializzati nel settore elettronico, era organizzato dalla Matsushita, la ditta elettrotecnica più grande al mondo (per lo meno allora). Gli intrattenimenti ed i seminari tecnici venivano intramezzati con le visite in fabbrica. Fummo portati ad Osaka e visitammo uno stabilimento per l’allestimento delle casse acustiche. I vari componenti da assemblare giungevano con un montacarichi, ove una squadra di operai erano pronti ad accoglierli. Questi operai non erano vestiti da operai tradizionali, ma sembravano un gruppo sportivo in allenamento, con tanto di magliette, pantaloncini e scarpe da tennis. Appena arrivava un carico di componenti, essi erano pronti ad afferrarli, inserirli negli appositi ricettacoli, porgerli alla portata di un compagno di lavoro che con la chiave inglese serrava i bulloni e girava le viti. Un lavoro vertiginoso svolto all’insegna di una ben congegnata coreografia ergonomica. In pochi secondi il prodotto veniva confezionato, imballato, etichettato e spedito ad una destinazione determinata dal computer. Durante uno di questi cicli operativi, avevo notato un operaio (o meglio, un atleta) che, con particolare slancio, scattava in azione ed animava il resto del gruppo. Si distingueva per avere un nastro rosso che gli cingeva il capo. Domandai se fosse il caposquadra o comunque un elemento emerito del gruppo, e che cosa significasse quel nastro rosso. La risposta fu: “No, quello è in sciopero”.

Ammasso globulare di azalee a Tokyo
Giardini e fioriture
Arrivai dunque a Tokyo nel periodo della festa dell’Imperatore, della festa mia, della fioritura dei ciliegi e della fioritura delle azalee e rododendri. Come appassionato di floricoltura, molte cose in teoria già le conoscevo, ma non ero preparato a vederne la spettacolare dimostrazione pratica. Una pianta cui dedicavo particolare attenzione è sempre stata l’azalea assieme al suo fratello maggiore: il rododendro. Sapevo dai libri che il clima adatto a queste piante era quello caldo e umido che in Italia, o per lo meno a Roma, non c’è, perché qui, quando arriva il caldo ad aprile e a maggio, smette di piovere. Quindi nel nostro clima le azalee e i rododendri sono quello che sono, ed i migliori esemplari vanno ricercati nelle serre. Comunque, nel nostro piccolo, le azalee in vaso esposte verso Pasqua sulla scalinata di Trinità dei Monti, a cura del Comune di Roma, una certa figura l’hanno sempre fatta.

Azalea bonsai

Ma come il piccolo astronomo dilettante rimane stupefatto a guardare da un vero osservatorio astronomico le galassie globulari, così a Tokyo rimasi annichilito ad osservare i giganteschi ammassi globulari delle azalee in piena terra spuntare nei giardini pubblici. Sì, quello è il loro clima: ad aprile invece di andarsene vengono le piogge. Inoltre, forse neanche in Inghilterra, nei reali botanici giardini di Kew, è possibile trovare giardinieri provetti quanto i giardinieri giapponesi. In ogni località giapponese in cui mi sono recato, le piante, i prati, gli alberi, i fiori sono coltivati con perizia ed eleganza inimitabili. Gli ammassi globulari di azalee di cui parlavo, sono ottenuti piantando decine o centinaia di esemplari uno accanto all’altro, di varia tonalità cromatica, e poi potando a palla tutto l’ammasso. Quello che i giapponesi fanno in grande, lo fanno anche in piccolo, ed in effetti, tornando in patria, portai con me un bonsai Kuro Matsu, e cioè un “Japanese Black Pine” (pino nero giapponese), mentre il cuore lo lasciai nel giardino pensile di Mitsukoshi, accanto ad una piccola azalea in pieno fiore del costo di 12 milioni di lire. I giapponesi sono capaci di creare un giardino zen sistemando su un vassoio sabbia e sassolini. In grande, quello che ho visto nei giardini di Katsura, la residenza imperiale di Kyoto, non ha riscontro in tutto il resto del mondo. 

Katsura, residenza imperiale a Kyoto
Pur trasudando una civiltà d’antichissima data coeva con la nascita del mondo, ben poche vestigia si sono tramandate nel tempo, perché i giapponesi hanno sempre anteposto al marmo il legno. E così, nel grande parco di Katsura, gli edifici che emergono dalle acque sono, appunto, in legno ben cigolante, in modo che nessuno potesse furtivamente inoltrarvisi senza essere notato. Dalle immagini si vede il trionfo dello stereotipo estetico, filosofico e naturalistico tradizionale giapponese.


Una geisha a Kyoto
Le geishe
A Kyoto il nostro gruppo fu intrattenuto in maniera principesca: accanto alla visita di Katsura, con relativa cerimonia del tè, e ad escursioni varie, la parte elettrizzante era costituita dal trasferimento, di sera, nel grande locale da ballo dal nome di “Bellamy”, una sala a due piani (platea e galleria) con una orchestra di quaranta elementi. Il nostro posto era in galleria, sistemati attorno ad eleganti tavolinetti, circondati da stormi di ragazze (ma sembravano bambine) adibite alla nostra cura (intensiva). Il loro compito era quello, teorico, di eseguire ogni nostro desiderio. In pratica esse prevedevamo, prevenivano e catalizzavano ogni nostro desiderio, facendoci pervenire una bottiglia di champagne dietro l’altra ed altre bevande rare, intramezzate da piattini di sushi ed altre delicatezze che non ricordo.  Quello che ricordo è che ci attorniavano da presso e non ci facevano mancare il calore di fruscianti carezze. Poi venne la celebre cantante, accolta da salve di applausi. Applausi che divennero addirittura disruptivi quando attaccò: “Ciao, ciao Bambina” e nel brusio chiaramente si distingueva la parola “Canzone”. Così seppi che in Giappone le canzonette si chiamavano “Hits”, ma quelle italiane si chiamavano “Canzoni”.

Govane apprendista geisha


Se a Kyoto fummo intrattenuti in modo principesco, a Tokyo il nostro intrattenimento si poteva classificare, ma solo a posteriori, addirittura “regale”. Fummo portati in un locale di geishe, che si esibivano su un palcoscenico in danze col ventaglio ed in escuzioni musicali col koto (a sei o otto corde, non ricordo). Trattasi di una sorta di cetra stativa, cioè che non viene portata a braccio ma va appoggiata ad un tavolo o al suolo, un antichissimo strumento giapponese indelebilmente legato ad ogni opera letteraria classica. Infatti, negli anni successivi, l’ho trovato più volte citato nella lettura del “Genji monogatari”, l’opera di mille pagine, scritta nell’anno mille in caratteri kana dalla dama di compagnia della corte imperiale Fujiwara Fuji, in arte Murasaki Shikibu. Poi fu servita la cena, ed ognuna delle geishe venne a sedersi accanto ad ognuno di noi. Quella sera ero burbero e non gradii quella vicinanza. Poi, nei giorni successivi, seppi quanto veniva a costare l’intervento delle geishe ad un ricevimento ed ammutolii. Le geishe sono donne rispettabilissime, che, prima di raggiungere la qualifica, si sottopongono ad anni ed anni di durissimo tirocinio nelle loro accademie di formazione. Esse rappresentano il massimo giapponese in tema di eleganza e distinzione. Il loro abbigliamento, la loro acconciatura ed il trucco non possono (nel senso di: non devono) essere oggetto della minima critica se non di esplicita stupefatta ammirazione. La loro presenza in qualsiasi tipo di cerimonia ne determina il rango in maniera univoca: una festa con dieci geishe ha una caratura doppia di una festa con cinque geishe.

La danza del ventaglio
Ad Osaka il ricevimento riservatoci fu addirittura imperiale, nel senso che in una lussuosa immensa sala di non so quale Grand Hotel erano presenti non solo una quantità sterminata di geishe, ma anche due sculture in ghiaccio, alte almeno sette metri, una raffigurante un airone, l’altra raffigurante una pagoda a cinque piani. Mentre noi ci divertivamo a mangiare, a bere, e a suonare un grande Steinway da concerto. Le due sculture gocciolavano ed all’alba si sarebbero completamente liquefatte. Qualcuno di noi provava nostalgia per le affettuose ragazzette del Bellamy.

Banzai Nippon
In definitiva “Banzai Nippon” significa semplicemente “Viva il Giappone”, ma con alcune specificazioni. Innanzitutto il nostro “Viva” sottintende l’estensione “Viva a lungo” e, nel caso del “Banzai”, quel “a lungo” si può valutare attorno a “Diecimila Anni” come minimo garantito. Perentoriamente, nell’ora del terremoto, dello tsunami e della minaccia nucleare, il Giappone conferma di essere il miglior popolo della Terra. La sua cultura, di cui ho provato a dare una piccola rappresentazione, è equamente distribuita in tutti gli strati della popolazione senza zone di accumulazione presso determinati strati sociali e senza zone di esclusione in altri strati. La delinquenza in Giappone è molto bassa, e mostra una certa accentuazione nel settore minorile. Non è un dato inquietante, innanzitutto perché è dovuto allo stato di sforzo che determina il comportamento scolastico, caratterizzato da un altissimo tasso di competività, di cui parlerò in qualche altra occasione. Il fatto, poi, che il tasso di delinquenza si abbassa passando nelle fasce adulte d’età, significa che il fenomeno di delinquenza giovanile, anzi: infantile, è transitorio.

Il ponticello è il cuore del giardino formale giapponese (Katsura)
Quanto alla delinquenza vera e propria, essa presenta un aspetto paradossale: la Yakuza agisce in piena visibilità, la sua sfera d’interessi si esercita prevalentemente sugli appalti per le opere pubbliche, e prevale addirittura sulle forze dell’ordine nell’assicurare alla società giapponese ordine e sicurezza nei confronti della delinquenza spicciola. In primis essa tiene la società esente dallo spaccio della droga. Se la serata con gli amici si è troppo prolungata e siete rimasti senza più un goccio di birra, se avete una procace figliola di dodici anni, mandatela pure di notte a cercare un bar aperto: la Jakuza vi assicura che la vostra bambina non correrà nessun pericolo. Ebbene, i giapponesi ce la faranno a ricacciare indietro la minaccia del disastro nucleare. In caso contrario, non varrebbe la pena di aspettare l’uscita del prossimo numero di Famiglia Moderna.
Marino Mariani

(Foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)