martedì 30 novembre 2010

Valentina Lisitsa: l'Appassionata

di Marino Mariani

Clara Wieck Schumann

Donne primeggianti nel campo dell’arte, invece che nelle virtù dell’economia domestica, ce ne sono sempre state, anche se non numerose. La prima di esse fu la somma poetessa Saffo, lodata e idoleggiata da tutti, compreso l’ironico e disincantato poeta romano Catullo che si provò ad imitarla (“Ille mi deo par esse videtur…”), e la virtuosa Cornelia madre dei fratelli Gracchi, che fu la prima donna latina a scrivere opere in prosa invece che in versi: avanti a lei si fermava il corteo dei Littori, i portatori del Fascio, che al suo cospetto si irrigidivano nel saluto romano a mano tesa, come di fronte ai consoli, ai senatori e ai generali vittoriosi. In inghilterra la fama e la popolarità del bardo nazionale William Shakespeare sono contese in primis da Jane Austin (Emma, Orgoglio e Pregiudizio…), nonché dalle sorelle Charlotte, Emily ed Anne Brontë (Jane Eyre, Cime Tempestose…). In Italia Grazia Deledda dovette interrompere gli studi alla quinta elementare, perché gli usi e costumi dell’Isola (Sardegna) malvedevano una donna che frequentasse la scuola invece che coltivare la vita domestica. Comunque Grazia Deledda, spalleggiata da Mussolini, si rivalse vincendo il premio Nobel, con grave scorno di Benedetto Croce e degli altri suoi denigratori. Ma la più grande fu la nobile signorina Fujiwara Fuji, che, entrata nella corte imperiale giapponese come dama di compagnia, col nome di Murasaki Shikibu scrisse, nell’anno mille, un romanzo di mille pagine intitolato “Genji Monogatari”, la storia di Genji, il principe splendente: L’interesse destato da quest’opera nell’ambito della corte e della nobità era tale che, pare, l’imperatore in persona consigliò (ordinò) di omettere la morte di Genji, che troppo dolore e costernazione avrebbero destato nel pubblico che ansiosamente seguiva il procedere dell’opera. Di questo libro posseggo le traduzioni in inglese dall’originale giapponese in caratteri Kana di Edward Seidensticker e di Royall Tyler, che insieme all’opera omnia di Jane Austin, e a quanti più libri di Grazia Deledda ho potuto trovare (quasi tutti), costituiscono il cuore della mia letteratura favorita, che leggo e rileggo con infinito amore. Ma dal titolo avrete capito che, invece, voglio parlare delle donne pianiste, e la più celebre del passato fu Clara Wieck, che nell’800, e per una sessantina d’anni, riempì dei suoi successi le cronache di tutta Europa. Fu una somma pianista, figlia del maestro Friedrich Wieck, che la istruì e accompagnò per tutta la vita anche dopo il divorzio dalla moglie Marianne. Fu anche una grande compositrice. E fu moglie dell’elegiaco Robert Schumann. La sua fama era tale che, nell’intrattenimento dopo un concerto, un ospite si rivolse a Robert Schumann e gli domandò se anche lui si interessase di musica. Interpretò con tale maestria la sonata detta Appassionata di Beethoven che il poeta Grillparzer scrisse un poema intitolato “Clara Wieck e Beethoven”. All’età di undici anni eseguì un ciclo di concerti, e a Weimar Göthe le regalò una medaglia ed un ritratto autografato, mentre a Parigi Nicolò Paganini si offrì di suonare con lei. Chopin parlò di lei a Franz Liszt, che accorse a sentirla. Dopo la malattia di Schumann, che lo portò ad essere ricoverato in una clinica per malati mentali, ed infine alla morte, Clara fu molto vicina ad un loro amico di famiglia, di nome Johannes Brahms, che la venerava, e ne divenne la ninfa ispiratrice, la protettrice e fors’anche di più. Assieme al violinista Joseph Johachim, Clara riceveva le opere che le inviava Brahms: le correggeva, le commentava e lo incoraggiava. Tutte le opere di Brahms furono lette in prima istanza da Clara Schumann.

Mieczyslaw Horszowski fanciullo (Arturo Rietti)

Il primo dei pochi dischi LP microsolco in vinile da me aquistato, fu la sonata Hammerklavier di Beethoven suonata dal pontificio pianista Mieczyslaw Horszowski. Dico pontificio perché Horszowski fu pianista beniamino di diversi papi anteriori a Pio XII, e solo adesso vengo a sapere che visse molto a lungo, dal 92 al 93, e quindi visse non un anno, ma centouno, dal 1892 al 1993. Poiché fisicamente era molto minuto, un vero e proprio esserino, gli intenditori asserivano che non avrebbe potuto compiere una carriera paragonabile a quella di Horowitz, Serkin, Kempf, Backhaus, Gieseking, Gulda, Magalov, Benedetti Michelangeli….e tutti gli altri. Io però sarei contento di risentire la sua Hammerklavier. In compenso su YouTube ci sono un paio di brani di Chopin da lui eseguiti, alla Carnegie Hall nel 1990. Facendo i conti aveva 97 o 98 anni. Era bellissimo, minuto, agile, cortese e di genile portamento, ornato da una invidiabile capigliatura bianca. In compenso su YouTube (non è una ripetizione, è una voluta reiterazione) ho scoperto inaspettatamente il mondo delle moderne pianiste che mi hanno letteralmente conquistato. E, come ho già più volte asserito, non (solo) dal punto di vista virtuosistico, ma specialmente da quello interpretativo, in cui si mostrano intrepidamente fedeli allo spartito e all’autore. Assolutamente aliene da ogni esibizionismo e compiacimento. Un vero esempio di abnegazione, cioè della negazione di se stesse, che finisce per non essere un atto di modestia ed umiltà, ma la direttissima per l’Olimpo. Ove siedono al fianco di Beethoven, di Chopin, Brahms, Schumann, Schubert, Scarlatti, Mozart….Avviene in tutte le arti, ma specie nel pianismo l’indugio di un millisecondo rivela una falla nella linea interpretativa. A me sembra che la Lisitsa e la Kobayashi questo millisecondo se lo siano sempre tenuto stretto in pugno e non l’hanno mai perso di vista. Prima di mandare in rete l’Appassionata di Beethoven suonata da Valentina Lisitsa, ho passato varie ore ad ascoltare attentamente altri illustri pianisti, e sono rimasto stupefatto di quante ragazzine di dieci undici anni pertecipano a concorsi ed esibizioni, e suonano tutte benissimo. Ma un colpo m’è arrivato, del tutto inaspettato e da tutta una altra parte. Conoscete Lang Lang? Io l’avevo sentito nominare ma non l’avevo mai sentito suonare. Ebbene, quando ho visto su YouTube apparire il nome di Lang Lang accanto a quello dell’Appassionata, non ho voluto perdere l’occasione di vederlo. Ebbene, provate anche voi, e vedrete uno spettacolo da cartoni animati della Pixar: lui che suona leggendo la musica, ed un anziano signore gli gira le pagine! A mano a mano che procede, lui atteggia la faccia, in particolare gli occhi e la bocca, alle più espressive…espressioni: di delizia, di apprensione, di stupore, di sorpresa, di terrore, come se stesse raaccontando ai piccoli la favola di Cappuccetto Rosso. Si vede, perché ce l’ho anch’io, che il suo libro delle sonate di Beethoven è l’edizione Bärenreiter. Si vede anche che il signore anziano che gli gira le pagine è Daniel Baremboim. La mia sorpresa è stata grande, ma, come nei racconti di Sherlock Holmes, la spiegazione era molto semplice. C’è il maestro Daniel Baremboim, che oltre ad essere un consumato direttore d’orchestra è anche un pianista di riferimento, che sta tenendo corsi di perfezionamento, e per una delle sue lezioni evidentemente ha invitato Lang Lang, con cui ha recitato questa sceneggiata. Però un elemento m’è sembrato vero: Lang Lang suonava leggendo veramente la musica, perché Baremboim voltava la pagina dopo aver scambiato un cenno d’intesa con lui.

Valentina Lisitsa in concerto

Quindi, dopo aver passato la totalità della vita a studiare passo passo l’attività dell’empireo pianistico che ho tratteggiato, tutto ad un tratto, per il tramite di YouTube, ho scoperto questo paradiso femminile prevalentemente orientale. È come se la cultura greca, diventata europea per opera di Roma, fosse per intero trasmigrata in Giappone e vicinanze. Se si pensa alla difficoltà per un cinese ed un giapponese di intendere le lingue europee, c’è da meravigliarsi, anzi da ritenere impossibile che possano non solo intendere, ma di magistralmente interpretare le nostre opere d’arte, a cominciare non tanto dalla musica pianistica, quanto dalle opere liriche italiane. Vi faccio un esempio: loro non devono imparare la ventina di lettere con cui noi europei formiamo tutto il nostro vocabolario. Devono bensì imparare duemila ideogrammi (i giapponesi, i cinesi dieci o venti volte tanti), ognuno dei quali equivale ad una parola, per cui capiscono per forza tutto quello che leggono e che scrivono. Ma chi di noi sa, per esempio, che cosa significa stafilococco ematolitico? Ovviamente in giapponese la cosa è del tutto differente: le parole che ho detto si realizzano con quattro ideogrammi che in totale significano “micro organismo che rende il sangue duro come la pietra”. Questo significa che in giapponese un sostantivo contiene anche il proprio significato. In quanto alla pronuncia, in cinese “I ta li a” è formata da quattro fonemi che per loro suonano come: “paese dei ladri”: è una storica sventura, compensata dal fatto che molte parole straniere in italiano hanno un significato del tutto differente.
Lang Lang, infine, è un pianista cinese di ventott’anni che si è assunto la missione di diffondere nel mondo la musica pianistica classica. Più facile è credere alla missione di Valentina Lisitsa che, essendo ucraina, non ha problemi neurolinguistici ad assorbire di prima mano tutta la cultura europea. Ma mi meraviglia sempre il fatto che le femmine le assorbano meglio dei maschi. Comunque questo giudizio ha tutto il tempo per essere dibattuto. Ma lasciatemi annunciare una novità: ho imparato che, espletate alcune formalità, su YouTube è possibile compilare vere e proprie playlists, cioè ordini di esecuzione di brani in ordine prestabilito. Con tale clausola, l’Appassionata di Valentina Lisitsa, invece di richiedere la ricerca separata del primo, del secondo e del terzo tempo, viene suonata tutta intera con i tre tempi cuciti uno appresso all’altro.




(Foto Google di pubblico dominio. Click per ingrandire. Mac: ulteriore ingrandimento da tastiera)





giovedì 25 novembre 2010

Il Colonnello Smith ed il Mistero del Marchio Longines

Di Luciano Zambianchi


Orologio del periodo ellenistico: 1° secolo avanti Cristo

Attenzione: click foto per ingrandire. Per Mac: ulteriore ingrandimento da tastiera


Foto 1
Foto 2
Foto 3














Un amico mi ha fatto avere in regalo il meccanismo di un orologio da taschino, molto rovinato, con due ruote rotte e il bilanciere bloccato. Il quadrante era bello e integro e riportava la marca “C.R. Smith & Son Philadelphia”. Anche la parte interna del meccanismo era marcata allo stesso modo. Il numero di serie e la forma mi ricordavano tanto gli orologi svizzeri della seconda metà dell’Ottocento dello stesso calibro (18,50), e questo in un orologio americano marcato Philadelphia mi incuriosiva molto . Anche la rimessa dell’ora (a leva laterale), specifica degli orologi della seconda metà dell’Ottocento. aumentava la mia curiosità. 
Foto 4
Il nome C.R. Smith suonava come una provocazione ed evocava fabbriche di armi più che di orologi; “nomen est omen” dicevano gli antichi romani (per dire che nel nome c'è tutto il presagio) e nel caso di “Smith” (che in inglese vuol dire fabbro ferraio) il detto mi sembrava particolarmente azzeccato. Così, libri alla mano e computer, ma anche giravite, spazzole e solventi, ho iniziato una lunga e fruttuosa ricerca (foto 1): il periodo storico era sicuramente lontano, ma ricco di documenti e testimonianze. Nella seconda metà dell’Ottocento l’evento più importante in America è la guerra di secessione, la cosiddetta “guerra civile” combattuta tra il 1861 e il 1865; ho iniziato a cercare ed è venuta fuori una foto del 1862 di un barbuto colonnello del 6° cavalleggeri della Pennsylvania: C.R. Smith di Philadelphia (foto 2). La faccia era simpatica e anche la lettera allegata mostrava una persona di animo gentile (foto e lettera erano state vendute a un’asta di cimeli storici americani per 497$).

Foto 5 e 6

Infervorato, ho trovato il foglio matricolare del colonnello, la sua biografia, tutta centrata intorno a Philadelphia, e l’albero genealogico dal 1700. Attingendo alle notizie uscite sui blog dell’Associazione Americana egli Amatori di Orologi d’Epoca (NAWCC) ho cominciato a fantasticare di una fabbrica di orologi, chiusa durante la guerra civile, e poi convertita in fabbrica di armi.

Foto 7
Questa ipotesi era sicuramente affascinante ma scoprii subito che non corrispondeva alla realtà: tutte le ricerche sugli Smith di Philadelphia e le loro aziende portavano a fabbriche di macchinari agricoli poi convertite in fabbriche di macchine da caffé. La soluzione del caso è emersa inaspettata grazie ai giravite ed ai solventi che, per questa volta, sono stati più utili del computer. Il colonnello, o un suo parente, o addirittura solo un suo omonimo, andato in pensione ha deciso di aprire una gioielleria ed orologeria in Philadelphia assieme al figlio (all’angolo tra il Market e la Diciottesima Strada), e questa gioielleria con gli anni (siamo tra il 1870 e il 1980) è diventata una delle prime gioiellerie di Philadelphia, ma non c’entrava nulla con le armi, la guerra civile e meno che mai con la Smith & Wesson.

Foto 8

Ed ecco la scoperta illuminante: dietro al quadrante (foto 3), sulla macchina del mio orologio, piccolo ma ben inciso, ho trovato scritti i nomi Wittnauer e Longines (foto 4) ed ecco spiegato il mistero: questa macchina, (prodotta da Longines secondo i numeri di serie intorno al 1885) era stata importata su commissione dalla gioielleria C. R. Smith & Son di Philadelphia, dalla famiglia Wittnauer importatore ed esclusivista statunitense.

Foto 9
Foto 10














Il marchio Smith & Son era già stato posto in fabbrica dalla Longines, quadrante e cassa erano invece assemblati in loco. La ragione di questi tripli marchi superava il legittimo desiderio di autoaffermazione della C.R. Smith & Son (una specie di Tiffany americana), c’era anche la reale necessità di aggirare l’ostacolo dei salatissimi dazi doganali USA sui prodotti di lusso. Continuando nelle ricerche tra i fornitori di Smith & Son ho trovato Oscar Moser, ma anche Heinrich Moser e tanti altri super orologiai dell’epoca: i prodotti venduti nella gioielleria di Smith & Son erano sicuramente di alta qualità, così ho adattato una cassa in argento (foto 5 – 6) di Oscar Moser al macchinario ed ora ho uno splendido orologio. Tornando al “problema dei multi marchi” Longines in America (specialmente in America Latina) vendeva anche in modo scoperto, ma preferiva sempre far produrre ed adattare le casse dagli importatori locali, un bell’esempio è un orologio coevo (foto 7), identico come macchinario a quello di cui ho raccontato la storia, ma che ho comprato a Cordoba in Argentina, dove era stato inviato proprio dalla Longines (foto 8).

Foto 11
Foto 12




















Anche in questo caso l’orologio è stato importato dalla famiglia Wittnauer, ma sulla cuvetta oltre alle medaglie vinte da Longines in occasione delle esposizioni universali sta scritto: Fabricado Expresamente para: C.A.Wuilleeumer, San-Martin 75, Cordoba. Altro esempio di marchi multipli erano gli orologi riservati ai mercati marginali, mi è già capitato di parlare degli orologi per il mercato arabo (uno degli esempi classici della doppia o tripla marca). Il mio amico Elsife Walid ha cercato in ogni modo di tradurre i nomi dei “produttori locali” incisi in arabo nelle macchine (foto 9- 10), ma a suo dire i  caratteri antichi non gli permettono di capire bene i nomi. Non conosco l’arabo e quindi non posso neppure fare ricerche in Internet, ma se qualche lettore avesse notizie sarei contento di aggiungerle a quelle che già ho.  Anche nel caso degli orologi “arabi” (foto 11 – 12 – 13 ) la storia degli orologi si intreccia con la storia della Turchia; si può scoprire che produzioni riservate agli ufficiali dell’esercito ottomano sono state cancellate dall’avvento “dell’uomo nuovo” Mustafà Kemal Ataturk, il padre della moderna Turchia, a favore di altri fornitori, più favorevoli alla sua politica economica. È la solita storia in cui tecnologia, produzione industriale ed anche arte e gusto personale, vengono condizionati dalla situazione politica, dalle guerre e dalle rivoluzioni. Il Colonnello C. R. Smith magari non c’entra nulla ma, nonostante la sua faccia simpatica, mi fa ricordare che molte delle innovazioni tecnologiche, anche nell’orologeria, sono frutto di ricerche militari spesso segretissime destinate a produrre ordigni sempre più efficaci e distruttivi. 

Foto 13
Chissà se l’imperatore Augusto facendo costruire la più grande meridiana dell’impero (ancora oggi visibile a Campo Marzio a Roma) pensava di realizzare uno strumento utile per la società romana o un’arma dissuasiva che mostrasse agli ambasciatori ed alle spie degli altri popoli quanto fosse avanti la tecnologia romana. Come ho già detto il colonnello C.R. Smith di Philadelphia da tutto questo sembra estraneo e come potrete scoprire dalle sue lettere, lui come molti suoi colleghi anche nostri contemporanei, aveva un animo gentile e una faccia fotogenica.


Didascalie:
Foto  1: Il movimento C.R. Smith&Son aperto per la necessaria revisione
Foto  2: Il colonnello C:R: Smith di Philaadelphia
Foto  3: La platina dal lato del quadrante
Foto  4: La scritta "WITTNAUER LONGINES"
Foto  5. La magnifica cassa d'argento di Oscar Moser
Foto  6. L'altro lato della cassa prodotta da Oscar Moser
Foto  7. Un movimento identico a quello esaminato, ma firmato "Longines"
Foto  8: Le medaglie e le scritte sulla cuvetta del Longines argentino
Foto  9: Nome di un distributore arabo di K. Kerkisoff & Co (Zenith)
Foto10: Un altro distributore arabo per la K. Serkisoff
Foto11: Uno degli orologi arabi della mia raccolta
Foto12: Orologio per il mercato arabo con platina e ponti di brnzo
Foto13: Orologio per il mercato arabo con platina e ponti argentati

Tutte le foto sono dell'autore, tranne Foto 2 (Google) di dominio pubblico



mercoledì 24 novembre 2010

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martedì 23 novembre 2010

Storia di IWC 2a parte

La cascata del Reno a Sciaffusa 

Vent’anni fa scrissi questa serie di tre articoli per la rivista Chrono Word, descrivendo anche il mio avventuroso acquisto di un orologio IWC avvenuto dieci anni prima, presso il negozio Ruckli di Lucerna, servito dalla signorina Fuchs. Mai, prima d’allora, avevo posseduto un orologio di lusso, e poiché quell’anno festeggiavo il mio 25mo anniversario di matrimonio, sullo slancio acquistai anche la versione in oro massiccio per mia moglie e la versione sportiva per mia figlia. In definitiva, la mia famiglia porta al polso uno Yacht Culb II da ben trent’anni. Ma all’inizio non ero molto felice dell’acquisto: l’orologio non era preciso come desideravo. Lo riportai al negozio, lo controllarono, e lo trovarono regolare. Allora chiesi la sostituzione con la versione al quarzo, e loro lo rispedirono in fabbrica e me lo restituirono col nuovo motore. Direte che commisi un’eresia, rimettendoci un sacco di soldi nella valutazione. Ma qualche tempo dopo, durante una mostra di orologi Omega al Palazzo delle Esposizioni a Roma, convenni con l’allora direttore Sig. Con Caro che un orologio, per quanto prezioso, se sbarella fa infelice il proprietario. E comunque, da quel momento, io riacquistai la piena   felicità di quell’acquisto.

Il "mio" Yacht Club II, ma in versione acciaio, meccanico




Come abbiamo visto nella puntata precedente, la IWC (International Watch Company) venne fondata in Svizzera da un giovane imprenditore americano che, avendo accumulato una felice esperienza dirigendo fabbriche “meccanizzate” del suo paese, aveva intenzione di introdurre i suoi metodi produttivi in un paese la cui fama di assoluta eccellenza manufatturiera in campo orologiero già era divenuta leggendaria nel mondo. Producendo in Svizzera, contava di indorare i suoi prodotti di questa fama, e di ridurre i costi di produzione non solo in virtù dei suoi macchinari, ma per il minor costo della manodopera locale rispetto a quella americana. Il suo proposito originario era quello di stabilire i suoi impianti in Svizzera occidentale, ai confini con la Francia (e cioè nel cosiddetto “Jura”), ove si concentrava la produzione svizzera. Questo proposito subì un immediato mutamento: niente confini francesi, bensì un salto a pié pari ai confini con la Germania, e cioè in un cantone nordorientale. Nella prospettiva storica, questa mossa gli assicurò un notevole vantaggio, che a quel momento non poteva essere preveduto: l’IWC divenne immediatamente beniamina dell’etnia tedesca, che in Svizzera gode di una larga maggioranza rispetto a quella francese, italiana e “ladina” (grigionese). Quando nel 1980 io feci la mia inchiesta tra i migliori orologiai di Lucerna, Zurigo e Winterthur, registrai un plauso unanime nei confronti dell’IWC, che fu da loro annoverata nell’ambito delle cinque marche che costituivano il Gotha dell’orologeria svizzera. Ma io, che avevo dichiarato di essere completamente analfabeta in tema di orologeria, questo lo sapevo già, dalla famiglia di mia moglie, che è di Winterthur: da sempre avevo sentito lodare la marca di Sciaffusa. Mia moglie stessa possedeva un IWC d’argento, quadrato, avuto in regalo da fanciulla, che teneva riposto in una scatola di legno intarsiata. Naturalmente, sin dai primi modelli, l’IWC meritò ampiamente la simpatia di tutta la Svizzera tedesca. Ma poiché questo vantaggio poté manifestarsi solo a posteriori, quale fu il motivo immediato che convinse il giovane imprenditore americano a stabilirsi nella Svizzera orientale? Il Reno è un fiume che, uscito dal lago Botano, e prima di addentrarsi nella Foresta Nera, proprio a Sciaffusa dà una clamorosa prova di vigore buttandosi da una cascata di oltre venti metri, attirando ammiratori da tutte le parti del mondo. Il vigore del fiume poteva essere imbrigliato da poderose pale di molino, e l’energia di rotazione poteva essere trasmessa a fabbriche ed officine mediante lunghe cinghie di trasmissione. A tale piano di sfruttamento energetico fu chiamato a partecipare il fondatore dell’IWC, che aderì con entusiasmo. Avendo ricapitolato la situazione di partenza, voglio fare una breve digressione sulle cosiddette “macchine”. Siamo ancora nell’800: le macchine sono utensili meccanici adibiti ad uno specifico tipo di lavorazione. Esse vengono messe in moto ingranandole ad una cinghia di trasmissione, che prende il movimento da un albero rotante principale, mosso da una macchina a vapore centralizzata, o prende forza dalle acque d’un torrente.


Lorenzo da Ponte





Quand’ero bambino ho visto qualche fabbrica, officina, mulino o segheria disposte in questo antico schema, anche se la forza motrice era quella elettrica: in alto, al soffitto, ruotava l’albero principale, da cui scendevano le cinghie di trasmissione cui le varie macchine s’ingranavano mediante una frizione. Qualche compagno più ricco di me possedeva una piccola officina a vapore con la caldaia da riempire d’acqua ed un fornello a spirito. Quando la macchina raggiungeva la pressione, si moveva lo stantuffo che metteva in rotazione un volano. Si poteva trasmettere il moto ad un piccolo tornio o ad altri dispositivi. Altri bambini avevano una piccola locomotiva a vapore “vera”. E prima di chiudere questa parte riassuntiva, non posso fare a meno di ritornare al nostro “giovane imprenditore americano”. Il libro di Manfred Fritz che ci fa da riferimento, di lui non dice più di tutto quello che vi abbiamo detto noi: non esiste neanche un suo ritratto, e non si sa che fine abbia fatto dopo essersene tornato in America. Ma noi non possiamo abbandonare il personaggio senza un disperato e pur vano tentativo di formulare alcune ipotesi ad uso di chi possa essere in grado di compiere ulteriori ricerche. È il nome stesso del nostro eroe che ci spinge a saperne di più: F.A.Jones. Il cognome significa tutto e nulla. Non solo è un cognome comune quanto Rossi da noi, ma è, per antonomasia, il sinonimo di “chiunque altro”. “ Fa’ quel che fanno i Jones”, e cioè “Fa’ quel che fanno gli altri”. Ma il nome non può lasciarci indifferente: F.A. Jones, e cioè Florentine Ariosto Jones. A quale bimbo americano, nato nel 1841, si dà il nome di Fiorentino Ariosto? Dante, Michelangelo e Leonardo: tutti possono chiamarsi così, ma Fiorentino Ariosto no. Ebbene, io lancio un’esca; nel 1838 muore a New York Lorenzo da Ponte, che sul finire del secolo precedente era stato poeta imperiale alla corte di Giuseppe II in Vienna, e compositore dei libretti d’opera delle “Nozze Di Figaro”, “Don Giovanni“ e “Così Fan Tutte” musicate da Mozart. In America Da Ponte si fece apostolo della cultura italiana ivi “assolutamente ignota”, diede lezioni dantesche ed aprì una libreria italiana. Ma anche ipotizzando che il padre di F.A. Jones fosse un frequentatore di tale libreria, la scelta del nome è tanto specifica da suggerire addirittura una discendenza italiana.

IWC calibro 52
Atto II: di male in peggio
Dunque, nel 1875 la Banca Commerciale di Sciaffusa rileva al prezzo definito “irrisorio” di 143.000 franchi, l’azienda in fallimento che era stata fondata nel 1868. La dizione americana di International Watch Company si trasforma in “Internationale Uhrenfabrik” che significava esattamente lo stesso, e ne diventa direttore generale un altro americano, Frederik Frank Seeland. L’auspicato rilancio dipende dal possibile successo dei nuovi “calibri Seeland”, progettati allo scopo precipuo di ridurre drasticamente i costi di produzione: mentre il miglior calibro Jones costava 90 franchi, Seeland riuscì a contenere a soli 28 franchi il prezzo del suo calibro di punta. Va da sé che quest’economia all’osso non poteva che andare a discapito della qualità. La nuova politica aziendale, comunque, non ottenne il successo sperato: per fortuna, possiamo aggiungere a titolo di commento. Se le cose fossero andate diversamente, infatti, oggi non esisterebbe la IWC come la conosciamo: una manifattura famosa per lo straordinario livello dei suoi prodotti, perciò a Sciaffusa non sarebbe mai nata la “Grande Complication” da polso, che costituisce il tema fondamentale del nostro libro di riferimento. Per farla breve: nei quattro anni del suo mandato direttivo, Seeland non seppe resistere alla tentazione di manipolare i bilanci aziendali per ricavarne, ovviamente, un illecito profitto personale di ben 220.724 franchi. Dopodiché si dileguò fuggendo in America col malloppo. La sua casa con tutto il mobilio e perfino il suo calesse col cavallo furono messi sotto sequestro e venduti all’asta, ma ancora una volta l’azienda si trovò al tracollo. Finalmente, dopo essere arrivata al fallimento per due volte in dieci anni fu rilevata da Johann Rauschenbach-Vogel, industriale meccanico di Sciaffusa, e trasformata in un’impresa completamente svizzera. Già consocio anziano dell’azienda, e quindi fra le principali vittime di Seeland, Johann Rauschenbach intravvide subito la possibilità di un nuovo rilancio.



IWC sitema Pallweber a cifre ssaltanti
“Probus Scafusia”
Da quel momento l’azienda rimase di proprietà della famiglia per quattro generazioni. La ragione sociale divenne “Uhrenfabrik von Johann Rauschenbach”, che significa “Fabbrica di orologi Johann Rauschenbach”. Dopo la morte del proprietario il nome fu modificato in “Uhrenfabrik von J. Rauschenbach Erben”, e cioè Fabbrica d’orologi Eredi J. Rauschenbach”. Alla fine degli anni ‘20 il nome divenne “Uhrenfabrik Ernst Homberger- Rauschenbach”, quindi “Uhrenfabrik H.E.Homberger” e finalmente, agli inizi degli anni ‘70 ricompare il nome imposto dal suo fondatore: “Uhrenfabrik IWC, International Watch Co. H.E.Homberger AG”, in cui “AG” significa “Aktien Gesellschafft”, e cioè “Società per Azioni”. Dal 1978, dopo la più grande crisi che l’industria orologiera svizzera abbia mai attraversato e dalla quale la manifattura fu salvata grazie all’intervento finaziario del gruppo tedesco VDO - essa porta il nome attuale di “IWC, International Watch Co; AG”. Ma comunque, il marchio IWC che Jones aveva portato a Sciaffusa, è sempre rimasto parte dell’identità dell’azienda durante tutta la sua movimentata storia. Da quando la gestione Seeland non fu che un brutto ricordo, invece che in USA, secondo il proposito originale, la sigla divenne proprio in Europa il simbolo di orologi durevoli, di grande precisione ed affidabili in ogni circostanza. IWC ha dato l’ora esatta a sovrani, pontefici, uomini di stato ed esploratori celebri. Durante l’ultima guerra questi orologi marcavano il tempo sia a bordo dei sommergibili tedeschi che sugli aeroplani inglesi. Possedere un IWC e trasmetterlo in eredità alla generazione che segue è espressione di una costanza dei valori e di una comprensione del concetto di “qualità” considerate ancor oggi a Sciaffusa parte integrante e preziosa del capitale sociale. Durante i primi tempi che abitai in Svizzera (seconda metà degli anni ‘50), fui colpito dalla solerzia con cui i miei famigliari badavano ad acquistare determinati prodotti, dal burro ai fiammiferi, da prodotti industriali a prodotti d’abbigliamento, recanti un piccolo marchio: la balestra di Guglielmo Tell. Seppi poi che quei prodotti erano della massima qualità svizzera e godevano della piena fiducia degli acquirenti. Esistevano anche altri marchi di qualità, conferiti a quelle fabbriche che raggiungevano determinati standard in vari settori, per esempio lo scudetto con al centro la croce federale che contrassegna i coltellini Victorinox e Wenger, ed io sono ben lungi da conoscerli tutti. La dicitura “Probus Scafusia”, che è il marchio della qualità affidabile di Sciaffusa, viene impressa su ogni orologio IWC a cominciare dalla fine dell’800, e costituisce ancor oggi l’impegno della casa a produrre sempre il meglio.

La Grande Complication da taschino
Le tappe fondamentali
Il mese scorso abbiamo pubblicato l’immagine del “primo IWC” corredata da una fuggevole didascalia. Considerando che, nonostante le sfortunate vicende che all’inizio sembrarono spezzare il volo della fabbrica di Sciaffusa, sin dai suoi primi modelli l’IWC conquistò l’attenzione ed il rispetto del gran pubblico e degli esperti, sarà bene riprenderlo e dare una migliore descrizione del “calibro Jones”. Purtroppo, come abbiamo già detto, del fondatore Jones non si è riusciti a trovare neanche una fotografia. L’orologiaio di Boston ci ha però lasciato un’inconfondibile espressione di sé col calibro per orologi da tasca che prende il suo nome, calibro che ha continuato ad essere costruito fino alle soglie del 1890. Le sue caratteristiche peculiari sono: la tipica platina da 3/4, lo scappamento ad àncora svizzera in linea retta, il bilancere bimetallico compensato, la racchetta extralunga per la regolazione di precisione della marcia. Questo “Jones” con movimento n. 1410 e l’incisione della data di fabbricazione (15 settembre 1868), con la cassa in oro a 18 carati, comprova anche l’esattezza dell’anno di fondazione dell’IWC a Sciaffusa, il 1868. L’aggiunta “New York” al logotipo della casa si dimostra giustificata dal fatto che, all’inizio, Jones produceva solo per il mercato americano. Questi particolari sono visibili nella seconda foto del calibro Jones pubblicata nella puntata precedente. Per la sua enorme importanza storica, dobbiamo segnalare l’”IWC digitale”, un modello che, a partire dal 1884, ha fatto scalpore in orologeria. Questo IWC da tasca con indicazione digitale, prodotto a Sciaffusa, ha precorso i tempi di almeno ottant’anni. L’IWC chiuse comunque molto presto questo capitolo: l’invenzione dell’ingegnere austriaco Joseph Pallweber, legato contrattualmente all’IWC, non riuscì a detronizzare l’indicazione analogica a lancette. Quest’ orologio sistema Pallweber, con cassa d’oro in versione Savonnette o Lépine fornisce un’indicazione simultanea delle ore e dei minuti nella grafica allora di moda. Anche Ferdinando I, Zar di Bulgaria, ne possedeva un’esemplare fabbricato nel 1884/85. C’è poi il cosiddetto “IWC di lunga vita”. Il calibro 52 è stato uno dei movimenti per orologi da tasca più utilizzati dalla manifattura. La sua costruzione accurata e precisa ha reso nel mondo famosi gli orologi IWC verso la fine dell’800 ed anche per molti anni successivi. La caratteristica qualitativa più particolare è la regolazione di precisione detta a “collo di cigno”, l’invenzione di maggior successo fra tutti i dispositivi di correzione degli errori di marcia. La sua realizzazione si deve all’americano George P. Reed, che per lungo tempo aveva lavorato presso la “E. Howard Clock & Watch Co.” di Boston, la fabbrica in cui Jones aveva iniziato la sua carriera di orologiaio. L’”IWC complicato“: a partire dal 1890 la IWC comincia a creare regolarmente nuovi prodotti di particolare livello, generalmente in quantitativi limitati. Uno di essi è la Grande Complication da tasca, che ancor oggi può essere fornita su ordinazione. Per questo capolavoro meccanico sono ancora disponibili soltanto pochi movimenti di base, costruiti diverse decine d’anni fa. Negli anni ‘30 e ‘40 le forze armate di molti paesi si servirono dei cosiddetti “orologi di controllo” costruiti a Sciaffusa. Questi modelli venivano impiegati tanto nei sommergibili quanto sulle navi di superficie. Gli orologi, con un movimento di precisione, spirale Breguet, regolazione fine e bilanciere compensato dovevano garantire i massimi livelli di precisione e robustezza.

Lo storico Fliegeruhr, l'orologio dell'aviatore
Ancora oggi, nei moderni sommergibili della marina tedesca continuano a prestare servizio i tradizionali IWC meccanici. Passiamo all’IWC con calendario: agli inizi degli anni ‘70, con i modelli da tasca ormai da tempo soppiantati da quelli da polso, l’IWC costruì un nuovo modello con calendario e fasi lunari molto complesso, ma di facile consultazione. Il movimento è un 17 linee, calibro 9721 con scappamento ad àncora, 31 rubini, regolazione di precisione e protezione antiurto. Questo “classico” ha rappresentato per la IWC il trampolino di lancio per arrivare al perfezionamento di meccanismi ancor più complessi; rappresenta quindi una colonna della Grande Complicaton da polso. C’è poi un IWC definito “Anticonformista”: chi mai poteva concepire un classico orologio da tasca non soltanto impermeabile, ma addirittura antimagnetico, grazie alla cassa supplementare interna in ferro dolce? Solo l’IWC, naturalmente. L’Ingenieur SL d’acciaio in versione Lépine conferma, nella nostra età moderna, la tradizione della fabbrica d’orologi da taschino per eccellenza. Per chi non è disposto a nessun costo a lasciarsi “ammanettare” il braccio, l’Ingenieur SL è la perfetta alternativa agli omonimi modelli da polso di grande successo. Passiamo poi ad un modello da polso, il Fliegeruhr, l’orologio per aviatori, con cassa in acciaio antiriflesso, quadrante nero e grandi indici trattati con materiale luminescente. A partire dal 1940 è entrato in dotazione ai piloti della RAF (Royal Air Force, l’aviazione militare britannica). Il movimento è da tasca, a 19 linee. Si tratta in sostanza del precursore di tutta una generazione di orologi, il cui successo dura ancora oggi: i famosi “Ingenieur”, noti tra l’altro per la particolare resistenza alle sollecitazioni e dotati di speciale protezione antimagnetica.
Marino Mariani

(Foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)

lunedì 22 novembre 2010

I Fondamenti della Nutrizione Umana 1a parte


Io e Ludovica
Non so come abbiano fatto, ma gli scienziati hanno determinato che, originariamente, l’uomo era un roditore arboricolo, cioè che viveva sui rami degli alberi, ed una volta detto questo ognuno può indovinare che il suo nutrimento doveva consistere in noci, frutti e, forse, germogli e ramoscelli. Attraverso chissà quante successive trasformazioni l’uomo è arrivato ad essere quello che, oggi, tutti noi siamo: un animale che, grazie alle sue invenzioni, e prima fra tutte quella del fuoco, oggi viene definito omnivoro, che può mangiare di tutto. La prima cosa che viene in mente è che il fuoco sia servito ad arrostire gli animali, frutto della caccia e dell’allevamento. Pochi pensano che prima della carne arrostita il fuoco abbia permesso di mangiare i cereali sfaldando la struttura degli amidi, indigeribili a temperatura ambiente. La cottura consente di mettere fuori combattimento il fattore inibitore della tripsina, che rende tossici fagioli, ceci e tutte le leguminose. Ed è sempre la cottura che permette di eliminare l’acido prussico dalla cassava, il tubero che costituisce l’alimentazione principale di numerose popolazioni dell’Asia e dell’Africa e che da solo costituisce la terza fonte di carboidrati di tutto il mondo, battuto, seppure, dalla coltivazione della canna da zucchero. C’è anche il partito dei “crudisti”, che sostiene che i cibi bisogna mangiarli crudi perché la cottura distrugge le vitamine. Ma esaminiamo un problema alla volta.
In virtù della cottura, l’uomo può mangiare di tutto. È dunque omnivoro? Sì, no, anzi, purtroppo…Rimane il fatto che, nonostante tutte le sue trasformazioni, il condotto digerente dell’uomo rimane troppo lungo per la digestione ottimale della carne, mentre la sua dentatura non è quella di un felino fatta su misura per dilaniare la carne: i suoi molari sono come la macina d’un mulino che trita i cereali. Le graduali trasformazioni subite dall’uomo nel corso della sua evoluzione non lo hanno avvicinato all’archetipo di un carnivoro. Testi moderni affermano che carne e pesce possono essere inclusi nell’alimentazione umana, ma sono inutili: di fatto tutto ciò che è necessario (e sufficiente) alla nutrizione umana si trova all’interno del mondo vegetale, mentre di tutto quello che si trova nel mondo animale niente è indispensabile. Ma caro autore di questo saggio, ti sei dimenticato della vitamina B12 che non si trova in nessun vegetale e rimane un’esclusiva del mondo animale! Risposta: la quasi totalità dei medici passa la propria vita professionale senza avere l’opportunità di diagnosticare su nessun paziente i sintomi di una carenza di questa vitamina. In effetti l’essere umano ha bisogno di quantità infinitesimali di vitamina B12, e per quanto piccole possono essere le sue riserve, queste gli bastano per anni ed anni. È probabile che in qualche sito del suo intestino l’organismo dell’uomo produca quegli infinitesimi di cobalamina necessari all’espletamento di determinate funzioni. O anche che la natura provvida…

Un classico fornitore di vitamina C
La natura provvida
La cosiddetta natura provvida è un concetto scientifico profondissimo che, tradotto nel linguaggio popolare in divina provvidenza, fa pensare all’esistenza di entità esterne e superiori che osservano e giudicano l’insieme degli avvenimenti, ed adottano determinate misure atte a salvaguardare, innanzitutto, i nostri interessi. In realtà tutte le funzioni attribuite alla natura provvida sono individuate, sono osservate, sono subite, e sono adottate non dall’esterno, ma dall’interno dell’organismo vivente indipendente che viene denominato unità autopoietica nella definizione stabilita dai biologi cileni Maturana e Varela nel loro libro L’albero della conoscenza: una unità autopoietica, cioè un organismo vivente indipendente, per mantenersi in vita, deve rimanere in equilibrio con il mondo esterno, inteso non solo come gli agenti atmosferici o animali feroci, ma anche contro gli attacchi microbici, cioè contro le malattie. Ebbene, determinate vitamine e gli anticorpi necessari per mantenere il proprio equilibrio vitale l’unità autopoietica (in pratica: l’uomo) li produce autonomamente, altre vitamine le deve assumere dall’esterno sotto forma alimentare. La vitamina più importante per la salute dell’uomo è la vitamina C, che l’uomo non produce autonomamente per la semplice ragione che essa è contenuta in quasi tutti gli alimenti che l’uomo abitualmente consuma. E così la vitamina B12 che è, sì, necessaria, ma ne basta talmente poca che anche un vegetariano se la può procurare…inconsapevolmente. Come? Quand’ero ragazzino e vivevo in paese, andavo insieme ai ragazzacci a rubare uva, fichi, mele e pomodori (per questi ultimi ognuno di noi portava in tasca una cartatina di sale), e mangiavamo il frutto delle nostre razzie senza lavarlo. Chissà quanti moschini e vermetti abbiamo mandato giu! Comunque nessuno di noi era vegetariano. Ebbene, se un vegetariano è scrupolsamente igienista e lava a fondo frutta e verdura, proprio per evitare di mandar giu qualche moschino, la natura provvida, detto senza ironia, gli viene incontro anche se non se lo merita. Come? Avrete sentito parlare di lievito naturale: è quello di cui si tiene da parte una certa quantità quando si prepara una pasta per pane o pizza, e che viene riusato per successivi impasti senza andare a comprare nuovo lievito di birra, e lo si fa durare per mesi ed anni. Oppure che si va a comprare, per la prima volta in farmacia. Questo è ciò che dice e fa la gente. Ma il lievito naturale genuino, quello che faccio io, è quello che si ottiene mettendo in una ciotola acqua e farina, ed aspettando che lieviti da sé in virtù dei microorganismi che sono dovunque attorno a noi, anche se non li vediamo. Ebbene, io penso che se i vegetariani stanno così bene in salute, è segno che la vitamina B12 gliela forniscono proprio i microorganismi che fluttuano nell’aria.
Mi sono proposto di scrivere questa serie di articoli senza usare termini scientifici ignoti alla maggioranza, e quindi vi sono debitore di qualche chiarimento sulle unità autopoietiche. Ebbene, in scienza, qualsiasi forma di vita, vegetale o animale, non la si fa nascere e prosperare per volontà di Dio, ma la si lascia fare tutto da sola. L’autopoiesi è il far tutto da sé, assumendosi in proprio la piena responsabilità della condotta di vita, del mantenimento della propria esistenza, del mantenimento della specie per il tramite dell’unione tra i sessi e la produzione di figliolanza.

Il finocchio ha più calcio del latte
Il mistero del calcio
Il calcio, il principale elemento costitutore dell’ossatura e della dentatura dell’essere umano, è il quinto per abbondanza (in peso) su questo pianeta, il quale, da questo punto di vista, può essere considerato un vero e proprio paradiso terrestre permanente per tutti gli animali tra cui, ed in prima fila, l’uomo. Quando gli scienziati indagano se su altri pianeti esistano condizioni favorevoli alla vita, e prendono come criterio discriminante la presenza di acqua, prendano informazioni anche sulla presenza del calcio. Ebbene, sulla Terra di calcio ce n’è tanto da trasformare, nel breve volgere di pochi decenni, il nostro paradiso in un vero e proprio inferno terrestre. Non vi parlo di secoli fa, ma di quando io ero giovane. Come ho dichiarato nel mio articolo di autopresentazione “Chi Sono”, al tempo mio la parola cancro non veniva mai pronunciata, e la malattia denominata “osteoporosi” non esisteva. L’osteoporosi è lo sfaldamento delle ossa dovuto a mancanza di calcio. Il fatto è che il calcio, come tutti gli elementi di cui l’uomo e gli animali si nutrono, per essere assimilato deve essere ingerito sotto forma organica: l’uomo e gli animali possono nutrirsi solo di altri esseri viventi, e tra questi, anzi in prima fila, comprendiamo anche le piante. Ebbene, il ciclo del calcio alimentare nasce dalle piante: di tutte le entità viventi solo le piante sono capaci di metabolizzare il calcio minerale, è da loro che dipende l’esistenza dell’uomo e di tutti gli animali. Quindi correggo il mio consiglio agli astronomi e agli astronauti: guardate se ci sono le piante. Naturalmente le piante, oltre al calcio, danno all’uomo ed agli animali tutto: gli elementi e le vitamine di cui ha bisogno (d’accordo, esistono gli animali carnivori, ma se ci fate caso questi mangiano di regola animali erbivori, quindi…). In definitiva il problema del calcio nell’alimentazione umana è una creazione umana: esso si trova in tutte le piante, e per sfruttarlo al 100% basta non farselo sottrarre da alimenti innaturali come il latte e tutti i suoi derivati: latte e formaggi nel corso dei secoli non hanno mai messo in pericolo la salute dell’uomo, perché venivano consumati in modeste proporzioni, ma adesso che queste proporzioni sono diventate spropositate, gli effetti nefasti non hanno tardato a manifestarsi. Il latte, oggi, assieme alla carne dei bovini, viene considerato il meccanismo che crea i maggiori profitti, per cui gli allevatori, che destinano al loro bestiame la grandissima maggioranza dei cereali prodotti nel mondo, non solo si arricchiscono, ma creano la fame nel mondo.

Broccoli: calcio, vitamine, fibre e sali in poche calorie
I limiti della vita
Latte e formaggi, ho detto, ma aggiungiamo subito: carne e pesce, zucchero ed alcool, nei tempi passati non venivano consumati nelle frenetiche percentuali dei nostri tempi, e quindi non mettevano in pericolo la sopravvivenza del genere umano. Ma va osservato che in altre epoche la vita media delle popolazioni era talmente bassa da non consentire a certi malanni di manifestarsi prima della morte del soggetto. Ora, dalle nostre parti, la vita ha raggiunto limiti cosi estesi che città e paesi pullulano di vecchi invalidi, storti e deformati, tremolanti o irrigiditi, sostenuti e sospinti da quel ben del cielo che sono le badanti. E come i marabù sorvegliano dall’alto gli animali in fin di vita e volteggiano sulle discariche, così le badanti affluiscono in massa nei paesi ricchi…di vecchi da badare! Ma è possibile giungere ai limiti della vita in condizioni…umane, non disumane. Mantenendo efficienza fisica e creatività mentale, sentendo ancora brulicare in sé il giovanile torrente del benessere vitale invece del livido ristagno del patimento, dello stento, dell’infausta attesa di una fine liberatoria? Io dico di sì. Non lo so di sicuro, ma ho fede in me stesso, e vivo per essere la prova provata di questo credo. Ebbene, alla domanda se l’uomo è omnivoro, e tanto meno (o tanto più) carnivoro, è inutile rivolgersi ai premi Nobel, ai primari, ai medici di famiglia, al presidente della Corte Costituzionale ed all’allenatore della nazionale. Può essere carnivora una pecora senza zanne e senza artigli? E noi che zanne ed artigli abbiamo? Però la carne la mangiamo: sì, ma la paghiamo cara. La sofferta vecchiaia che vediamo per strada, nei giardinetti, negli ospedali e in casa nostra è la risposta ad ogni domanda. Ed oggi il declino e la morte non sono una rapida vicenda, ma un calvario, per il soggetto e la sua famiglia, che può durare dieci, venti ed anche trent’anni. Ma noi saremmo disposti a passare anche il doppio di questo tempo, tutta la nostra vita, per curare un nostro caro sofferente, un nostro genitore, un nostro figlio, senza speranze concrete, ma nella fede che il nostro sacrificio, la nostra dedizione, possano determinare un miracolo.

Allevamento di salmoni in Norvegia
L’alimentazione naturale
Quando ero piccolo.., anzi quando da grande portavo mia figlia al giardino zoologico, c’era un guardiano che tirava le mele ad un orso bruno, che le afferrava al volo e se le mangiava. Nella seconda Egloga di Virgilio, il possidente Coridone fa una corte spietata al bel giovane Alessi, gli promette mari e monti, tra cui:
                                        
                                           Ho due caprioli presi in una forra
                                            che di pecora succhiano le poppe
                                            due volte al dì. A te ne faccio dono

Ed inoltre, in Svizzera (di cui sono cittadino) le due maggiori ditte alimentari, Migros e Coop, si fanno guerra a colpi di offerte sensazionali nel campo della nutrizione sana e naturale. L’ultima offerta che ho seguito era quella del “Salmone Biologico” che, approfondendo, era allevato in fredde acque limpidissime  e nutrito a granturco di coltura garantita assolutamente biologica. E così il mondo mi si rivolta contro: l’orso è un pericoloso animale carnivoro. Ogni tanto, allo zoo, qualche fesso scavalca lo steccato e si butta nelle sue braccia pensando di scambiare un goliardico saluto, e viene sbranato. Quanto ai due caprioli di Virgilio che vanno a sbafare il latte alle pecore, anche qui vengo contraddetto quando affermo che nessun animale, da adulto, si nutre ancora di latte, specie di razza diversa. E che dire dei salmoni, che sono voraci predatori marini (come anche i tonni) allevati a granturco? Dico che tutti gli animali, compreso l’uomo, sono suscettibili di una certa malleabilità epigenetica che consente all’orso di fare il fenomeno da baraccone, e ai due caprioli di concedersi un peccato di gola. Quanto all’allevamento dei salmoni a granturco, questo è un delitto contro la natura che non verrà mai perdonato. Diciotto anni fa comprai un libro in tedesco: “Das Imperium der Rinder” ( L’impero dei bovini), di un autore che assolutamente non conoscevo: Jeremy Rifkin, versione dell’originale americano “The Rise and Fall of the Cattle Culture” (Ascesa e caduta dell’allevamento dei bovini). Dopo qualche pagina fui costretto ad abbandonarne la lettura: la mia sensibilità rifuggiva da venire a sapere a quante e quali atrocità venivano sottoposte quelle povere bestie, nutrite con un cibo infame frammisto di cartone, cartongesso e cemento. Tutto per avere kilogrammi in più e giorni di lavoro in meno per l’allestimento di succulenti american steaks e fiorentine. Qualche tempo fa ho ripreso quel libro, e volevo pubblicarne qualche brano su questo giornale, quando mi accorsi che è stato stampato in italiano col titolo (appropriato) di “Ecocidio” (Mondadori 2001). Su Wikipedia (Internet) c’è una presentazione del libro con un riassunto molto cauterizzato della materia, che vi passo:

Jeremy Rifkin
“……La narrazione prosegue con la colonizzazione del Texas ed il conseguente sterminio gratuito dei bufali (unica fonte di sostentamento degli indiani) che saranno rimpiazzati da bovini d’allevamento. Rifkin descrive con dovizia di particolari la via crucis degli animali destinati alla macellazione: appena nati vengono imbottiti di antibiotici e, una volta cresciuti, trasportati in pessime condizioni al macello su camion. Alcuni cadono durante il viaggio, venendo così calpestati dagli altri per il poco spazio a disposizione, ed una volta arrivati vengono sospinti agonizzanti per l’ultimo tratto. Caduti e no tutti arriveranno a trasformarsi in “pezzi di carne non più riconducibili ad un corpo”. L’autore apre inoltre una panorammica sulle cattive condizioni dei macelli americani sin dai primi anni del Novecento, dove la carne macinata equivaleva a carne andata a male o caduta per terra e triturata insieme ai topi e ai loro escrementi. Viene affrontato anche il tema delle malattie bovine, sempre più diffuse e sempre più simili a quelle umane, come il virus della leucemia bovina (che fra l’altro si è dimostrato in grado di attaccare le cellule umane) ed il morbo della mucca pazza, che alcuni studiosi hanno pensato sia dovuto alla somministrazione agli animali di mangime contenente midollo di pecora infettata dalla “scrapie”. Rifkin riesce a far apparire l’uomo come un avvoltoio in cerca di cadaveri, quelli che ogni giorno portiamo sulla nostra tavola, che camuffiamo per renderli simili al cibo che cresce sugli alberi: niente farebbe pensare che il petto di pollo panato sia un pezzo di pollo, appunto. L’essere umano è descritto in tutto il suo aspetto di traditore, che uccide e tratta gli animali utili, quali mucche e galline – che gli regalano latte e uova – come semplici riserve di cibo create apposta per se stesso. Ma sarà così? Il mondo è stato davvero creato solo per la specie umana?
Rifkin consigllia di diventare vegetariani per non essere conniventi con la mostruosa industria della carne, e conclude il suo saggio con la proposta (o utopia) di un nuovo inizio per l’uomo nel rispetto dei diritti animali”.

Allevamento ideale di bovini allo stato brado (Italia, Collalto)
Chi sa il tedesco e l’inglese può cercare su internet i titoli originali che ho citato prima, e troverà ampie recensioni del libro di Rifkin. Comunque ho trovato una recensione di Francesca Colesanti (il Manifesto) che fa un quadro molto somigliante di questo libro, e la pubblicherò senz'altro. I lettori farebbero bene a comprarsi il libro. E torniamo al tema dell’alimentazione naturale: è vero che Rifkin consiglia di diventare vegetariani per non essere conniventi con la mostruosa industria della carne, ma l’uomo “è” vegetariano, e la sua alimentazione basata su carne e lartticini è innaturale e di ripiego, quando non giunge al limite del contro la natura. Ho parlato di malleabilità epigenetica cioè quella capacità di incorporare qualche piccola variante al patrimonio genetico, qualche piccola deroga all’immutabilità del DNA (ipotesi che determinò, all’inizio dell’ottocento, la disputa tra gli epigenetici (Lamarck) e i preformisti (Buffon), e poi, nell’Unione Sovietica, tra Michurin e Lisenko. Gli epigenetici sostenevano l’ereditarietà dei carateri acquisiti). Ebbene, in tutti i reperti umani, non è stato mai riscontrato che l’uomo avesse mai avuto zanne ed artigli, né questi sono spuntati ultimamente, nel pieno di un regime capitalistico che si arricchisce producendo bistecche, latte, prodotti caseari….L’uomo ha bisogno non solo e non tanto di calorie, quanto di un insieme di sali, vitamine e fibre alimentari che sono tutte fornite in soverchiante abbondanza ed a titolo assolutamente gratuito dal mondo vegetale. Dico a titolo assolutamente gratuito intendendo: senza alcuna ccontroindicazione. Qualche vegetale ha le sue controindicazioni, ma ha un infinito numero di alternative assolutamente sane. Le controindicazioni del mondo vegetale consistono nella presenza di acido ossalico (che favorisce la formazione dei calcoli), di alcaloidi, di caffeina….piccolezze. Al contrario tutti i cibi provenienti dal mondo animale hanno controindicazioni, non sono quindi gratuiti, per consumarli è necessario pagare uno scotto. Non c’è prodotto animale che non contenga colesterolo. I grassi animali sono di tipo saturo. Le proteine animali, che il nutrizionista becero definisce nobili, sono acidificanti, ed inoltre sono generalmente degradati dai metodi di allevamento: negli allevamenti non si aspetta che la Bianchina mostri qualche segno di malessere per chiamare il veterinario. A titolo precauzionale gli animali vengono giornalmente imbottiti di medicinali sin dall'inizio. Ovviamente il discrimine tra gli alimenti consigliati e quelli sconsigliati non dipende soltanto dall’appartenenza alla flora o alla fauna, e questo lo vedremo in seguito.
Marino Mariani


(Foto Google di dominio pubblico. Click per ingrandire)

venerdì 19 novembre 2010

Prosphore e Palamarke

Di Luciano Zambianchi

Orologio del periodo ellenistico: 1° secolo avanti Cristo
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Foto 1
Foto 2
"Smettila di dire cose strane!” mi ha intimato un amico a cui stavo raccontando di alcuni oggetti che avevo appena acquistato. In questo caso aveva ragione, questi nomi non sono riportati nei dizionari della lingua italiana e sono usati solo da specialisti in Religione Cristiano Ortodossa e in Etnologia. Ho potuto notare però che, anche se non parlo di prosphore, da quando mi sono dedicato più assiduamente allo studio ed alla riparazione degli orologi vecchi i miei interlocutori spesso arricciano il naso e fanno finta di capire quello di cui sto parlando. Quel che è più preoccupante è che quando me ne accorgo e provo a spiegare in modo descrittivo l’uso o la funzione di uno di quegli strani pezzi che compongono gli orologi sembrano diventare assenti, come se stessi parlando un’altra lingua. Ho chiamato vecchi e non antichi i miei orologi per non sentirmi troppo fuori dal mondo ma, anche se la cosa non farà piacere  

Foto 3
Foto 4
ai sessantenni, dovete sapere che molte case d’asta definiscono d’antiquariato oggetti che hanno più di sessanta anni. Per aiutarvi a comunicare con gli amici che amano gli orologi, nella speranza di avere tra i lettori anche qualche mio amico, ho pensato di mettere a disposizione un semplice lessico con i nomi meno usuali, anche se rigorosamente in lingua italiana e presenti nei vari dizionari. Ho già avuto occasione di dire che l’orologio può essere considerato composto da settori, iniziamo dalla CASSA: (foto 1) riporto qui molte figure tratte da un testo fondamentale di orologeria “L’Orologiaio Riparatore” di Ronald De Carle edito da Hoepli nel 1948, fanno parte del settore CASSA la cassa vera e propria, il quadrante, il vetro e le lancette (o sfere). In questo settore le parole più strane sono:
Pendente: è il raccordo in cui è fissato l’anello su cui si attacca la catena, di solito è sovrastato dal bottone di carica e finisce nel castello.
Castello: è la parte centrale della cassa, quella a cui va fissato il movimento.
Cuvetta: è il fondo interno della cassa, di solito è la prima protezione del movimento.
Lunetta: a volte fissata a incastro altre avvitata o fissata da una cerniera, è l’anello che tiene il vetro nella giusta posizione e distanza dal quadrante.
Il movimento (la macchina vera e propria) può essere considerato composto dal MOTORE, dal REGOLATORE, dalla TRASMISSIONE, dalla RIMESSA; tutte queste parti sono fissate sulla parte anteriore o posteriore della platina.

Foto 5
Platina: la piastra metallica che costituisce il corpo principale del movimento degli orologi meccanici su cui sono montati tutti i componenti, dal Grande dizionario Garzanti della lingua italiana (foto 2).
Incominciando ad illustrare la parte posteriore della platina (quella che di solito si vede quando si apre la cassa di un orologio) le prime cose da notare sono i ponti.
Ponti: parti metalliche che servono da sostegno e collegamento tra i vari componenti e settori dell’orologio. Dal punto di vista tecnico più ponti ci sono e più il meccanismo è di pregio, fino ad arrivare a movimenti in cui ogni componente è sorretto da un suo ponte. Nell’immagine riportata che potete confrontare con un orologio della mia collezione di cui mostro la foto (si tratta di un modello più vecchio di qualche anno e prodotto per il mercato americano, foto 3), si possono vedere i settori così come ne ho proposto la divisione, ad ogni settore corrisponde uno o più ponti. I nomi meno usuali sono (nel settore MOTORE):
Foto 6
Bariletto: il recipiente in cui è rinchiusa la molla di carica, collegato alla TRASMISSIONE del movimento tramite una ruota dentata o una corda (negli orologi più antichi) o una catena (negli orologi inglesi).
Nel settore REGOLATORE abbiamo alcuni termini strani:
Pitone: il perno di varie forme e misure su cui è fissata (con una spina) la molla a spirale del bilanciere
Spirale: molla che con la sua forza fa oscillare la ruota del bilanciere e quindi determina il tempo di oscillazione (se troppo lunga l’orologio ritarderà vistosamente, se troppo corta l’orologio andrà troppo velocemente). La molla a spirale è fissata al perno del bilanciere tramite una viròla (foto 4).
Viròla: anellino di ottone (di solito aperto) che si trova al centro della molla a spirale e che si infila a pressione sull’asse del bilanciere.

Foto 7
Racchetta (con le sue spinette): è la linguetta di metallo che permette una regolazione fine della tenuta dell’orario, grazie alle due spinette che agiscono direttamente sulla molla a spirale.
La parte anteriore della platina di solito è coperta dal quadrante (foto 05), l’immagine mostra il settore della RIMESSA dell’ora, oltre alle ruote su cui vengono fissate le lancette. In questa macchina è presente un tiretto.
Tiretto: levetta dell’orologio che si aziona tirando in fuori il pulsante di carica e che mette in funzione il meccanismo di messa all’ora.
Sull’albero di centro c’è quasi sempre un rocchetto calzante su cui viene infilata la ruota delle ore.
Rocchetto calzante: trasmette il lavoro fatto dal movimento alle ruote delle ore e dei minuti, spesso è lui responsabile della “frizione” che, quando non è ben regolata, fa slittare le lancette delle ore e dei minuti, anche se la lancetta dei secondi, che dipende da un’altra ruota, gira in modo corretto.
Per ora permettetemi di interrompere qui questo mini dizionario di termini tecnici legati all’orologeria. Solo altre due cose per non lasciare con la curiosità chi mi segue.

Foto 8, 9, 10

Prosphora: uno stampo di solito in legno, ma anche in metallo, usato dai Cristiani Ortodossi per imprimere la filigrana alle ostie da comunione. Quasi sempre le prosphore ortodosse contengono la scritta NIKE o HIKA e ICXC (a ricordare che l’ostia è il corpo di Cristo vincitore) (foto 6 - 7).
Palamarka: è una specie di guanto di legno (caratteristico della Bulgaria) indossato dalle ragazze in campagna quando raccolgono le spighe in covoni. In pratica sono robuste prolunghe per le dita. (foto 8 - 9 - 10). Se con queste informazioni non riuscirete a stupire gli amici consolatevi pensando alla soddisfazione di rispondere: “SI!” nella rubrica “Lo sapevate?” della Settimana Enigmistica.

Didascalie:
Foto  1: la cassa di un Omega da tasca, con i nomi delle sue parti
Foto  2: disegno della platina posteriore con i nomi dei componenti
Foto  3: un orologio Omega da tasca calibro 18S, anteriore d'una ventina d'anni rispetto ai disegni
Foto  4: la molla a spirale con la virola d'ancoraggio
Foto  5: la parte anteriore della platina che solitamente è coperta dal quadrante
Foto  6: alcune mie prosphore
Foto  7: le incisioni grazie alle quali rimane la filigrana sulle ostie
Foto  8: una Palamarka vista dal lato da cui si indossa
Foto  9: la Palamarka con i buchi dei tarli e la siglia della proprietaria in evidenza
Foto 10: la Palamarka vista da sotto con i segni prodotti dalle spighe


Foto 1, 2, 5 da "L'0rologiaio Riparatore" (Hoepli 1948). Tutte le altre sono dell'autore